Arancia meccanica
  1. 264 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

«Per molti versi il libro sono io: perché quello che scriviamo riguarda molto quello che siamo. E il libro rivela una battaglia interiore con questa idea: quella del male. Non solo il male, ma il pericolo di provare a correggerlo. In linea di massima sono molto scettico riguardo all'uso del potere per cambiare gli altri. Alla fine noi, in quanto esseri umani, dobbiamo scendere a patti da soli con il dilemma del bene e del male, di ciò che è giusto e sbagliato, come di qualsiasi altra cosa. Dio non lo farà al posto nostro. Se un Dio c'è, è un Dio sovrumano: a lui poco importa delle motivazioni umane. Anche se al mondo non ci fossero piú esseri umani i principî del bene e del male continuerebbero a esistere. Non credo che tra duemila anni, sempre se esisterà ancora, il mondo sarà meno malvagio, o meno buono. Il conflitto non finisce mai».
Anthony Burgess Completano il volume un glossario, un'appendice di testi inediti dell'autore, alcune pagine annotate del manoscritto originale.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
Print ISBN
9788806250768

Parte prima

1.

− Embè, che si fa?
C’ero io, ovverosia Alex, con i miei tre drughi, ovverosia Pete, Georgie e Tonto, che si chiama cosí perché è proprio tonto, e ce ne stavamo seduti alla Latteria Korova a spremerci la razune su cosa fare di quella sera, nel bel mezzo di un inverno gelido e buio pesto e davvero bastardello sebbene non umido. La Latteria Korova è un miesto lattepiú ed è possibile, fratelli miei, che voi abbiate obliato com’erano codesti miesti: di questi tempi le cose cambiano scorrevolose e tutti si smemorano in fretta, tanto piú che i giornali chi li legge piú. Orbene, quello che vendevano lí era latte con l’agghiunta di qualcos’altro. Non avevano la licenza per vendere alcolici, ma non c’era alcuna legge che impedisse di speziare il caro vecchio moloko con qualche vescia nuova nuova, cosí te lo potevi piripittare con un’agghiunta di accelerato o di mescalato o di drencromato o di qualche altra vescia che ti regalava un bel quarto d’ora incresciò ad ammirare nella tua scarpa sinistra Pio E Tutti Gli Angeli In Colonna, con le luci che ti esplodevano in tutto il mosco. Oppure ti piripittavi il latte con l’agghiunta delle spade, come dicevamo noialtri, e questo ti rendeva bello affilato e ti preparava a un po’ di lurido mentovertiti, ed era proprio questo che ci stavamo piripittando la sera in cui vado a iniziare la mia sturielletta.
C’avevamo le tasche piene di dindi, quindi non c’era alcun bisogno di crastinare altri poldi andando a cioccare qualche vecchio ciallovo in un vicoletto e videarlo nuotare nel sangue mentre contavamo il gruzzolo e ce lo dividevamo per quattro, e nemmeno esercitare un po’ di ultraviolenza a danno di una starda pizia tutta tremante e canuta in qualche negozietto e smeccarcela con le viscere della cassa. Epperò, i soldi non sono tutto. Dicono cosí, no?
Noi quattro prodi eravamo vestiti alla novellissima foggia, che all’epoca si traduceva in un paio di calzamaglie nere molto attillate con un vecchio budino, come lo chiamavamo noi, che s’infilava sotto la calzamaglia ovvero sul pacco per proteggere le barballe ma che aveva anche una specie di disegno che si riusciva a videare solo sotto una certa luce: io ne avevo uno a forma di ragno, Pete ce l’aveva a forma di bruccola (ovverosia di mano), Georgie c’aveva quello stiloso di un fiore e il povero vecchio Tonto ne aveva uno molto volestucco con sopra la lizza (ovverosia la faccia) di un pagliaccio, visto che Tonto non ci capisce granché di niente ed è senz’ombra di dubito il piú tonto di noi tutti. Allora portavamo giacchette senza i risvolti ma con le spalline belle grosse (le chiamavamo «plicce» ) come una specie di parodia di chi ha le spalle davvero grosse. Inoltre, fratelli miei, portavamo cravattine giallognole che ricordavano tanto un purè di kartoffele ovverosia patate con sopra un disegnino fatto con la forchetta. Non portavamo i capelli lunghi e avevamo stivali molto flippi e incresciò per sferrare gran bei calci.
