Gigacapitalisti
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Gigacapitalisti

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Gigacapitalisti

Informazioni su questo libro

I ricchi sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Ma se quelli di una volta erano megacapitalisti, quelli di oggi sono gigacapitalisti. La pandemia, il periodo piú calamitoso di sempre per i nove decimi dell'umanità, è stata una pacchia per loro. Jeff Bezos ha aggiunto un'ottantina di miliardi di dollari al suo già cospicuo patrimonio. Elon Musk, per un momento, l'ha superato come uomo piú ricco al mondo. La nazione virtuale da due miliardi di utenti fondata da Mark Zuckerberg, se fosse reale, sarebbe la piú popolosa al mondo. Ma il punto non è soltanto la quantità del denaro in sé. È che tale quantità dà a singoli individui un potere che, un tempo, competeva solo agli Stati sovrani. Come si fa a fermare la cavalcata verso nuovi tipi di monopoli di questa manciata di plutocrati che non ambiscono a influenzare solo che cosa compriamo ma anche che cosa pensiamo? Con tasse giuste, leggi migliori, piú diritti ai lavoratori sfruttati e una nuova consapevolezza collettiva. Perché se continui a dire di mangiare brioche a moltitudini senza pane, la storia insegna, di solito non va a finire bene.
Bezos, Musk, Zuckerberg e il restodel club degli ultraricchi valgono, da soli, piú di molti Stati. E spessocontano anche di piú. Ma le fortunetroppo concentrate non fannobene né al mercato né tantomenoalla società. È il momento di intervenire, prima che sia troppo tardi.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
Print ISBN
9788806254094
eBook ISBN
9788858439289
Argomento
Business
Capitolo secondo

L’État, c’est moi!

Nel sistema operativo dei gigacapitalisti.

Quella per il successo è l’unica ricetta che non si trova su GialloZafferano. E pour cause. Niente è piú elusivo dell’esatta somma di addendi che come totale laurea qualcuno «venerato maestro» e qualcun altro, non cosí sideralmente diverso dal primo, «solito stronzo», parafrasando la tassonomia arbasiniana. Ogni tanto, come quei cuori semplici che davanti all’arte contemporanea non han di meglio da commentare se non «saprei farlo anch’io», tendiamo a cascarci tutti. La mia versione di quest’ingenuità, per dire, consiste nel buttare lí mezze idee mal masticate di possibili app o servizi online ai quali incredibilmente altri non hanno ancora pensato. Dunque ne parlo dieci minuti con Emanuele, un mio amico informatico molto intelligente, che mi ascolta con pazienza salvo immancabilmente iniziare il suo trattamento scorticante che deve aver imparato dal suo business coach, una specie di psicoterapeuta per imprenditori. «In che modo questa cosa è significativamente diversa dalle altre che esistono già?», per cominciare, e «perché qualcuno dovrebbe essere disposto a pagare per averla», se da qualche altra parte ne esiste una versione peggiore, va bene, ma gratuita? Segue analisi logica del progetto, chi fa cosa in ogni singolo passaggio, in che modo la reputazione già acquisita potrebbe beneficiare il progetto e cosí via fino all’ineluttabile conclusione: troppo sbattimento, non ne facciamo niente.

Successo è trasformare un’idea in ideologia.

La sua sintesi, riedizione del XXI secolo del celeberrimo apoftegma dell’inventore della lampadina Thomas Edison («Il genio? Uno per cento ispirazione, 99 per cento traspirazione»), è che le buone idee ce le hanno in tanti, quel che conta è l’esecuzione. Un truismo stampigliato sulla pelle di ogni imprenditore che ce l’abbia fatta. Nel caso dei nostri fuoriclasse c’è però un ingrediente supplementare. Ovvero la visione sinottica. La capacità di scorgere ogni possibile connessione tra il proprio terreno di gioco e altri che a prima vista non c’entrano niente. Non solo vedere questi fili nascosti, inaccessibili agli sguardi ordinari, ma saperli tirare a proprio favore. In altre parole, mentre i comuni mortali hanno al piú idee, loro ci costruiscono sopra ideologie. Gates vuole un pc su ogni scrivania (col suo software dentro, bien entendu). Jobs va oltre: essendo strumenti di comunicazione piú che di calcolo, devono essere belli. Bezos inverte l’ordine dei fattori: piú che vendere cose (merci), è importante comprare persone (clienti) e una volta conquistate rifilargli di tutto. Zuckerberg monetizza la socialità. Musk intercetta un’emergenza, la transizione ecologica, e ci edifica sopra un’industria. I loro traguardi sembravano grandiosi, sin quando non li hanno realizzati. Per questo avventurarsi nelle loro biografie, provare a retroingegnerizzare i loro “sistemi operativi” psichici è una maniera alternativa per intendere le ragioni, non solo del successo, ma del predominio che esercitano su pezzi sempre piú cospicui del mondo in cui viviamo.

