Alla memoria di Walter Benjamin
Chi prenda in mano il carteggio fra George e Hofmannsthal per ricavarne una chiara visione di ciò che accadde della lirica tedesca nei quindici anni abbracciati dal volume, resterà in un primo tempo deluso. Mentre i due poeti, cauti e severi, si chiudono in una riservatezza reciproca che va fino al mutismo, la loro disciplina personale riesce a malapena a condurre avanti la discussione oggettiva. Ché anzi il pensiero sembra anch’esso colto da questa rigidezza. Riempiono le pagine particolari tecnici sulla pubblicazione e fatti di politica editoriale, inframmezzati da attacchi in tono irritato e insieme sostenuto e da stereotipe difese. Passi come la critica di George ad una parola sovrabbondante in un verso di Hofmannsthal, come la sua polemica contro Dehmel e il suo verdetto, per cosí dire, senza processo sul Das gerettete Venedig [Venezia salvata] sono eccezioni. Il tenore delle lettere vorrebbe far credere che la vicinanza del poeta al suo materiale non abbia bisogno di riflessioni di vasta portata, oppure anche che si è troppo sicuri della comunanza di esperienze e di opinioni per abbandonarsi a chiacchiere profanatrici.
Tuttavia questa pretesa è piuttosto basata su un tacito accordo che non comprovata dalle lettere stesse. Ad essa contraddice il carattere formale dell’accoglienza fatta alle poesie di Hofmannsthal da parte di George, il quale di fronte al piú giovane assume decisamente una posizione di redattore. Non da un George bensí da un benevolo direttore di rivista ci si aspetterebbero espressioni come questa: «Ricevo e leggo le sue poesie e la ringrazio. È raro che lei possa scrivere una strofa che non arricchisca il lettore di un nuovo brivido, anzi di un nuovo sentire». Si tratta qui di due dei modelli lirici piú memorabili di Hofmannsthal: «Manche freilich müssen drunten sterben» [Taluni certamente debbono morire là sotto] e il Weltgeheimnis [Mistero del mondo] che viene ancora ricordato nel Lied dell’ultimo volume di George. A tale elogio sbrigativo George fa seguire l’incomprensibile domanda: «È sua intenzione far seguire la poesia “Taluni certamente...” al Mistero? Oppure essa ne è una parte? Mancano indicazioni a questo riguardo». L’insinuazione della semplice possibilità che le due poesie, delle quali l’una è composta di trochei e articolata in strofe di quattro e sei versi, l’altra di tetrapodie giambico-dattiliche in terzine rimate, possano costituire un tutto unico, smentisce in pieno il presupposto accordo oggettivo. Cosí la povertà di contenuto teorico deve venir spiegata a partire dalla posizione dei due autori, che non eccellono certo per spontaneità.
