Sabbia nera
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Sabbia nera

Cristina Cassar Scalia

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Sabbia nera

Cristina Cassar Scalia

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Mentre Catania è avvolta da una pioggia di ceneri dell'Etna, nell'ala abbandonata di una villa signorile alle pendici del vulcano viene ritrovato un corpo di donna ormai mummificato dal tempo. Del caso è incaricato il vicequestore Giovanna Guarrasi, detta Vanina, trentanovenne palermitana trasferita alla Mobile di Catania. La casa è pressoché abbandonata dal 1959, solo Alfio Burrano, nipote del vecchio proprietario, ne occupa saltuariamente qualche stanza. Risalire all'identità del cadavere è complicato, e per riuscirci a Vanina servirà l'aiuto del commissario in pensione Biagio Patanè. I ricordi del vecchio poliziotto la costringeranno a indagare nel passato, conducendola al luogo dove l'intera vicenda ha avuto inizio: un rinomato bordello degli anni Cinquanta conosciuto come «il Valentino». Districandosi tra le ragnatele del tempo, il vicequestore svelerà una storia di avidità e risentimento che tutti credevano ormai sepolta per sempre, e che invece trascinerà con sé una striscia di sangue fino ai giorni nostri. «Di scenari raccapriccianti, nella sua carriera, il vicequestore Giovanna Guarrasi ne aveva visti assai: uomini incaprettati e bruciati vivi, cadaveri cementati dentro un pilastro, gente sparata, accoltellata, strangolata e via dicendo. Ma l'immagine che le apparve quella sera si poteva descrivere solo con un termine, da lei vilipeso e definito "da romanzo gotico". Macabra. Abbandonato di sghimbescio sul pavimento di un montavivande di un metro e mezzo per un metro e mezzo, giaceva il corpo mummificato di una donna. Il capo, con ancora i resti di un foulard di seta, era piegato a novanta gradi su un cappotto di pelliccia che copriva un tailleur dal colore indistinguibile; appese al collo, tre collane di lunghezza diversa. Sparsi attorno al cadavere, una borsetta, un beauty case di quelli rigidi che si usavano una volta, una bottiglietta di colonia senza tappo e una scatola metallica che aveva tutte le sembianze di una cassetta di sicurezza».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858428573

1.