Che c’entra Amazon con la «teoria del tutto»?

A partire dalla fine degli anni Ottanta si cominciò a parlare di «teoria del tutto». Si trattava del titanico tentativo della fisica teorica di unificare le quattro interazioni fisiche fondamentali (gravitazionale, elettromagnetica, debole e forte). E nel farlo rimuovere l’ostacolo che aveva tormentato le menti migliori del secolo: riconciliare il determinismo della relatività generale con l’indeterminismo della meccanica quantistica. In altre parole di risuscitare Einstein e Heisenberg, metterli allo stesso tavolo e convincerli che alla fine sostenevano cose non cosí incompatibili. E gli assoluti del primo potevano convivere con la circostanza che l’osservatore determina sempre il risultato dell’osservazione. Quei tentativi ambiziosissimi hanno via via preso il nome di «teoria delle stringhe» (all’interno della quale si ipotizzava un multiverso che avrebbe contenuto tutto ciò che esiste: spazio, tempo, materia, energia, informazione e le leggi che li descrivono), supergravità, mondo-brana, cosmologia ciclica conforme, giusto per ricordare i principali. Uno per l’altro volevano dimostrare, nella mia sintesi da fucilazione immediata, che il gatto di Schroedinger poteva giocare con la mela di Newton ed entrambi i fenomeni potevano essere spiegati in maniera unificata. Al netto della fascinazione intellettuale nessuna di queste teorie è stata confermata sperimentalmente. Tranne che nel mondo del business irretito dalla sua suggestione. Si dà il caso che i due interpreti piú luminosi del gigacapitalismo abbiano brevemente preso in considerazione carriere nella fisica. Partiamo da Jeff Bezos.

Gli spaventosi numeri di un’azienda-mondo.

Per apprezzare le dimensioni continentali della sua azienda-mondo è indispensabile partire dai numeri. E allora ecco i duecento miliardi di dollari del fondatore, il patrimonio personale piú alto di sempre, un’ottantina dei quali cresciuta grazie alla pandemia che ha affossato il resto dell’umanità. O, da un’altra prospettiva, 9 secondi: il tempo che gli ci vuole a guadagnare lo stipendio annuale di un suo magazziniere. Il quale, stando all’algoritmo, ogni 8 secondi dovrebbe invece prelevare una merce dagli scaffali, scarpinando a passo di carica fino a 20 chilometri al giorno. 840 000 è invece il conto globale dei dipendenti, per ognuno dei quali avrebbe però fatto fuori 2 o 3 altri lavoratori, stando a una stima di MarketWatch, una delle tante che provano a quantificare il ruolo che il sito di commercio elettronico ha avuto nella retail apocalypse, la carneficina di negozi. E tutto ciò prima del dispiegamento di oltre 200 000 robot nei magazzini. Per non dire dei sacri 14 Principî a cui devono attenersi i dipendenti. Delle 48 ore, il termine di consegna per tutte le merci di Prime. O dei 60 secondi, il tempo garantito tra l’ordine di un libro su Kindle e il suo scaricamento. Tacendo delle crescite record che, anno dopo anno, il fondatore riassume nelle comunicazioni agli investitori e che ha raccolto in Inventa & Sogna, la sua versione delle lettere ai Corinzi dove «l’amore che non viene mai meno», l’oggetto della sua fede, è quello nei confronti del cliente, intorno al quale tutta la cosmogonia bezosiana si muove. Un corpus testuale affidato a Harvard Business Review Press e in Italia tradotto da Sperling & Kupfer che ci ha fatto entrare nella psiche del piú ricco, potente, geniale, odiato e largamente misconosciuto manager vivente.

Ma di cosa si occupa, esattamente? Di tutto.