Fra i progetti di collaborazione ai «Blätter für die Kunst», che Hofmannsthal esaminò per lettera nel 1892 col plenipotenziario di George, Carl August Klein, non mancano affatto progetti di pubblicazioni teoriche. Hofmannsthal domanda il 26 giugno: «Con che cosa verranno riempiti i singoli “fascicoli”, dato il numero necessariamente esiguo dei collaboratori e la produzione quantitativamente esigua di vere e proprie opere d’arte? Oppure bisogna concedere spazio alla critica ed alla teoria tecnica e, in caso affermativo, in che misura?» Egli riceve la risposta che «di articoli critici di ordinaria amministrazione non è il caso di parlare», risposta che poi Klein, in maniera alquanto poco chiara, mitiga dicendo che rimane «non escluso che ciascuno di noi possa dare il suo giudizio su una qualsiasi opera d’arte»; essendo infatti – nel linguaggio antiquato del decadentismo tedesco – «molto interessante udire una qualsiasi opinione nuova o piccante su opere di pittura, di teatro e di musica». Hofmannsthal, già da lungo tempo collaboratore di riviste come «Die Moderne» o «Die moderne Rundschau», non si dà per vinto. «Parlando di saggi in prosa avevo in mente non tanto articoli critici di ordinaria amministrazione quanto piuttosto riflessioni su problemi tecnici, contributi alla teoria cromatica delle parole e simili produzioni secondarie del processo lavorativo artistico, la cui pubblicazione ci metterebbe, penso, in grado di giovarci reciprocamente». La «teoria cromatica delle parole» allude presumibilmente alla poesia Vocali, una delle tre poesie di Rimbaud che George in seguito ha accolto fra le sue traduzioni di poeti contemporanei. Le Vocali sono una poesia canonica dell’arte moderna che esercita il suo potere fino ai surrealisti. Se Rimbaud vi promette per il futuro la rivelazione delle «naissances latentes» delle vocali, nel frattempo si è svelato il segreto stesso di quella poesia. È la precisione dell’impreciso, come per la prima volta era stata pretesa da Verlaine nella sua Arte poetica come collegamento dell’indécis e del précis. La poesia diviene il padroneggiamento tecnico di ciò che non si lascia padroneggiare dalla coscienza. L’assegnare ai suoni dei colori, che non stanno con essi in nessun rapporto se non in quello della gravitazione del linguaggio, lontana dal significato, emancipa la poesia dal concetto. Al tempo stesso tuttavia il linguaggio come istanza consegna la poesia alla tecnica: la caratteristica delle vocali non è tanto il loro travestimento associativo, quanto piuttosto una direttiva sul modo di usarle nella poesia in maniera confacente al linguaggio. Anche le Vocali sono una poesia didascalica. Quella di Verlaine si accorda con essa. La nuance, che Verlaine proclama come regola, è del tipo di quella corrispondenza fra suono e colore: la sua subordinazione al primato della musica fissa al tempo stesso la sua lontananza dal significato e fa della appropriatezza tecnica il criterio delle sfumature stesse, dei toni giusti o falsi che sono stati presi1. Il tacito procedimento di George e Hofmannsthal, non diversamente dai manifesti di Rimbaud e di Verlaine si appella all’Incommensurabile. Questo non è l’Assoluto metafisico su cui insistevano il primo romanticismo tedesco e la sua filosofia. Portatore dell’incommensurabile è, non a caso, il tono: esso non è intelligibile bensí percepibile dai sensi. Alla poesia toccano in serbo quei momenti sensuali dell’oggetto – quasi si potrebbe dire: dell’oggetto delle scienze naturali – che si sottraggono a metodi esatti di misurazione. Il contrasto poetico tra la vita e la sua deformazione tecnica è esso stesso di natura tecnica. La tanto vantata ipersensibilità dell’artista fa di lui in certo qual modo un complemento dello scienziato naturalista: come se il suo organo sensoriale lo rendesse capace di registrare differenze piú minute di quelle constatabili dagli apparecchi2. Egli si comprende come strumento di precisione. La sensibilità diviene una tecnica sperimentale, anzi un procedimento per rendere leggibili sulla scala delle sensazioni quegli stimoli fondamentali che altrimenti si sottrarrebbero al dominio soggettivo. In quanto tecnico, l’artista diviene l’istanza di controllo della sua sensibilità, che egli può innestare e disinnestare a piacere, come Niels Lyhne il suo talento. Egli si impadronisce dell’inaspettato, di ciò che fra le materie correnti dell’espressione non è ancora presente; della neve fresca sulla quale intenzione alcuna non ha ancora lasciato la sua orma3. Ma se la nuda sensazione si rifiuta all’interpretazione da parte del poeta, egli la soggioga, mettendola, lei che è incalcolabile, al servizio di un effetto calcolato.