La Muntagna s’era risvegliata quella mattina. Una nube nera densa di cenere incombeva sulla città, avvolgendola. Nei momenti di silenzio, i boati si udivano persino dal mare, a metà tra il rombo di un tuono e il botto di un fuoco d’artificio attutito dalla distanza.
La sabbia veniva giú senza requie, formando per terra un tappeto scricchiolante e scivolando sugli ombrelli aperti, rimediati qua e là da venditori ambulanti prontamente apparsi per le strade, come in un giorno di pioggia improvvisa.
Alfio Burrano bagnò il parabrezza piú volte prima di rassegnarsi ad azionare il tergicristallo. Il cofano della Range Rover bianca fresca di concessionaria, dopo una breve variazione sul grigio antracite, virava ormai verso il nero opaco. Alfio bestemmiò tra sé e sé al pensiero dei danni inenarrabili che quella sabbia abrasiva, capace di raschiare qualunque superficie con cui venisse a contatto, occhi compresi, avrebbe provocato alla carrozzeria.
Sfilò un mezzo sigaro dalla tasca anteriore dello zaino e se lo accese.
Tra il cartello «Benvenuti a Sciara, paese dell’Etna» e l’ingresso principale di villa Burrano c’erano sí e no cinquecento metri, occupati da una miriade di costruzioni dall’aspetto polimorfo, che accerchiavano il maniero e che sorgevano laddove un tempo si estendeva il suo parco privato.
Mentre si lasciava la piazza del paese alle spalle, dirigendosi verso il cancello laterale, il telefono agganciato al computer di bordo dell’auto iniziò a squillare. Alfio sbirciò il display e si accertò che non mostrasse ancora una volta quegli occhi azzurri che avrebbe preferito non avere in memoria, e che l’avevano tormentato per tutto il pomeriggio con messaggi e chiamate, cui lui si era imposto di non rispondere.
La voce di Valentina – la sua enologa, ma non solo – lo rinfrancò.
– Ehi, boss, com’è finita?
– E come volevi che finisse? Spazio aereo di Catania chiuso fino a domani mattina, se tutto va bene. Voli dirottati a Palermo e a Comiso, oppure cancellati, come il mio. Il solito casino, insomma. Speriamo che almeno domani mi facciano partire, altrimenti mi saltano tutti i programmi.
Quando, ore prima, aveva visto il banco del check-in nella sala Bellini preso d’assalto da una ventina di accumulatori di miglia, come lui contrariati dall’impossibilità di risolvere la situazione a colpi di Carta Freccia Alata e varchi prioritari, Alfio s’era attaccato al telefono. Invano aveva smosso tutto lo stato maggiore dello scalo catanese, tra i vertici del quale annoverava piú di un amico, per tentare di farsi spostare sull’unico volo per Linate che sarebbe partito quel pomeriggio.
– Sono sicura che un modo per partire te lo trovano. Stasera ci facciamo una cenetta da qualche parte, cosí ti risollevi il morale? – propose lei.
In un altro momento non ci avrebbe pensato su, ma dopo quel pomeriggio disastroso un’intera serata di schermaglie amorose a lume di candela per guadagnarsi una scopata gli pareva un progetto troppo impegnativo.
– No, Vale, non ti seccare ma stasera preferisco ritirarmi a Sciara.
Silenzio. C’era rimasta male.
– Ma sí, mi pare proprio la serata adatta per inerpicarsi in un paesino alle pendici del vulcano. Perché non ti vai a coricare proprio in bocca al cratere?
Molto male. Ora il minimo sindacale era rilanciare l’invito. Tanto non avrebbe accettato.
Sbagliò.
– Sei uno stronzo, Burrano. Lo sai che quel relitto di villa mi fa impressione! – Sospiro di rassegnazione, poi: – Va bene. La cena la porto io.
Alfio aprí il cancello e guidò lungo un vialetto in salita. Infilò la Range Rover sotto un albero con rami abbastanza fitti da proteggerla e sufficientemente solidi da non rischiare di cedere sotto il peso della sabbia. Si diresse verso l’unica zona illuminata della villa: quattro stanze e pochi metri quadri di giardino, nei quali lui era riuscito a infilare persino una piscina di dimensioni dignitose. Le stanze avevano un ingresso autonomo, e non comunicavano né con l’ala principale né con la torre.
Questo gli aveva elargito «la vecchia», e questo si era fatto bastare. Né si sarebbe potuto aspettare di piú.
La vecchia, al secolo sua zia Teresa Burrano, ricca sfondata ma avara come Arpagone, era l’unica parente nonché sola fonte di reddito di Alfio, che lei trattava alla stregua di un suddito mostrandogli senza veli il suo disappunto nel saperlo unico erede del patrimonio di famiglia.
Chadi, il tunisino factotum, gli andò incontro sbucando da una casupola indipendente, meravigliato di vederlo lí. Lo seguí attraverso la casa fino al giardino sul retro.
– Bravo, Chadi, che pensasti a coprire la piscina. Con tutta la polvere che sta piovendo, a quest’ora si sarebbe ridotta una porcheria, – lo encomiò. Il telone che proteggeva la vasca, pieno di sabbia nera come il bordo e il prato circostante, era talmente appesantito da formare un avvallamento sull’acqua. Chadi si piazzò sotto la tettoia, in posizione di attesa.
Alfio capí che doveva dirgli qualcosa.
– Dottore, in casa di là è crollato un muro. C’è acqua dentro, – notificò Chadi, indicando il lato buio della casa.
– Che significa acqua? C’è umido, forse?
– No, no. Acqua.
Burrano lo guardò perplesso. – Come mai sei andato di là?
Senza farne parola con la zia, che altrimenti avrebbe protestato, aveva messo l’uomo a guardia della villa, lasciandogli per ogni eventualità anche le chiavi del vecchio accesso di servizio della torre. Anzi, aveva fatto di piú. Oltre alle due telecamere che sorvegliavano la sua proprietà, ne aveva fatta installare una terza, che dall’angolo di casa sua riprendeva fino all’inizio del giardino grande. Di furti ne avevano già subiti abbastanza, non era il caso di rischiarne altri. Ne andava del valore stesso della casa. E se quella vecchia isterica non voleva capirlo, pazienza.