Perché la prima difficoltà, parlando della sua creatura, è definitoria. Di cosa si occupa Amazon? Pensiamo di saperlo tutti, ma non è detto. È diventata famosa come negozio, anzi l’Everything Store dal titolo del libro di Brad Stone, ma ormai si arricchisce di piú come fornitrice di servizi informatici (Amazon Web Services). Perché sulle merci ha una politica dei prezzi ferocemente al ribasso, talvolta in perdita, mentre sul cloud ha margini ampi. In buona sostanza su 208 miliardi di dollari (2018) di vendite faceva profitti per 5 miliardi, contro i 7 incassati sul fatturato Aws di soli 26 miliardi. Perché dalla Cia a Netflix, che pure è sua concorrente sul terreno delle piattaforme video, metà di chiunque abbia bisogno di servizi cloud si appoggia ai suoi server. Grazie al fenomenale numero di ricerche che ogni giorno milioni di clienti effettuano sul suo sito è diventata anche una superpotenza pubblicitaria: chi, meglio di lei, conosce i desideri merceologici delle persone? E poi c’è il «Washington Post», comprato con l’argent de poche di Bezos e rivitalizzato in sei anni, passando da 500 a 850 giornalisti. Per chiudere, ma solo per amor di brevità, con la passione piú antica: le spedizioni spaziali private a 200 000 dollari a biglietto che Blue Origin intende offrire nei prossimi anni. «Di che si occupa?» non era alla fine una domanda oziosa. E se all’Agenzia delle entrate avessero dovuto trovare il codice Ateco per i ristori sarebbero impazziti.

In che modo un Golden Globe a «Transparent» fa vendere piú martelli e salviette?

Piú che un’azienda è un ecosistema dove business apparentemente irrelati si parlano fitto fitto nella testa del fondatore. O, per dirlo con la lettera del 2014, «Sono abbastanza sicuro che siamo la prima azienda che ha scoperto come trasformare la vincita di un Golden Globe in un aumento nella vendita di attrezzi per il bricolage e di salviette umidificate per neonati». Si riferisce al premio per la serie Transparent, su un padre che in vecchiaia si rivela trans, e ai suoi effetti collaterali. Ovvero attivare il circolo virtuoso che fa, piú o meno, cosí. Ridurre la quantità di cartone dei pacchi o il tempo per spedirli consente risparmi. Che a loro volta si trasformano in ribassi sui prezzi. Che aumentano il volume delle vendite. Che riducono i costi fissi (non cambia molto far funzionare un server per mille o diecimila transazioni), consentendo ulteriori ribassi sui prezzi. «I clienti li amano e, nel lungo periodo, fanno bene anche a voi», scriveva nel 2000 agli azionisti, avvisandoli: «Aspettatevi di vederci ripetere questo loop». Ad infinitum. E cosí è stato. Ma se è vero che un abbonato Prime spende in media 1400 dollari all’anno contro i 600 di uno non Prime, bisogna inventarsi sempre nuovi motivi per farlo iscrivere. Quindi la musica. Lo spazio illimitato per archiviare le foto. E via aggiungendo. Soprattutto i film, e ci siamo arrivati, che se vincono premi piú gente vuole vederli, anche a costo di abbonarsi. Facendo ripartire quel meccanismo che, dal 1997 della quotazione a oggi, ha moltiplicato il valore delle azioni di 170 volte, per cui se avessi investito 1000 dollari ora ti compreresti un monolocale.

Jeff, versione beta: una mente molto analitica.

Filosofia a parte, l’incognita rimane l’uomo. Biografia minima della sua versione beta. Jeffrey Preston Jorgensen nasce a Albuquerque (New Mexico) nel 1964 da una studentessa diciassettenne che l’ha avuto col gestore di un negozio di bici che si esibiva sul monociclo in un circo e dal quale divorzia quasi subito. A quattro anni il nuovo compagno Miguel Bezos, esule cubano che arriva in America con una giacca fatta di stracci, lo adotta, com’è successo a Steve Jobs. Primo della classe al liceo in Florida dove si sono trasferiti, gli affidano il discorso di commiato in cui immagina un futuro in cui dovremo trasferirci su un altro pianeta perché la Terra non avrà abbastanza risorse per tutti. A Princeton vagheggia studi di fisica teorica (la teoria del tutto deriva da lí?) per poi ripiegare su ingegneria elettronica. A New York lavora per l’hedge fund D. E. Shaw col compito di individuare «opportunità di investimento» nel mondo nuovo internettiano. È lí che, dopo aver spiegato agli amici il suo women flow (parafrasi del deal flow per cui i broker non prendono in considerazione investimenti sotto una certa cifra), secondo il quale avrebbe accettato solo candidate «in grado di tirarlo fuori, al bisogno, da una prigione del Terzo mondo», conosce MacKenzie Scott, ex assistente di Toni Morrison, e la sposa. Di quel periodo l’agnizione piú importante è questa: «Mi accorsi del fatto che l’utilizzo del web cresceva del 2300 per cento all’anno». Cosí, applicando il suo «metodo di minimizzazione dei rimpianti» («Quando avrò 80 anni mi pentirò di aver lasciato Wall Street? No. E invece di essermi perso l’inizio di internet? Sí»), prende la decisione che lo traghetterà verso la sua prima release: aprire un negozio online.