Il segreto del dato sensoriale non è un segreto bensí la cieca intuizione senza concetto. È del tipo dell’empiriocriticismo formulato contemporaneamente per esempio da Ernst Mach, nel quale l’ideale dell’acribia scientifica si incontra con la rinuncia ad ogni autonomia della forma categoriale. Il puro dato di fatto enucleato da questa filosofia rimane impenetrabile quanto la cosa in sé, che essa rifiuta. Il dato si lascia solo «avere», non mantenere. Come ricordo, e soprattutto espresso in parole, non è piú lo stesso; un abstractum nel cui ambito si è bandita la vita immediata solo per poterla manipolare ancora meglio con la tecnica. Le forme categoriali non riescono piú a fissare soggetto e oggetto: ambedue sprofondano nella «corrente della coscienza», il vero Lete dell’arte moderna. La poesia a George che apre il carteggio è intitolata Einem, der vorübergeht [Ad uno che passa]. George nota subito l’espressione indebita: «ma io non sono per lei nulla piú che “uno che passa”?»4. Fin dal principio egli tende a proteggere l’essere dalla fiumana dell’oblio, sul cui bordo, per cosí dire, egli rizza le sue forme5. Come protezione serve l’esoterismo: viene fissato come segreto ciò che altrimenti scivolerebbe via. Perciò il silenzio dell’accordo non esistente. Infatti il segreto statuito non esiste di per se stesso. L’enfatica metafora con cui il carteggio lo designa rimane del tutto priva di contenuto: «piú tardi però sarei certamente crollato se non mi fossi sentito legato dal mio anello. Questa è una delle mie supreme saggezze, è uno dei segreti!» Segreto che deve essere custodito, per evitare non tanto una profanazione quanto uno smascheramento. Nella cellula mistica sono radunate le materie pure. Ma se divenisse pubblica la tecnica che dispone delle materie, andrebbe persa con essa la pretesa del poeta di mantenere un dominio che già da lungo tempo era stato ceduto all’operazione organizzativa. Viene mantenuto segreto il non segreto; viene iniziata al razionale la tecnica stessa. Quanto piú i problemi della poesia si traspongono in problemi della tecnica, tanto piú facilmente si formano circoli esclusivi. Il Tappeto, tessitura di materia priva di intenzioni, propone un enigma tecnico; la sua «soluzione» però «non verrà ai molti mai e poi mai tramite la parola». Tuttavia la giustificazione del circolo di adepti, che per George trovava la sua verifica nella collaborazione ai «Blätter für die Kunst», non è affatto la partecipazione a contenuti reconditi, né la sostanzialità del singolo, bensí la competenza tecnica: «E nemmeno dei minori voglio tacere, dei casuali ghirigori e arabeschi, che io, considerati in sé, lascio andare completamente. Che però questi minimi siano riusciti a fornire un simile lavoro: che ad essi, per quanto riguarda il puro mestiere, non si debba rimproverare, nonostante la poca consistenza, d’essere dei pasticcioni come parecchie celebrità: questo mi sembra, considerato temporalmente e localmente, avere maggior importanza per la nostra arte e la nostra cultura che non tutte le associazioni e tutte le opere teatrali nelle quali lei a quel tempo riponeva le sue speranze». Rimane da vedere se la tecnica in quanto arcano, tramandato per via sacramentale, non si capovolga di necessità in insufficienza tecnica: in quella routine che sta dinanzi agli occhi della critica volgare quando questa chiacchiera di formalismo.