− Embè, che si fa?
C’erano tre devocce sedute al bancone, ma noi malciacchi eravamo in quattro e di solito era uno per tutti e tutti per uno. Anche le gazze erano vestite alla novellissima foggia, con parrucche viola e verdi e arancioni sopra il gulliver: ognuna, mi dava l’idea di costare almeno tre o quattro settimane della loro paga, in piú avevano il trucco in tinta (ossia l’arcobaleno intorno ai glassi e la brotta pittata in lungo e in largo). Eppoi portavano un lungo vestitino nero, e sopra le gruddole avevano piccoli distintivi argentati con su i nomi di diversi malciacchi: Joe e Mike e roba del genere. Questi dovevano essere i nomi dei malciacchi con cui avevano spacciugato prima dei quattordici anni. Continuavano a fissarci e stavo quasi per dire (dall’angolo della brotta, però) che noi tre quasi quasi potevamo impollinarle un po’ e scaricare il povero vecchio Tonto, sarebbe bastato kupettare a Tonto un mezzo litro di biancore con l’agghiunta di un goccio di mescalato, ma gli avremmo fatto proprio un tiro sporco. Tonto era brutto come la morte e tale quale al nome, ma era un picchiatore incresciò e un vero artista dello stivale.
− Embè, che si fa?
Un ciallovo se ne stava seduto lí accanto, perché avevano messo questi divanetti morbidosi che correvano lungo il muro, ed era bello sfatto con i glassi glassati e borbogliava slovode tipo − Aristotele patetico peripatetico pota i ciclamini sforbiciando −. Era veramente fuori, ma di brutto, come un balcone, e io sapevo cosa provava, perché c’ero passato come tutti, ma in quel periodo, fratelli miei, avevo deciso che doveva essere una vescia un po’ codarda. Te ne stavi lí dopo aver bevuto il caro vecchio moloko e ti veniva la messaviglia che tutto intorno a te era sprofondato nel passato. Te lo videavi veramente, tutto quanto, chiarissimo – i tavoli, lo stereo, le luci, le gazze e i malciacchi – ma era come una vescia che un tempo era lí ma adesso non c’era piú. E stavi lí come ipnotizzato dal tuo stivale o da una scarpa o da un’unghia che dirsivoglia, e allo stesso tempo era come se qualcuno ti avesse preso per la collottola e scrollato manco fossi una gattola. Venivi sbatacchiato di brutto finché dentro non ti restava piú niente. Perdevi il tuo nome e il tuo corpo e il tuo io e non te ne fregava piú niente di niente, e aspettavi finché lo stivale o l’unghia non diventavano gialli, sempre piú gialli col passare del tempo. Allora le luci cominciavano a scoppiettare come funghetti atomici e lo stivale o l’unghia o perfino una macchiolina sui pantaloni si trasformavano in un enorme miesto, piú grande del mondo intero, e tutto finiva quand’eri sul punto di venir presentato al vecchio Pio o Dio. Te ne tornavi quaggiú e ti ritrovavi a piagnucolare, con la brotta predisposta a fare buu-uuu. Oh, niente di male, però vigliaccoso. Mica ti hanno messo su questo pianeta per entrare in contatto con Dio. Facile che quel tipo di roba risucchia via a un ciallovo tutta la sua forza e la virtú.
− Embè, che si fa?
Lo stereo era acceso e ti veniva il pensiero che la volossa del cantante si stesse spostando da un lato all’altro del bar, schizzando fino al soffitto per poi precipitare giú di nuovo e rantolare da un muro all’altro. Era Berti Laski che ciangottava uno stardo pezzo intitolato Mi svuoti il vesciato. Una delle tre pizie alla cassa, quella con la parrucca verde, continuava a muovere il pancino in dentro e in fuori per andare a tempo con quella che chiamano musica. Sentivo i coltelli nel caro vecchio moloko che cominciavano a sfruculiare, e adesso sí ero davvero pronto per un po’ di mentoverti. Cosí ho uggiolato: − Via via via via! − come un cagnolino e poi ho colpito il ciallovo seduto accanto a me, quello fuori come un balcone, che andava avanti a borbogliare baggianate incresciò, gli ho tirato un cazzotto nell’uco, detto anche orecchio, ma lui non se n’è manco accorto ed è andato avanti con il suo − apparecchio telefonico quando il forbicino fa dum dum dum −. Se ne sarebbe accorto una volta tornato a terra.
− Via dove? − ha detto Georgie.
− Bah, a bighellonare un po’, − ho detto, − e videare cosa salta fuori, fratellini.
E cosí siamo scaravoltolati fuori nella grande nocie invernale e abbiamo percorso Marghanita Boulevard e abbiamo svoltato in Boothby Avenue, e lí abbiamo trovato proprio quello che cercavamo, uno spasso malenchino per dare il via alla serata. C’era un vecchio ciallovo tipo proffolo, andatura barcollante, occhiali e brotta scoperta nell’aria gelida della nocie. Aveva dei libri sotto braccio e un ombrello sbrindellato e stava svoltando l’angolo dalla Biblio Pubblica, che a quei tempi non era frequentata da molti liudi. A quei tempi non ne beccavi molti di vecchi borgioiosi come questo dopo il calare delle tenebre, visti gli scarsi mezzi della polizia e la presenza in giro di noi giovani fusti malciacchi, e questo ciallovo tutto professoroso era l’unico a spasso per quella strada. Cosí siamo gullati fino a lui, smancerosi, e io ho detto: − Mi perdoni, fratello.
Sembrava un malenchino impuggato quando ha videato noialtri quattro che ci presentavamo con quei modi silenziosi e smancerosi e sorridosi, ma ha detto: − Sí? Prego? − con una volossa molto forte, stile cattedro, come se volesse dimostrarci che invece non era impuggato. Ho detto:
− Fratello, vedo che ha questi libri sotto braccio. È un piacere piú unico che raro, di questi tempi, imbattersi in qualcuno che ancora legge, fratello.
− Ah, − ha risposto, tutto tremolo. − Davvero? Capisco −. E continuava a guardare prima l’uno poi l’altro di noi quattro, trovandosi in mezzo a un quadrato tutto sorridoso e smanceroso.
− Sí, − ho detto, − mi interesserebbe alquanto, fratello, avere da lei il gentile permesso di vedere quali libri si porta appresso sotto braccio. Non c’è niente di meglio al mondo di un buon libro rispettabile, fratello.
− Rispettabile, − ha detto. − Rispettabile, eh? − Allora Pete gli ha skiattivato i libri e li ha passati scorrevoloso a noialtri. Erano tre e quindi ne avevamo tutti uno da videare, tranne Tonto. Quello che è capitato a me era intitolato Cristallografia di base, quindi l’ho aperto e ho detto: − Che meraviglia, di prima categoria, − mentre continuavo a sfogliarlo. Poi ho esclamato con una volossa stupefatta: − E questa qui che cos’è? Che cos’è questa slovodaccia? Arrossisco soltanto a guardarla. Lei mi delude, fratello, mi delude davvero.
− Ma… − ha balbettato, − ma, ma…
− Ordunque, − ha detto Georgie, − anche qua c’è dell’indecenza mica da ridere. Ecco una slovodaccia che comincia con la «f» e un’altra che comincia con la «c» −. Lui aveva in mano un libro chiamato Il miracolo del fiocco di neve.
− Oibò, − ha detto il povero vecchio Tonto, smottando il libro di Pete di straforo, per poi esagerare com’è suo solito, − qui racconta quello che le combina, e c’è pure un’illustrazione e tutto il resto. Ma insomma, − ha detto, − lei non è altro che un vecchio uccellaccio sporcaccione.
− Un uomo della sua età, fratello, − ho detto, mentre cominciavo a strappare le pagine del libro che avevo in mano, e gli altri mi imitavano con quelli che avevano loro. Tonto e Pete hanno fatto il tiro alla fune con Il sistema romboedrico. Lo stardo proffolo ha cominciato a scricciare: − Questi libri non sono miei, sono di proprietà del Comune, questo è un atteggiamento sconsiderato, siete dei vandali, − o slovode di tal genere. E ha cercato in qualche modo di ghermirceli, cosa abbastanza patetica. − Lei ha bisogno di una lezioncina, fratello, − ho detto, − mica no −. Il libro dei cristalli che avevo io era rilegato a dovere e non era facile sdirazzarlo, perché era proprio stardo, ovverosia fatto in un’epoca in cui le cose erano fatte tipo per durare, ma sono riuscito a strappare le pagine e ad appallottolarle come grossi fiocchi di neve che ho scagliato contro il vecchio ciallovo, e poi gli altri hanno fatto lo stesso, mentre il vecchio Tonto se ne stava lí a ballare come il pagliaccio che è. − Beccati questo, − ha detto Pete. − Eccoti quel cazzolo di fioccolo, sporco curiosone di sconcezze e nefandezze.