Versione 1.0: «È sempre il primo giorno!»

Quando nel ’94 affitta gli uffici a Bellevue, sobborgo di Seattle dove ha sede anche Microsoft, sono lui, MacKenzie e un programmatore. La sua invenzione logistica piú significativa, in quei giorni, è l’introduzione di ginocchiere per non farsi male quando infila i libri nei pacchi accucciato a terra. A lungo guiderà una Honda Accord largamente sottodimensionata rispetto alle sue finanze. Una frugalità che è rimasta nell’ethos aziendale a giudicare da come vengono guardati i neoassunti che commettono l’impudenza di stampare documenti su un lato solo anziché su due o peggio ancora quelli che chiedono di volare in business. Vecchia fissa anche di Gates («Comunque non si arriva prima!») che con mister Amazon condivide soprattutto un certo millenarismo («Siamo sempre a sei mesi di distanza dal fallimento»). Bezos lo esprime nel culto del Giorno 1, che nella vita delle aziende corrisponde allo start-up, l’avviamento. Seguito dal 2, la stasi. Il 3, l’irrilevanza. A cui si accompagna il 4, lo «straziante, dolorosissimo declino». Che precede il 5, la morte. L’importante, quindi, è non uscire mai dalla prima, energetica casella. Per farlo bisogna concentrarsi non tanto sulla concorrenza (ché una volta che l’hai staccata ti puoi rilassare e a quel punto sei fottuto) quanto sui clienti, per definizione incontentabili.
Il messaggio è la pietra angolare su cui è edificata la sua chiesa, a partire dal nome dell’edificio che ospita il suo ufficio (Day One, appunto) ed è stampigliato anche nei bagni dei magazzini. E ogni anno le lettere si concludono con un «ricordatevi che siamo sempre al Giorno 1», gemello diverso del motto dei Navy Seals («L’unico giorno facile era ieri»). Religione del cliente che si estrinseca al massimo livello con invenzioni tipo il pulsante Mayday sui tablet Fire Hd dove, se qualcosa va storto, basta premerlo e qualcuno interviene direttamente sull’apparecchio. Assistenti cosí servizievoli che in pochi mesi avrebbero totalizzato almeno 35 proposte di matrimonio, pulsione provata anche dal vostro autore, alle prese con uno spinoso problemino di software, verso l’impareggiabile Emanuela da Cagliari a cui, a distanza di tempo, manda i migliori auguri.

Versione 2.0: il Creso si rilassa (e divorzia).

Poi, però, arriva il gennaio 2019. Il tabloid «National Enquirer» spara la bomba: Bezos ha un’amante. Si tratta di Lauren Sánchez, moglie a sua volta di un celebre agente di Hollywood che il fondatore, complice il coinvolgimento creativo in Amazon Videos, ha cominciato voluttuosamente a frequentare. Con tutti gli ammennicoli, compresa la villona a Beverly Hills e il farsi vedere in giro con Matt Damon. Il riassunto migliore è di un cinematografaro: «Se c’è un’inaugurazione Bezos non manca mai. Andrebbe anche all’apertura di una busta!» In effetti, dal 2017, quando «Forbes» lo laurea il piú ricco del mondo, l’uomo è cambiato. Narra la leggenda, riportata dal «New Yorker», che pochi giorni dopo l’exploit Bill Gates lo inviti a pranzo proponendo come possibili giorni «martedí o mercoledí». La segretaria verifica: sono entrambi disponibili. Ma Bezos non ci sta: «Facciamo giovedí». Una cazzimma inedita. Poco cibo, tanti pesi: è a un passo dal culturismo.
Dopo pochi giorni dal lercio scoop Bezos annuncia il divorzio dalla moglie, con la quale ha quattro figli. Jeff si tiene il 75 per cento delle azioni e la totalità dei diritti di voto mentre a MacKenzie ne va un quarto, quasi 36 miliardi, sufficienti per farla diventare la donna piú ricca del mondo e farle annunciare di aver ripreso in mano un romanzo a lungo abbandonato. Gli analisti temono che le vicende private possano offuscare la leggendaria razionalità dell’uomo, ma vengono prontamente rassicurati dai risultati di borsa.