Quanto piú è vuoto il segreto, tanto piú il suo custode ha bisogno di mantenere un contegno. È questo che George sa decantare, oltre alla tecnica, nei suoi discepoli: «A lei però, con il suo alto senso dello stile, deve perlomeno aver dato da pensare – deve pure esser parso assai gradevole – il vedere questi uomini “che non sono mai stati al gioco”, che “non sono mai apparsi in pubblico”; uomini di un contegno cosí signorile, come nella sua cerchia essi sono rappresentati per esempio dal nostro comune amico Andrian». Per quanto il non stare al gioco e il mantenere la distanza siano argomenti in favore di questo contegno, il concetto viene subito compromesso dall’aggiunta dell’epiteto «signorile» che dovrebbe determinare positivamente quella distanza. Anzi, neppure al concetto di contegno si può prestar fede. Nel mondo intellettuale esso ha una parte simile a quella che nel mondo profano ha il fumare. Chi tiene un contegno si appoggia alla propria personalità: la freddezza che presenta la sua espressione fa una buona impressione. Le monadi, che si respingono a vicenda per il loro interesse, si attraggono piú che in altro modo mediante il gesto di chi non è interessato. La necessità dell’alienazione viene trasformata nella virtú dell’autodeterminazione. Perciò tutti sono concordi nell’elogiare il contegno. Esso viene esaltato in un rivoluzionario come in un Max Weber, e nella rivista «Nationalsozialistische Monatshefte» i futuri mastini nazisti si presentavano già laconici, posati e decisi. Il torto che nella società basata sulla concorrenza l’individuo superiore arreca di necessità a tutti gli altri, egli se lo accredita, mediante il contegno, anche come profitto morale. Non soltanto il contegno marziale, anche quello nobile è segnato da questo stigma, e persino quella grazia che nella gerarchia delle idee di George occupa il gradino piú alto in quanto bellezza di un essere che è semplice forma. Se un tempo la grazia era l’espressione del ringraziamento all’uomo – quel ringraziamento che gli dèi gli rendono quando egli sa muoversi senza angoscia e senza orgoglio nel creato, come se questo fosse ancora tale –, oggi, deformata, la grazia è l’espressione di quel ringraziamento che la società rende all’uomo perché egli, come suo membro consenziente, vi si muove sicuro e al tempo stesso senza opporre resistenza. Fascino e leggiadria e il loro erede, colui che ha un bell’aspetto, servono infatti ancora soltanto a far dimenticare il privilegio. Anche ciò che è nobile lo è in virtú dell’ignobile. Ciò viene in luce in George non soltanto in formulazioni sinistre come questa: «Io non ho mai voluto null’altro che il suo bene. Possa lei non convincersene troppo tardi». Chi, leggendo le sue poesie, ha l’accortezza di non dimenticare il contenuto pragmatico dinanzi alla sua pretesa identità con quello lirico, non può non avvertire che nei passi elevati è presente qualcosa di volgare. Già in Nach der Lese [Dopo la vendemmia], il famoso ciclo iniziale di L’anno dell’anima, viene presentato un umiliante amore di riserva le cui restrizioni non rifuggono dall’offendere l’amata. Fra i versi piú delicati se ne trovano altri di inavvertita rozzezza. A nessun uomo d’affari verrebbe tanto facilmente in mente di dire alla sua amica: «e proprio se come tu somigliassi all’Unica Lontana» e simili magri complimenti. A ragione viene in mente l’uomo d’affari: l’ideale che non si concede a se stessi e che va bene giustappunto per avvilire ciò che già comunque si possiede, fa parte della razione di riserva del borghese. Una simile idealità è il rovescio dell’essere, della sostanza e del kairos. «Chi non è venuto oggi rimanga sempre lontano!» Egli deve schiacciarsi il naso contro il cancello del parco e perdipiú sentirsi dire che ha il naso schiacciato. In ogni momento la cultura georgiana viene acquistata a prezzo della barbarie.