– Io sentito un rumore forte. Allora io acceso la luce di là e andato a vedere. In tutte le stanze. Poi entrato in camera sotto torre, quella con armadi, e visto muro caduto. Quando io toccato, mia mano tutta bagnata.
– Minchia, questa sola ci mancava! – sbottò Alfio.
– Vuole vedere?
– Ho scelta? Certo che voglio vedere.
Certo, sí, ma poi? Pure se ci fosse stata un’infiltrazione, che avrebbe potuto fare? La vecchia di spendere soldi in quella casa manco voleva sentirne parlare.
Bestemmiando tra sé e sé, Alfio andò ad attivare il contatore che forniva la corrente elettrica alla torre. Recuperò le chiavi e una torcia e precedette il tunisino lungo il corridoio esterno di passaggio che conduceva all’entrata principale.
Era la via piú corta per accedere alla stanza in questione senza fare il giro di tutta la casa.
Il portone aprendosi emise un rumore sinistro, da pelle d’oca. Alfio sollevò la levetta di un interruttore nero antidiluviano e trasse un sospiro di sollievo per essere scampato ancora una volta al pericolo di rimanerci attaccato. Le poche lampadine in vita illuminarono la scala di marmo attraverso cui lui e Chadi raggiunsero la zona incriminata. L’ambiente colpito dall’infiltrazione era al primo piano: una sorta di soggiorno arredato in modo stravagante, come tutta la casa, del resto, che comunicava con le stanze da letto.
Faceva un caldo disumano, l’odore della polvere nell’aria solleticava il naso. Alfio ordinò a Chadi di spalancare una finestra, che si aprí con difficoltà a causa delle persiane malmesse.
– Sposta quella tenda, che è impolverata. Già non si respira, se poi ci aggiungiamo cinquant’anni di polvere possiamo pure morire. Maledizione a lei e alle sue ossessioni. Ma si può tenere una casa in questo stato? – inveí.
Il crollo era avvenuto vicino al camino, e aveva investito una libreria vuota. La parete trasudava acqua al punto che si erano formate delle specie di licheni. A terra, nell’angolo, c’erano persino dei funghi.
– Chissà da quanto tempo è cosí, – mugugnò. Appoggiò la mano sul muro e la ritrasse schifato. – Si sarà rotta una tubatura. Ma vai a capire quale. Qua è tutto fatiscente.
Puntò la luce sulle decorazioni della parete opposta rispetto a quella zuppa. I colori, il soggetto, tutto rifletteva il gusto con cui era stata arredata l’intera villa: un misto tra architettura araba e liberty. Su un lato, una statua a mezzo busto simile a quelle disseminate lungo i vialetti della Villa Bellini, il giardino pubblico dei catanesi. Era Ignazio Maria Burrano, suo nonno. Che diavolo c’entrasse una scultura cosí in una stanza privata, solo ai suoi avi era dato saperlo.
Indugiando con lo sguardo piú del solito, e sostenuto dai 3000 lumen della torcia a led di cui aveva dotato Chadi, Alfio notò che dietro la scultura i colori si erano mantenuti piú vivi che sul resto della parete. Anzi, parevano proprio dipinti su un materiale diverso.
Si appoggiò alla statua con il gomito e la sentí vacillare.
– Non deve essere pesante, se ondeggia cosí, – constatò.
Incuriosito provò a muoverla e si accorse che si spostava con facilità: doveva essere di gesso, o quantomeno cava. La trascinò di lato scoprendo il muro.
La discromia era evidente.
Chadi s’inginocchiò incurante della sporcizia, che comprendeva escrementi di probabile provenienza murina, e allungò la mano all’angolo tra il muro e il pavimento. – Qua c’è filazza, – comunicò, col suo dialetto siculo-tunisino, indicando una fessura che correva per circa un metro e mezzo. Batté sulla parete producendo un rumore di vuoto. Legno, indovinò Alfio avvicinandosi. Puntò la torcia sul lato sinistro, e seguí l’angolo facendo scorrere il dito lungo una sottilissima apertura, che pareva una crepa, fino a urtare contro qualcosa di rotondo e metallico: un pomolo, quasi ad altezza uomo. Provò a muoverlo verso destra, ma senza risultato.
– Chadi, aiutami a tirare ’sto coso.
Tirarono in due. Il pomello iniziò a spostarsi di qualche millimetro, finché all’improvviso cedette, rivelandosi un paletto di ferro posto a chiusura di qualcosa. La parete si mosse come una porta.
Alfio la tirò con forza fino ad aprirla del tutto.
– Talè talè talè… – mormorò, meravigliato.
Davanti a lui si apriva una voragine, attraversata da due corde di grosse dimensioni. Se solo avesse fatto un passo in avanti sarebbe finito in fondo… a cosa? Cosí, a prima vista, pareva la tromba di un ascensore. Un montacarichi, piú probabilmente.
Infilò la testa dentro, reggendosi bene sulla parete. Puntò la luce in alto, poi in basso.
– Ma tutti i buttanismi lui ce li aveva! – bofonchiò, pensando alle assurdità che suo nonno aveva fatto installare in quella villa e che lui di tanto in tanto andava scoprendo.
Questa però era la piú sorprendente di tutte.
Fece due calcoli. Nella posizione di quella stanza, al piano terra doveva esserci la cucina, o forse la dispensa. Posti in cui era entrato sí e no un paio di volte in vita sua.
– Scendiamo di sotto, – disse.
Prese le scale, con Chadi al seguito, e si addentrò in un corridoio di servizio. Tentò di accendere la luce, ma stavolta la lampadina mancava del tutto. Anche la cucina era al buio. La logica suggeriva di rimandare il sopralluogo, tanto piú che da un momento all’altro sarebbe piombata Valentina e d...

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