Attaccato da Sanders e da Trump.

Che però non neutralizzano la cattiva stampa. Nel S-Team, il sinedrio di 18 senior che gestisce l’impero amazoniano, c’è una sola donna, alle risorse umane, e nessun nero. L’allergia verso i sindacati è notoria, alimentata anche da episodi come quello di vent’anni fa quando una union locale provò a organizzare 400 addetti all’assistenza clienti a Seattle e l’azienda li mandò tutti a casa. Nel 2018 Bernie Sanders propone la legge Stop Bad Employers by Zeroing Out Subsidies, che in acronimo fa Stop BEZOS, accusato di pagare cosí poco i propri dipendenti da costringerli a chiedere i sussidi statali. I famigerati working poors. Una campagna che lo convince non solo ad alzare i salari minimi a 15 dollari l’ora, un sogno per tanti americani, ma anche a sfidare i suoi concorrenti a fare almeno altrettanto. Resta l’imbarazzo delle tasse. In quello stesso anno, parliamo di imposte federali sul reddito, il fondatore non ha pagato un dollaro. Un po’ come Trump che però lo chiama Jeff Bozo, «coglione», reputandolo il mandante del trattamento ruvido che il «Post» gli ha riservato in questi anni e contro cui si vendicherà facendogli revocare una megacommessa da 10 miliardi di dollari per servizi cloud al Pentagono. Bezos ha fatto ricorso, ma non ci ha perso il sonno.

I 14 Principî di leadership.

Anche perché quello della pandemia è stato forse l’anno piú ricco di sempre. Non potendo uscire di casa l’Everything Store è diventato l’emporio dell’umanità. E mentre i supermercati tradizionali, travolti dagli ordini, ci mettevano settimane per consegnare, ad Amazon bastavano giorni. Quindi che giudizio diamo dell’uomo e della sua creatura a dieci anni precisi dallo sbarco italiano? Raramente le due entità sono state cosí compenetrate. Al punto che il capo ha creato una nuova figura, il consulente tecnico, ribattezzato Jeff-bot, che lo segue passo passo per almeno un anno, assorbe la sua visione e prova a infonderla ai livelli gerarchici piú bassi. Tra i 14 Principî di leadership annunciati svettano «Mai rispondere: Non è compito mio», «Inventa e semplifica» e il fondamentale e impervio «Disagree and commit», sii pure in disaccordo, dillo, ma una volta detto impegnati come se l’idea fosse stata tua. Bezos ha costruito la sua azienda come un generale gestisce West Point. Ai potenziali dipendenti fa sapere: «Si può lavorare a lungo, intensamente o con scaltrezza, ma da noi non puoi limitarti a scegliere due delle tre opzioni». Le vuole tutte. «Sei pigro o solo incompetente?», «Questo documento è stato chiaramente scritto dalla squadra B. Qualcuno mi può far avere quello della squadra A?», «Perché mi rovini la vita?» sono solo alcune delle risposte al curaro, che rievocano il panico dei dipendenti di Microsoft alla prospettiva di trovarsi in ascensore con Bill o di quelli di Apple nel fronteggiare Jobs, l’«agguerrito buddista» della memorabile definizione di Evgenij Morozov. Ma forse bisogna arrendersi: se sei un poeta fai un’altra carriera. Eppure, da giovane, Bezos giurava di amare Kazuo Ishiguro, il Nobel dell’introspezione, l’autore di Quel che resta del giorno.

Una partita a lunghissima scadenza.

Non risulta che Bezos abbia cambiato la sua abitudine di godersi un risveglio lento e di non fissare mai riunioni prima delle 10. Come le sue lettere confermano, è uno stratega, della tattica non sa cosa farne. Per rendere il concetto piú plastico ha anche stanziato 42 milioni per costruire, sopra al suo ranch texano, un orologio Long Now pensato per durare 10 000 anni, che muoverà il braccio avanti ogni cento. D’altronde, che alla Casa Bianca ci sia un democratico o un repubblicano, la Corte dei conti americana ha calcolato che sulle sedici principali agenzie federali solo l’11 per cento ha già fatto la transizione nel cloud. E in ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gigacapitalisti
  4. Prologo
  5. I. Accumulazione originaria
  6. II. L’État, c’est moi!
  7. III. Che fare
  8. Epilogo
  9. Bibliografia essenziale
  10. Ringraziamenti
  11. Nota finale
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright