
- 192 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Mia madre è un fiume
Informazioni su questo libro
Una donna, ormai anziana, mostra i primi segni di una malattia che le porta via la memoria e addirittura se stessa. La sua mente sta piano piano diventando una lunga notte senza luna e soltanto la figlia può aiutarla ad attenuare quel buio, ricostruendo la sua storia, ma anche la loro, gravata da un rapporto «andato storto, da subito». Giorno dopo giorno il dipanarsi quotidiano di piccoli e grandi avvenimenti fa riaffiorare ricordi dolcissimi e crudeli, pieni di vita e di verità, a partire dalla nascita della mamma Esperia e delle sue cinque sorelle, nate da un reduce tornato comunista dalla Grande Guerra e da una contadina dritta ed elegante, malgrado le asperità di un'esistenza di privazioni e sacrifici. In un Abruzzo luminoso e aspro, che si staglia come una terra mitologica e lontana, le fatiche della campagna, l'allegria dei matrimoni, la ruvidezza degli affetti, l'emancipazione dall'analfabetismo e la fine della sottomissione femminile si intrecciano al racconto di una lenta metamorfosi dei sentimenti, in un indissolubile legame madre-figlia che oscilla tra amore e odio, nostalgia e rifiuto. Un libro potente e vitale, in cui le vicende personali si uniscono alla storia corale di un'Italia apparentemente cosí lontana eppure ancora presente nella storia di ognuno di noi..
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Informazioni
Mia madre è un fiume
A Tommaso e Giacomo
miei due diversi amori
Certi giorni la malattia si mangia anche i sentimenti. È un corpo apatico, emana l’assenza che lo svuota. Ha perso la capacità di provare. Allora non soffre, non vive.
Le visite di controllo servono a me. Mi rassicurano, non l’ho ammalata io e l’evoluzione è lenta. Alcune abilità sono in parte conservate. L’accompagno, mi occupo di lei, sono una figlia sufficientemente buona.
Il lungomare è deserto a quest’ora, arriva il rumore buio delle onde e l’acqua della risacca che macina sabbia e conchiglie. Ho parcheggiato lontano per passeggiare un po’ insieme. Mia madre cammina separata, ma ha rallentato il ritmo. La prendo sottobraccio, la manica della giacca sa di Adriatico. Sulla sponda opposta Fioravante prigioniero soffriva la fame di una patata lessa al giorno.
Si rilassa, accordiamo l’andatura. Chiedo se le piace l’odore del mare. Dice che sí, insomma, ma lei è nata in montagna, preferisce il profumo delle erbe, dei fiori, non si è mai distesa su una spiaggia. Le avrebbe fatto bene alle ossa, osservo. Ride, adesso è tardi, non se lo metterebbe un costume da bagno.
Dall’altro lato della strada ammiccano le luci dei ristoranti. Propongo un finale a sorpresa: fermiamoci a mangiare il pesce. No, meglio di no, ci aspettano per cena. Un’altra volta, promesso.
Ti chiami Esperia Viola, detta Esperina.
Come una viola sei nata il venticinque marzo millenovecentoquarantadue, in una casa al confine tra i comuni di Colledara e Tossicia. Era l’ultima abitazione prima dei monti, un piccolo sasso rotolato per sbaglio dal fianco orientale dell’Appennino abruzzese.
Apparteneva ai tuoi nonni paterni e lí sono cresciute le famiglie dei loro due figli maschi.
Fioravante, il maggiore, era basso, con il torace largo e piatto, le braccia forti e le gambe un po’ divaricate. Guarda le fotografie. Un corpo piantato, adatto a lavorare la terra o la terra l’aveva voluto cosí perché faticava fin da bambino, che dici?
Era intelligente e appassionato, ecco, qui si vedono gli occhi nero intenso, e da giovane aveva la rissa facile. Lo ricordava sempre di quando accoltellò il confinante ladro di due vitelle grasse sui pascoli estivi. Fioravante si diede poi alla macchia per mesi sperando che quello non crepasse. Scendeva dal bosco a notte fonda, a prendere il pane e il formaggio legati nella mappina bianca col rigo blu che la madre gli aveva lasciato sul tavolo prima di coricarsi. Annusava gli odori in casa, socchiudeva un momento la porta della camera e si assicurava di due sagome addormentate nel buio reso imperfetto dalla finestra stellata. Poi via di nuovo, con il mulo per compagno, lungo sentieri sicuri che solo lui conosceva.
Era una testa calda, Fioravante.
Tu sei figlia della sua prima licenza di soldato in guerra. Tornò tre volte in tutto. Aveva sposato Serafina in ottobre e a febbraio già partiva per il fronte. Una bella giovenca, diceva di lei per farle un complimento. Alta, snella e soda, conservava una postura dritta ed elegante malgrado le fatiche della campagna, degli animali e della casa. Delle bambine, poi. Si era allenata fin da piccola portando in capo il canestro con il pranzo per i familiari che zappavano o mietevano lontano. Si sfidava a camminare sul terreno impervio tenendolo in equilibrio senza l’aiuto delle mani. Anche tu l’hai fatto, poi. E le tue sorelle. Di rado vi capitava un incidente, ed erano guai. Serafina lo raccontava di una volta che inciampò e le si rovesciarono i maccheroni sull’erba. Li rimise dentro e zitta, nessuno si accorse di niente.
Solo da vecchia si è piegata, all’improvviso e di molti gradi, come se tutti quei pesi l’avessero abbattuta d’un colpo, a distanza. Se ne vergognava dolorosamente, credo sia morta di quello. Certo, non soltanto di quello. Di una somma. Ma curvarsi è stata una ferita decisiva alla sua dignità, sempre guardata e difesa, specchiata nel portamento.
Vuoi sapere perché rido? Perché camminava da modella tua madre, ma poi se doveva pisciare all’aperto si tirava un po’ la gonna sulle cosce, scostava le mutande di lato, allargava le gambe e via. In piedi, come una cavalla. L’ho vista, l’ho vista. Lo so che dopo non lo faceva piú, ma io l’ho conosciuta da giovane. Dopo, aveva capito.
L’Italia, scovato il riservista Fioravante per la guerra in quel suo luogo remoto, assicurava a lui e Serafina, a malapena alfabetizzati, l’efficienza delle poste. Lei gli scrisse che stava bene ed era incinta di una Scialomè, il soprannome della famiglia di lui. Il cognome vero non contava, serviva solo per le carte.
Serafina non ha mai fallito il pronostico del sesso delle sue figlie. Le sentiva. Anche quel primo feto maschio se l’era sentito, aveva pianto tutto il tempo, perché sapeva che l’avrebbe perso. Il suo utero era stregato per i maschi. Li accoglieva, ma non li nutriva a lungo, se li lasciava morire dentro quando avevano già le fattezze di pupi. Ne abortí un altro dopo la terza bambina e ancora uno dopo la sesta. Erano cosí le sue gravidanze, simmetriche.
Come non ci sia rimasta, una di quelle volte, è un mistero. Le veniva il sangue, i dolori del parto, poi le contrazioni espellevano il morticino senza nome dal ventre che non era per lui. Per qualche giorno Serafina perdeva la parola e l’appetito, beveva soltanto, acqua e decotto di malva, a compenso delle lacrime. Poi si alzava e riprendeva a lavorare, cioè a vivere.
Alla lettera della moglie, Fioravante soldato ne rispose una con solo il tuo nome. Lei rise e accettò. Esperia era la carbonaia dalla chioma zingara che anni prima era venuta a bruciare legna insieme ai fratelli e stupiva il bosco di tuo nonno con voce di sirena silvestre. Chiunque l’ascoltava se ne invaghiva, Fioravante compreso. Con il nome chiamò sulla figlia tutta quella bellezza e tu hai sempre cantato e fischiettato, accompagnandoti la vita.
Ti esibivi al pubblico delle tue sorelle con alcune canzoni nostre, come Vola vola e Tutte le funtanelle se so’ seccate. Ricordi solo qualche verso di Vola vola. No, non è perché non hai piú memoria, l’altra non ti piaceva, era troppo triste per i tuoi gusti. Se vuoi cerco il testo. Magari facciamo un duetto, però non sono brava come te.
Nella tua vita la seconda rivoluzione la fece la radio. Della prima ti parlo un’altra volta.
Arrivò che avevi sedici o diciassette anni, perché Fioravante era un contadino pastore subappenninico e povero, ma troppo curioso del Progresso. Lo nominava sempre, con la maiuscola.
Vendette qualche animale e la comprò, in principio una a batteria e dopo la grande radio a dischi, marrone e giallina, con le manopole davanti e il piatto per i trentatre giri sopra, protetto dal coperchio. Il mondo irrompeva in casa. Casa vostra ormai, non piú con i nonni, gli zii e i cugini, troppi attriti. Casa vostra, a due chilometri. La radio la riempí di fischi e ronzii, voci slave, austriache, severe. Era difficile sintonizzarsi su quelle italiane, dovevate esercitarvi a rotazioni infinitesimali e la volta dopo la stazione non era lí. Arrivavano cantanti e strofe, le imparavi subito a memoria e le intonavi felice. Ti torna qualche nome? Oggi sí. Luciano Tajoli, Nilla Pizzi e poi Claudio Villa, Domenico Modugno. Impazzivi per il festival di Sanremo, ci campavi di rendita tutto l’anno. Vi compraste anche dischi di storie d’amore tragiche, contrastate fino alla morte. Gli interpreti erano patetici sulle note dell’organetto. Peppino e Rosetta te li ho sentiti allo sfinimento. Lo so che ci sei affezionata, ogni tanto provi ancora, sottovoce, non dire di no.
Accompagnami nell’orto, adesso. Certo che è tempo di pomodori, è agosto. Portiamo due cassette, una per quelli maturi e una per gli acerbi. Si procede per file, comincia dalla prima e io dall’ultima. Tu riempi la cassetta gialla con i pomodori per l’insalata, io la blu con quelli da sugo. A metà lavoro ci incontriamo e ci salutiamo. No, non ti piace cosí. Allora insieme, tu prendi i verdi e io i rossi, cosí siamo abbastanza vicine per chiacchierare. Non fa niente se si mischiano un po’, poi li dividiamo in cucina. Sí, me l’hai detto che a Grazietta si è seccato l’orto. Prima. Non importa.
Tuo padre che ti aveva voluta Esperina, l’hai conosciuto a sette mesi. Era il suo secondo ritorno, giusto in tempo per la semina del grano. Non solo. In una di quelle notti serene di novembre i tuoi genitori concepirono Valchiria. E nella licenza successiva Diamante, in un altro novembre. Tornava dal fronte piuttosto arrapato il ragazzo e la fertilità di Serafina era infallibile.
Sei nata felicemente nelle mani di Rosetta la mammana, arrivata da Tossicia a dorso di mulo. L’assistevano tua nonna paterna, Clorinda la sdegnosa, e tua zia Palmira, solidale con moderazione.
Erano venute anche le vicine. Preparavano acqua calda, lini bianchi.
Subito dopo averti lavata ti hanno chiusa un momento nella madia del pane recitando una formula augurante prosperità.
Battesimo a pochi giorni di vita, che già un fratello ti era morto prima di diventare carne benedetta. Fasce ben strette contro le gambe storte per te e per la puerpera brodo di gallina, piú quaranta giorni di riposo dai lavori pesanti e dal contatto con l’acqua. Ti hanno messo al collo il breve, un sacchetto di stoffa cucito intorno a un frammento della macina del mulino. Ci ha pensato Palmira che era addentro a quelle faccende. Quando i neonati non lo portavano, diceva, venivano visitati nottetempo dalle streghe che gli succhiavano il sangue dolce dolce e li lasciavano prima dell’alba, con segni blu e impronte di denti sulla pelle. O peggio ancora li rapivano e li nascondevano in certi loro posti dove, acceso un gran fuoco, se li lanciavano l’una con l’altra sopra le fiamme. Al primo canto degli uccelli, stanche del gioco, li riconsegnavano sfiniti alle culle e alle mamme ignare.