Il contrasto fra George e Hofmannsthal ruota intorno al postulato del contegno, che George torna sempre a sollevare sia col modello che con la parola, e al quale Hofmannsthal si sottrae con risposte che variano senza tregua, come con la stoccata: «Mi ripugna di sentire l’espressione del dominio sulla vita, della regalità dell’animo, da una bocca il cui tono non mi riempie al tempo stesso di vera riverenza», oppure parando il colpo: «forse in me la forza poetica è mescolata con altri impulsi spirituali piú oscuramente che in lei». Tuttavia egli contrappone al contegno una noncuranza che si dimostra ben poco piú umana dell’inesorabilità. È la programmatica apertura verso il mondo del giovin signore di nobile casato, secondo il cliché in cui Hofmannsthal stilizzò in seguito il suo passato, già leggendario al primo giorno; di colui che non ha bisogno di darsi un contegno perché appartiene già di per sé agli eletti. Convulsamente egli si identifica con l’aristocrazia o perlomeno con quel tipo di society dell’alta borghesia che con essa condivide molti interessi e che sa il fatto suo: «Di me basti dir questo; per il resto sto bene, quest’estate passerò qualche giorno a Monaco dinanzi ai quadri, l’autunno naturalmente in Boemia per la caccia. E lei? Almeno qualche riga, occasionalmente, mi farebbe molto piacere. Hugo Hofmannsthal». I boschi della Boemia lo hanno affascinato. Di «uno dei miei amici» dice: «Egli appartiene pienamente alla vita, ma non ad arte alcuna. Le darà una buona idea dell’indole austriaca, arricchita da una larga conoscenza delle situazioni esteriori ed interiori degli altri paesi. È il conte Josef Schönborn, della linea boema della casata», la quale linea viene rammentata con nonchalance. George, piú competente in cose terrene e abbastanza razionale per riconoscere la vanità di questo tentativo di entrare in confidenza, risponde chiamando le cose col loro nome: «Lei mi scrive una frase, caro amico: “appartiene pienamente alla vita, ma non ad arte alcuna”, che io vorrei quasi considerare una bestemmia. Chi non appartiene ad arte alcuna, può forse vantarsi di appartenere alla vita? Come? Al massimo in epoche semibarbariche». La noncuranza di Hofmannsthal assimila la critica in meno di sei mesi: «Ho vagamente in mente una lettera ad un amico molto giovane che è al servizio della vita, e al quale si deve mostrare che egli non potrà giammai congiungersi con la vita, se prima non se ne estranea nella misteriosa maniera il cui strumento è l’accogliere in sé opere di poesia». Rimane indeterminato a quale genere di vita debba venire preparato il giovane amico. Vi è però motivo di supporre che egli intendesse la vita superiore degli attaches e degli ufficiali che nei rapporti con i figli di banchieri e di proprietari di fabbriche si chiamavano col nome di battesimo, tacendosi reciprocamente con molto tatto i titoli nobiliari6. Non bisogna disconoscere la brama di felicità ispiratrice di quello snob che dall’ambito della vita pratica cerca di evadere in un ambito sociale che sembra profondamente affine allo spirito nel rifiuto dell’utilità. Le fanciulle che appaiono nelle poesie di Hofmannsthal non si potevano certo trovare nel ceto medio. Ma lo spirito che si impegna in quelle avventure nell’alta società non ha vita facile. Esso non può accontentarsi dello splendore della bella vita, e in mezzo ad esso deve ripetere l’esperienza del «non è questo», dalla quale si era allontanato. Proust è l’unico che sia riuscito a rendere questo. Le sue fotografie giovanili assomigliano a quelle di Hofmannsthal, come se la storia avesse progettato due volte, in due diversi luoghi, lo stesso esperimento. Con Hofmannsthal esso è fallito. L’intellettuale che, accompagnato da cani saltellanti, si dedica a liete cacce, oppure si propone molte «cavalcate nel crepuscolo, nel vento e al lume delle stelle», è difficile che si senta a suo agio. Lo spirito viene accettato in società a prezzo della sua autodenuncia. Alle simpatie boeme di Hofmannsthal corrisponde il fatto che quest’uomo socievole si studia nascostamente di tenersi lontano da altri intellettuali. Nel suo paradis artificiel non dominano né un Bergotte né un Elstir: «Purtroppo la società che frequento è talmente illetterata che non so proporle nessun collaboratore da prendersi sul serio».
Un simile convulso autorinnegamento del letterato ha le sue radici nei problematici rapporti fra la potenza e gli intellettuali. Senza fascino artificiale e senza chinar le spalle non si va avanti. La society tedesca, che si reclutava fra la nobiltà terriera e i grandi imprenditori, era meno...