Questa volta si chiamava Patricia.
Patricia Wellton.
Città nuove. Nome nuovo.
All’inizio, molto tempo prima, la cosa piú difficile era proprio rispondere quando i portieri d’albergo o i tassisti la chiamavano, ma ormai non era piú cosÃ: si calava nella nuova identità non appena si ritrovava in mano i documenti. Fino a quel momento solo una persona si era rivolta a lei con quel nome, durante il viaggio. Era stato a Östersund, quando l’impiegato dell’autonoleggio era uscito a dirle che l’auto che aveva prenotato era pulita e pronta per partire.
Era atterrata in orario, alle cinque e qualcosa del mercoledà pomeriggio, e aveva preso il treno diretto da Arlanda al centro di Stoccolma. Nonostante fosse la sua prima visita nella capitale svedese, si era limitata a una poco esaltante cena di buon’ora in un ristorante nei pressi della stazione.
Alle ventuno meno qualche minuto era salita sul treno notturno che l’avrebbe portata a Östersund. Aveva prenotato una cabina letto singola, ma non perché pensasse che qualcuno sarebbe mai riuscito a rintracciarla, a prescindere dal numero di persone che avessero eventualmente fornito a polizia e autorità la sua scheda segnaletica: semplicemente, non le piaceva dormire con altri. Non le era mai piaciuto.
Non con le compagne di pallavolo quando da ragazza partecipava ai tornei.
Non durante la formazione, né alla base né sul campo.
Tanto meno nello svolgimento di un incarico.
Dopo che il treno era partito dalla stazione era andata al vagone ristorante, aveva comprato una bottiglietta di vino bianco e un sacchettino di arachidi ed era tornata nel suo scompartimento a leggere I Know What You’re Really Thinking, un libro uscito da poco con un sottotitolo vagamente fuori dagli schemi: Reading Body Language Like a Trial Lawyer. La donna che per l’occasione si chiamava Patricia Wellton non sapeva se gli avvocati penalisti fossero particolarmente abili nell’interpretare il linguaggio non verbale, o almeno non si era mai imbattuta in qualcuno che si fosse distinto in quell’ambito ma, se non istruttivo, il libro era comunque breve e godibile. Poco dopo l’una si era infilata tra le lenzuola bianche e aveva spento la luce.
Cinque ore piú tardi era scesa a Östersund, aveva chiesto la strada per un albergo dove aveva consumato una lunga colazione e poi era andata all’ufficio dell’Avis, in cui aveva prenotato l’auto. Aveva dovuto aspettare che la macchina venisse pulita e controllata, e nell’attesa le era stato offerto un caffè del distributore automatico.
Una Toyota Avensis nuova, grigia.
Dopo poco piú di cento chilometri arrivò a Åre. Aveva rispettato i limiti di velocità per tutto il tragitto. Era inutile prendersi una multa, anche se nella pratica non avrebbe cambiato niente. A quanto aveva capito, i poliziotti svedesi non avevano l’abitudine, e forse neanche la prerogativa, di perquisire auto e bagaglio in caso di infrazioni lievi, ma l’eventuale scoperta che era armata avrebbe potuto mettere a repentaglio la missione. Non aveva documenti che l’autorizzassero a portare armi in Svezia. Se avessero trovato la sua Beretta M9 avrebbero fatto delle ricerche e sarebbe saltato fuori che Patricia Wellton non esisteva, se non là e in quel momento. Per questo tenne il piede leggero sull’acceleratore anche oltrepassando le piste da sci, ora coperte d’erba verde, ed entrando nel piccolo centro abitato sul pendio che scendeva verso il lago.
Fece una breve passeggiata, scelse a caso una tavola calda e ordinò un panino e una Coca light. Mentre mangiava controllò la cartina. Ancora poco piú di cinquanta chilometri sulla E14 prima di uscirne e lasciare l’auto, poi meno di venti da coprire di corsa. Guardò l’orologio. Calcolando tre ore per raggiungere la sua destinazione e un’altra per cancellare le tracce, due per tornare all’auto e fare rapporto… Sarebbe arrivata a Trondheim in tempo per prendere il suo aereo per Oslo ed essere a casa il venerdÃ.
Dopo una seconda passeggiata a Åre risalà in macchina e proseguà verso ovest. Nonostante il suo lavoro l’avesse portata in molti posti diversi non aveva mai attraversato un paesaggio del genere. Le montagne ondulate, la marcata linea degli alberi, lo scintillio del sole sull’acqua nella valle piú sotto… Sentiva che avrebbe potuto trovarcisi bene. Desolazione. Silenzio. Aria tersa. Là avrebbe voluto affittare una casetta isolata e fare lunghe camminate. Pescare. Vivere immersa nella luce d’estate e leggere davanti al camino nelle sere autunnali.
Un’altra volta, magari.
Probabilmente mai.
Quando vide un cartello che indicava a sinistra per Rundhögen uscà dalla E14. Poco dopo scese dall’auto a noleggio, prese lo zaino, tirò fuori la mappa dei sentieri e cominciò a correre.
Centoventidue minuti piú tardi si fermò. Aveva un po’ di fiatone ma non era stanca. Non aveva corso al massimo delle sue possibilità , neanche lontanamente. Si sedette sul pendio e bevve dell’acqua mentre la respirazione tornava in poco tempo alla normalità . Poi prese il binocolo e guardò verso la casetta di legno a circa trecento metri di distanza, identica a quella nella foto che le era stata fornita dal suo informatore. Si trovava nel posto giusto.
Se aveva capito bene, ormai era impensabile ottenere una licenza edilizia per costruire là alle falde della montagna, ma aveva saputo che la casetta risaliva agli anni Trenta. A quanto pareva, un qualche alto funzionario in buoni rapporti con gli ambienti di corte aveva bisogno di un posto dove riscaldarsi durante le sue battute di caccia lassú, e a dirla tutta non la si poteva neanche definire una casa, sà e no una baita. Quanto poteva essere grande? Diciotto metri quadrati? Venti? Pareti di tronchi, finestre piccole e un comignolo che spuntava dal tetto in cartone catramato. Due gradini che salivano a una porta sul lato corto e, a una decina di metri, un rustico piú piccolo, di cui metà con una porta – il gabinetto esterno, immaginò – e l’altra senza: probabilmente una legnaia, considerato che davanti c’era un ceppo.
Intravide qualcosa muoversi oltre la zanzariera verde. Lui era in casa.
Mise giú il binocolo, infilò di nuovo la mano nello zaino, tirò fuori la Beretta e avvitò il silenziatore con gesti veloci ed esperti. Poi si alzò, infilò l’arma nella tasca appositamente confezionata della giacca, si rimise lo zaino in spalla e cominciò a camminare. Ogni tanto gettava un’occhiata indietro, ma non c’era in giro nessuno. La baita si trovava a una certa distanza dal sentiero marcato, e alla fine di ottobre gli escursionisti non erano molti, in zona. Dal momento in cui aveva lasciato la macchina ne aveva incrociati solo due.
Quando le mancavano poco meno di cinquanta metri estrasse la pistola dalla tasca e la tenne lungo la gamba. Valutò le diverse possibilità : bussare e sparare quando lui avesse aperto o dare per scontato che non avesse chiuso a chiave, entrare e coglierlo di sorpresa. Aveva appena optato per la prima alternativa quando la porta si aprÃ. La donna s’irrigidà per un attimo ma subito dopo si acquattò fulminea. Un uomo sulla quarantina uscà sui gradini. Il terreno tutt’intorno era uno spazio sgombro, senza niente dietro cui nascondersi. Non le restava che starsene immobile. Un movimento avrebbe potuto attirare l’attenzione dell’uomo. La presa sulla pistola si strinse. Se lui l’avesse vista, lei avrebbe avuto il tempo di alzarsi e sparargli prima che scappasse. Quaranta metri e qualcosa: l’avrebbe sicuramente colpito e con ogni probabilità anche ucciso, ma non era cosà che voleva andassero le cose. Da ferito sarebbe potuto rientrare al coperto, e non era detto che dentro non avesse un’arma. Se si fosse accorto di lei, sarebbe stato tutto molto piú difficile.
Invece non la notò. Chiuse la porta, scese i due gradini, piegò a destra e si diresse verso il capanno. Lei lo vide afferrare l’accetta conficcata nel ceppo e cominciare a spaccare legna.
Si alzò cauta e si spostò leggermente a destra in modo da essere coperta dalla casa se l’uomo si fosse concesso una pausa, avesse raddrizzato le spalle e si fosse messo ad ammirare il paesaggio.
L’accetta. Poteva rappresentare un problema? Quasi di certo no. Se fosse andato tutto secondo i piani, l’uomo non avrebbe avuto il tempo di vedere in lei una minaccia, e ancora meno di attaccarla con un’arma da corpo a corpo come un’accetta.
Una volta arrivata alla casa si fermò, espirò, si prese alcuni secondi per concentrarsi e poi girò l’angolo.
L’uomo sembrò a dir poco sorpreso di vederla. Fece per rivolgerle una domanda, probabilmente per chiederle chi era, o forse cosa ci faceva lÃ, in mezzo alle montagne dello Jämtland, e se poteva esserle utile in qualche modo.
Non aveva importanza.
Lei non capiva lo svedese e in ogni caso non gli avrebbe dato una risposta.
La pistola silenziata tossà una sola volta.
I gesti dell’uomo si bloccarono all’istante, come se qualcuno avesse premuto il pulsante Pausa in un film. Poi l’accetta gli scivolò di mano, le ginocchia si piegarono a sinistra e il corpo cadde a destra. Un tonfo sordo quando i suoi ottanta chili toccarono terra. Era già morto, il cuore perforato dalla pallottola, nel momento in cui si accasciò in una posizione simile a quella laterale di sicurezza dei manuali di primo soccorso.
La donna raggiunse il corpo in tre passi, ci si piazzò sopra con le gambe divaricate e puntò calma alla testa dell’uomo. Un colpo alla tempia a tre centimetri dall’occhio sinistro. Sapeva che era morto, ma sparò lo stesso un’altra pallottola, sempre alla testa, a un centimetro circa dalla precedente.
Si mise in tasca la Beretta e si chiese se occuparsi in qualche modo del sangue a terra o lasciar fare alla natura. Anche se qualcuno si fosse insospettito non vedendo tornare il morto – e qualcuno l’avrebbe fatto, lo sapeva – e fosse venuto a cercarlo là nella piccola baita, non avrebbe mai trovato il corpo. Il sangue avrebbe indicato che gli era capitato qualcosa, nient’altro. Forse avrebbe pensato al peggio, senza però poter avere conferma dei propri sospetti. L’uomo sarebbe sparito per sempre.
– Papà ?
La donna estrasse l’arma nello stesso istante in cui si girò su sé stessa. Un solo pensiero le attraversò la mente.
Bambini. La presenza di bambini non era prevista.
Sentiva degli scossoni, anche se leggeri. Le spalle e la testa. Strano, perché non riusciva a conciliare quei sussulti con il sogno. Ma stava poi sognando davvero? Non era la stessa sequenza di sempre, in ogni caso. Niente manina stretta nella sua. Niente boato frastornante che si avvicinava inesorabile. Niente caos vorticoso. Eppure doveva essere un sogno, perché qualcuno lo chiamava per nome.
Sebastian.
Ma se stava sognando, cosa di cui non era affatto sicuro, se non altro era solo. Solo nel buio.
Aprà gli occhi e si ritrovò a fissarne un altro paio, azzurri. Sopra, capelli neri. Corti. Arruffati. Sotto, un nasino diritto e una bocca sorridente.
– Buongiorno. Scusami, ma volevo svegliarti prima di ...