Hai avuto un’infanzia povera, ma non affamata, tutto il cibo necessario era coltivato e allevato da voi. Potevate accogliere persino degli sfollati che aiutavano nei lavori in cambio di minestra e giaciglio. Si affezionavano e dopo la guerra, quando venivano a trovarvi, sentivano il bisogno di rimanere due o tre giorni, con la scusa della lontananza. Raffaele di Roseto, che era bambino, tornò giovanotto e stette una settimana a insistere per fidanzarsi con Valchiria, finché lei lo schiaffeggiò davanti a tutti e se lo tolse di torno.
Cosí Serafina aveva gli sfollati in casa e il marito al fronte. Dopo la terza licenza ricevette un’unica lettera con il nome per la nuova Scialomè che lei gli aveva scritto di portare in grembo, poi piú nulla.
Si sapeva solo che Fioravante si trovava in Jugoslavia, era stato preso dai partigiani di Tito. Gli davano da mangiare una patata lessa al giorno, spesso mezza fracica. Stava per essere fucilato quando la donna di un suo carceriere lo riconobbe come l’italiano che l’aveva difesa tempo prima dalle brutali attenzioni di una squadra fascista. Lo salvò.
Fu libero grazie a uno scambio di prigionieri e al rientro in patria trovò l’esercito allo sbando. A Trieste un ufficiale gli disse di andarsene a casa, che era la fine. Arrivò a Roma e poi da Roma a L’Aquila con mezzi di fortuna, da L’Aquila a Montorio a piedi, da Montorio a Colledara sul mulo di un conoscente visto lungo la strada. Si fece gli ultimi chilometri ancora a piedi, tagliando per i fossi, e stramazzò che era quasi buio davanti al muso entusiasta del cane Freccia.
Aveva trent’anni e pesava trentacinque chili, alcuni di pidocchi, secondo lui. Era cambiato. Era comunista.
Non ha mai smesso di ammirare Tito per aver respinto gli invasori senza l’aiuto degli anglo-americani. Non ha ottenuto la pensione di guerra, mancavano delle carte, il congedo per esempio.
L’unica terra straniera l’ha conosciuta da recluso. Anche l’Italia non abruzzese l’ha attraversata da militare, Roma gli piaceva. Quando gli hanno proposto un pellegrinaggio per il Giubileo del millenovecentosettantacinque ha detto risentito per il Papa non ci vado.
Non si è goduto il riposo del soldato, si è rimesso in forze mangiando e ha ripreso il lavoro di contadino pastore lí dove lo aveva interrotto. Della guerra gli era rimasta la passione per il mondo e la malaria che il farmacista di Montorio gli curò con il chinino.
Dopo la radio, fu il primo della contrada ad avere la televisione, a rate. Quando non andava nei campi o nella stalla seguiva tutte le edizioni dei notiziari e voi zitte, bastava lo sguardo. Poi commentava da par suo bestemmiando cristi e madonne, ma soprattutto san Gabriele dell’Addolorata, il santo locale. Tua madre, che gli era devota, la riteneva la bestemmia piú grave. Una volta l’anno, a fine estate, vi svegliava all’alba, solo le piú grandicelle, e v’incamminavate con lei su un sentiero tra i boschi per arrivare alla chiesa di Isola del Gran Sasso verso mezzogiorno. Lí chiedeva perdono per quello sciagurato, vi comprava le spillette con il santino, dolce e pensoso. Anche tre o quattro etti di porchetta, da mettere in mezzo al pane portato da casa.
Non mi sembra un grosso guaio. Lo so che quando uno rincasa stanco dal lavoro vorrebbe trovare un buon piatto a tavola, ma sicuramente ha mangiato altro. Le salsicce di quest’anno sono speciali, il formaggio fresco della zia pure. Se si è imbestialito peggio per lui. Le cose sono cambiate, dovrà abituarsi. Sarebbe ora che la smettesse di lavorare come quando era verde. Da anni gli diciamo di lasciarsi solo qualche mucca e vendere tutte le altre. Coccione.
Volevi cucinare le zucchine col pomodoro fresco e invece hai preso i cetrioli. Dopotutto si somigliano. Li ha pure assaggiati? Certo, si fidava. Me l’immagino sí quanto fanno schifo i cetrioli cotti, saranno amari e viscidi. Non li hanno voluti neppure i maiali? Comunque le zucchine ti sono rimaste, cuciniamole ora. Una volta sbucciate le privo dei semi e le taglio a fettine sottili sottili, tu hai già spezzettato i pomodori che versiamo sulla cipolla soffritta nell’olio. Mettici il basilico. No, non ce l’hai nell’orto, c’è un vasetto in terrazza. Lascia andare per qualche minuto, poi unisci le zucchine e copri. Non le girare cosí spesso. Appena un momento fa.
Ecco, adesso regoliamo di sale e pepe, poco dell’uno e dell’altro. Dopo lui aggiungerà mezzo peperoncino e una manciata di sale nel suo piatto. Sempre eccessivo.
Esperine Esperine
mett’a bbeve alli halline
li halline fete l’ove
Esperine ni lli prove
Erano le sorelle che sbucavano da uno spigolo, una roccia, una stalletta, per deriderti e scappare. Anche le nate dopo la guerra hanno avuto nomi strani e sempre vi hanno chiesto nella vita se Viola fosse quello di battesimo. Invece Esperia, Valchiria, Diamante, Clorinda, detta Clorinda piccola o Clo per distinguerla dalla nonna paterna, Clarice e Nives, tutte Viola. Una per una vi aveva scelte, Fioravante, con intuizioni fulminee. Sei figlie femmine, diceva, ma con orgoglio, mentre sua madre vi chiamava le scompisciate e non aveva occhi che per i maschietti di Palmira e Abele. Tuo zio, sí.
Eri la piú grande, e la piú piccola di statura. Dovevi sobbarcarti la maggior parte del lavoro domestico e fare un po’ da genitori, impegnati altrove. Gli agguati e i dispetti erano all’ordine del giorno: peperoncino nella ricotta, gonna tagliata, sale tra le lenzuola. Vi è rimasta poi l’abitudine a coalizzarvi le une contro le altre, di solito cinque verso una, magari con la partecipazione di vostra madre. A turno ognuna ha subito l’isolamento da parte delle sorelle, certe volte per anni. Poi di nuovo sasora di qua e sasora di là. Come da bambine, ma con i tempi dilatati.
Non me lo dimentico che la piú terribile è stata Valchiria. Con quel nome, era programmata. Alta, bella tranne le labbra sottili e perfide, ambiziosa e piena di sé. La chiamavate la Comandante. Aveva sempre bisogno di un paio di scarpe nuove e della sarta, alla faccia della povertà. Quando Serafina diceva no, sul vestito vecchio compariva un buco misterioso e irrimediabile. Niente stoffe al telaio per Valchiria, voleva fantasie e colori piú sofisticati. Si rifiutò di andare a scuola di taglio e cucito come le altre, non avrebbe indossato roba fatta in casa. Se esagerava ci prendeva le vattanne dal padre, ma non si piegava.
Fioravante concedeva solo a lei tra le figlie di andare a Montorio a cavallo, per le spese impossibili a Colledara o Tossicia. Ma era generosa nel cavarci sempre una cosetta per voi sorelle, oltre che il meglio per sé. Quando montava in sella, rimaneva uno o due minuti ferma, quasi in raccoglimento prima di volare sul campo di battaglia a scegliere gli eroi da accompagnare nel Valhalla. Cavalcava alla mulattiera, a pelo, all’amazzone, secondo l’umore dell’attimo. Appariva magnifica, regale, a guardare solo lei, perché la giumenta Nina, detta la Storta, non era certo alla sua altezza.
Valchiria ha respinto e umiliato decine di g...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Mia madre è un fiume
- Il libro
- L’autrice
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