Il romanzo della canzone italiana
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Il romanzo della canzone italiana

Storie, aneddoti e personaggi della canzone moderna (1958-2000)

Gino Castaldo

  1. 384 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il romanzo della canzone italiana

Storie, aneddoti e personaggi della canzone moderna (1958-2000)

Gino Castaldo

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Grazie a uno straordinario incrocio di congiunture sociali e culturali, la storia della canzone italiana moderna ha un inizio preciso. È la sera del primo febbraio del 1958. Modugno canta Nel blu dipinto di blu e improvvisamente avviene un salto evolutivo. Gli italiani si rendono conto che tutto sta per cambiare, e la canzone volta pagina: inizia un'avventura mirabolante e irripetibile che dura fino ai nostri giorni, passando attraverso la sensibilità dei primi cantautori genovesi, scoprendo le gioie dell'estate e dell'adolescenza del rock'n'roll, crescendo attraverso la rivolta dei gruppi beat, maturando nella rivoluzione promossa da De André, Guccini, Battisti, e nel rinascimento che tra gli anni Settanta e Ottanta porterà la cultura musicale del nostro Paese ai suoi massimi splendori. Fino alle innovazioni che toccano la soglia del 2000. È una storia intensa e profonda nella quale possiamo leggere gioie, emozioni, caratteri, aspirazioni e contraddizioni della nostra identità culturale. «All'inizio del 1958 tutto è pronto per cambiare, e tutto cambia. Ma gli italiani non ne hanno ancora la precisa percezione. Nell'aria c'è odore di miracolo economico, s'intravede un'inedita promessa di sviluppo. In fondo nessuno l'ha detto a chiare lettere, e per una di quelle sincroniche e stupefacenti coincidenze della storia, il compito di questa esplosiva rivelazione spetta a una canzone».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858427705
Capitolo 1.

L’Italia impara a Volare

All’inizio del 1958 tutto è pronto per cambiare, e tutto cambia.
Ma gli italiani non ne hanno ancora la precisa percezione. Nell’aria c’è odore di miracolo economico, s’intravede un’inedita promessa di sviluppo, ma in fondo nessuno l’ha detto a chiare lettere, e per una di quelle sincroniche e stupefacenti coincidenze della storia, il compito di questa esplosiva rivelazione spetta a una canzone.
Era il 1º febbraio del 1958, ovviamente un sabato, e in televisione andava in onda la serata finale del Festival di Sanremo, con le venti canzoni in gara sopravvissute alla selezione delle due serate precedenti. Era un festival vivace e animato. Si segnalava il ritorno di Nilla Pizzi, non sfuggiva il chiassoso narcisismo del «reuccio» Claudio Villa, vecchi e nuovi protagonisti si sfidavano con canzoni di vario genere, equamente divisi tra le due orchestre in campo, quella di Cinico Angelini e quella di Alberto Semprini.
Ma c’era una novità assoluta, tollerata a malapena dagli altri partecipanti, tutti senza eccezione interpreti puri, ai quali, come da regolamento, le canzoni da cantare venivano «affidate» dalla commissione artistica del festival. L’eccezione era Domenico Modugno, che aveva presentato una strana canzone scritta col suo amico Franco Migliacci, talmente strana che nessuno se l’era sentita di cantarla. Cosí che dovettero lasciarla cantare al suo autore. Si intitolava Nel blu dipinto di blu.
Per capire oggi la potenza di quel gesto bisogna fare uno sforzo e immaginare un paese che ancora sentiva le ferite profonde della guerra, che ancora si vedeva in larga parte contadino, che da non molto aveva vinto la battaglia contro l’analfabetismo, appeso a uno schermo televisivo che mandava esclusivamente i programmi della Rai, di fronte a una modernizzazione solo vagheggiata, ma evocata con inattesa prepotenza da quel guascone pugliese che, arrivato quasi per sbaglio alla ribalta sanremese col suo smoking bianco (in realtà era azzurro cielo ma in Tv appariva grigio chiaro quasi bianco) e il farfallino un po’ storto, introdotto dall’orchestra anzi del sestetto «azzurro» (proprio cosí si chiamava) del maestro Semprini, aveva iniziato con un pensoso e stravagante:
Penso che un sogno cosí non ritorni mai piú
mi dipingevo le mani e la faccia di blu.
Assurdo, impensabile, e aveva continuato con uno scarto ancora piú imprevedibile:
Poi d’improvviso venivo dal vento rapito
e incominciavo a volare nel cielo infinito.
E infine aveva allargato le braccia e urlato:
Volare, oh oh, cantare, oh oh oh oh.
Niente di piú, niente di meno, praticamente una bomba gettata su un paese che aspettava solo la scintilla per cominciare a sognare.
I segni, letti col senno di poi, c’erano tutti: finiva il protezionismo commerciale che aveva bloccato l’industria manifatturiera, si stava avviando la modernizzazione del sistema industriale, i redditi stavano crescendo a ritmi vertiginosi. L’Italia, in effetti, era pronta per il volo. Singolare, casomai, che a rivelarlo sia stata una canzone.
Le storie sulla genesi del pezzo sono diventate nel tempo un genere letterario a sé stante. Sono tutte buone, tutte valide, a partire dal sogno ubriaco di Migliacci davanti a una riproduzione di Chagall fino al tocco decisivo del mancante e definitivo «oh oh» ispirato a Modugno, pare, da una finestra spalancata per la ventata di temporale. Dettaglio niente affatto secondario, perché è proprio quel rafforzativo che la rende immediatamente collettiva, perché nell’eterna e immutabile legge musicale dell’antifona quell’«oh oh oh oh» siamo noi che rispondiamo al cantore ed entriamo a far parte del canto. Una genesi oltretutto lunga, faticosa, non impulsiva come la canzone lascerebbe pensare. Ma cosa conta poi? Siamo prossimi alla leggenda, anche grazie all’alta posta in gioco. Non c’era solo la coincidenza tra il gesto artistico e il momento storico, non c’era solo la capacità di rivelare al paese quello di cui il paese non aveva ancora piena coscienza, non c’era di mezzo solo la potenza di una canzone destinata a fare il giro del mondo. C’era in ballo la nascita ufficiale della canzone moderna.
La modernità di Volare è nella libera e felice sensualità sprigionata dalla canzone, un invito pieno, esuberante, un inno alla vita del tutto privo di sensi di colpa. È cantata in modo genuino, diretto, non c’è retorica, malgrado la larghezza impetuosa dello slancio, è vera, quindi contagiosa. E soprattutto, a volte nella foga si tende a dimenticarlo, NON È UNA CANZONE D’AMORE, non ci sono un lui e una lei, se non di sfuggita nei due versi:
Ma io continuo a sognare negli occhi tuoi belli
che sono blu come un cielo trapunto di stelle.
E nell’altro:
La tua voce è una musica dolce che suona per me.
Oltretutto i peggiori, irrilevanti, come fossero aggiunti per non esagerare, per non cancellare del tutto la sensazione che alla fine di amore si tratti. Ma una vera lei all’orizzonte non c’è. La canzone evoca l’impulso vitale di un individuo che vive un’esperienza liberatoria. E crea in chi lo ascolta un irresistibile desiderio di immedesimarsi. Solo che a volersi immedesimare non erano singoli individui, c’era un intero paese. Fino a quel momento era solo una canzone vagamente astrusa, e dall’apparenza suicida in una gara come quella del festival. Ma quando Modugno allargò le braccia in un abbraccio che sembrava il gesto di un uomo che sta per tuffarsi nel cielo, fu riconosciuta da tutti e Nel blu dipinto di blu diventò Volare.
Domenico Modugno aveva la contagiosa impertinenza di chi sa di avere dentro uno straripante e versatile fuoco riparatore. Prima del 1958 non era neanche del tutto sicuro di voler fare il cantante, magari l’attore chissà, cosa che ha fatto, e anche piuttosto bene, soprattutto nella commedia musicale Rinaldo in campo, in cui ribaldeggiava, cantava, recitava, con un successo probabilmente insuperato in quell’ambito.
La sua grandezza era in una visione che fondeva tradizione e innovazione, con una naturale drammaturgia. Come fosse un rivoluzionario cantastorie che, per sua stessa ammissione, aveva appreso lo stile dai carrettieri e dai cantastorie di Polignano e San Pietro Vernotico, capace di consegnare la propria arte a uso e consumo della modernità, dall’eleganza decaduta del Vecchio frack al tumulto popolare di Lu pisce spada, dalla comicità maliziosa di Musetto, La donna riccia e Io, mammeta e tu, fino ai piú struggenti temi d’amore, Piove, Resta cu’ mme, La lontananza, e ai sospiri di vita come Meraviglioso, che incredibilmente fu scartata a Sanremo. Cosa sono le nuvole (1968), cantata nell’omonimo episodio di Capriccio all’italiana, è la piú riuscita delle canzoni scritte da Pasolini, grazie alla melodia e alla passione indomita con cui la interpreta Modugno1.
Di quel festival del 1958 le immagini sono andate quasi del tutto perdute, il che rappresenta un crimine, chiunque l’abbia commesso, tranne pochi secondi che ci restituiscono l’emozione di quella irripetibile esibizione.
Quello stesso giorno, il 1º febbraio, gli Stati Uniti lanciarono l’Explorer 1, il loro primo satellite artificiale intorno alla Terra. Di questo altro «volo» le immagini esistono, sono facilmente rintracciabili, sta di fatto che l’America fu pronta ad accogliere la canzone di Modugno, che andò a cantarla perfino all’Ed Sullivan Show, ne riconobbe la modernità, l’entusiasmo, quella furiosa sintesi di desiderio e aspettativa, il brivido del nuovo. Caso unico nella storia della musica popolare, Volare è insieme una magnifica canzone, un gesto rivoluzionario di straordinario successo e un involontario trattato sociologico, astratto quanto si vuole nel suo chagalliano riferimento a un uomo sospeso a volare nel blu, eppure preciso, sintetico e denso di riferimenti. In realtà Domenico Modugno riuniva in sé gli estremi opposti attraverso i quali passa la rivoluzione stilistica della canzone italiana: l’urlo e l’ombra.
PLAYLIST:
  • Lu pisce spada
  • Nel blu dipinto di blu
  • Vecchio frack
  • Che cosa sono le nuvole
  • Meraviglioso
  • Piove
  • Musetto
  • Resta cu’ mme
1. I due avevano già collaborato nel film Uccellacci e uccellini, con quella straordinaria invenzione del cantastorie dei titoli di testa cantati, ma lí, almeno per quanto riguarda la composizione, non c’entrava Modugno, la musica è di Ennio Morricone, che ne va giustamente fiero.
Capitolo 2.

L’urlo

Classico vs moderno.
Dunque si cominciò a urlare. A piú non posso. E definirla come una categoria a sé è un’idea tipicamente italiana, come se il semplice fatto di urlare ponesse alcuni cantanti, gli «urlatori» appunto, in una zona speciale. Altrove, in America soprattutto, l’urlo era scontato, faceva parte del patrimonio della musica popolare, veniva dai campi da coltivare, dalle miniere oscure, portato da antiche visioni africane e innestato nelle tradizioni locali, nel furore estatico del gospel, poi tracimato nel rock’n’roll, che dell’urlo aveva fatto un’arte devastante, un modo per esprimere la piena fisicità di un canto sovversivo e primitivo. Solo da noi, patria del bel canto, l’idea di urlo poteva ancora essere vista come una diversità, mischiandosi con i piccoli giochi di costume, tipici dell’Italia del tempo, che servivano ad attenuare i toni eversivi, a ricondurre tutto alla bonarietà da discussione familiare o da bar, com’è ben evidenziato da un film che già nel titolo poneva in risalto la novità, ovvero Urlatori alla sbarra, e gli urlatori erano casinari, scatenati, perfino squinternati e socialmente non allineati, ma in fondo dei gran bravi ragazzi. E infatti, quando arrivò, l’urlo «italiano» era molto lontano dalla potenza del rock, distante anni luce della deflagrante visione dell’Urlo di Allen Ginsberg, era sí e no un gorgheggio, un singhiozzo modulato ad arte, ma era pur sempre quello che allora poteva permettersi la nostra tradizione.
Il primo urlo riconosciuto come tale e identificato come segno di incipiente e trasgressiva modernità fu quello di Come prima, ed era di nuovo il 1958, lo stesso anno di Volare, che pure a suo modo era stato un urlo.
La storia di Tony Dallara è esemplare. Anche in Italia il mondo dello spettacolo cominciava a offrire una sorta di...

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