− Vecchio ciallovo sporcaccione che non sei altro, − ho detto, e allora abbiamo cominciato a marachellare con lui. Pete gli teneva le bruccole, Georgie gli spalancava la brotta mentre Tonto gli strappava gli zubidi falsi, inferiori e superiori. Li ha scaraventati per terra e io ci ho rifilato il classico trattamento di schiacciamento stivaloso, anche se i bastardelli erano belli resistenti, perché erano fatti di un qualche nuovo materiale plastico incresciò. Il vecchio ciallovo ha cominciato a fare una specie di sciumo digrignante – uuf uaf uof –, cosí Georgie s’è stufato di tenergli aperte le gubre e gliene ha sferrato uno col tirapugni sulla brotta sdentata, e a quel punto il vecchio ciallovo ha cominciato a gemere sul serio, e a quel punto è sgorgato il sangue, fratelli miei, bellissimo. Cosí ci siamo limitati a togliergli i pilatti, lasciandolo in canottiera e mutandoni (una roba veramente da stardi: Tonto stava quasi per svitarsi la testa dalle smeccate), e allora Pete gli ha sferrato un delizioso calcione nella pancia e l’abbiamo lasciato andare. Lui s’è allontanato barcollando, anche se non era mica stata una cioccata di quelle orche, faceva − Ahi ahi ahi − , senza capire piú niente di dov’era e di cosa era successo, e ce la siamo ghignata di brutto e poi gli abbiamo frugato nelle tasche, mentre Tonto se la ballava con l’ombrello aperto tutto sbrindellato, ma dentro non c’era granché. Qualche starda lettera, alcune risalivano addirittura al 1960, con «Amatissima mia» e tutte quelle accipucche, poi un portachiavi e una starda penna smocciolante. Il vecchio Tonto ha smesso di ballare con l’ombrello e ovviamente s’è messo a leggere una lettera ad alta voce, come se dovesse dimostrare alla strada deserta che sapeva leggere. − Tesoro mio, − ha recitato, con la volossa tutta roboante, − quando sarai via penserò alla tua persona in ogni istante, mi auguro che tu abbia la premura di coprirti bene quando esci alla sera −. Poi ha smollato una smeccata sciumosa – Ah ah ah − fingendo di pulircisi la giamma. − E va bene, − ho detto. − Basta cosí, fratellini −. Nei pantaloni di questo stardo ciallovo di svanziche (ovverosia di soldi) ce n’erano malenchine – poco piú di tre golle – quindi abbiamo riservato a questa misera somma lo sparpaglío: erano scriccioli, rispetto ai poldi che avevamo già. Poi abbiamo distrutto l’ombrello e sdirazzato i pilatti del ciallovo e li abbiamo affidati al vento impetuoso, fratelli miei, e con questo avevamo finito con il ciallovo professoroso. Non avevamo fatto niente di che, lo so, ma era tipo solo l’inizio della serata e comunque non devo chiedere perdindirindono a chicchessia. Adesso i coltelli del lattepiú trafiggevano che era un piacere davvero incresciò.
Il passo successivo è stato andare a offrire da bere a qualcuno, che era un modo per alleggerirci di un po’ di svanziche e aver piú stimoli di crastinare qualche negozietto. Era anche un modo per farsi un alibi, cosí siamo andati al Duke of New York in Amis Avenue e poco ma sicuro lí sedute c’erano tre o quattro vecchie babucce a piripittare le loro birre scure con gli spiccioli dei sussidi statali. Ecco che siamo diventati dei bravi malciacchi, con un buonasera smanceroso, anche se quelle vecchie febane avvizzite si sono messe subito a tremare, con le vecchie bruccole venose che sussultavano intorno al bicchiere a tal punto da farlo schiumare sul tavolo. − Lasciateci in pace, ragazzi, − ha detto una di loro, la faccia tutta mappata dai mille anni che c’aveva, − siamo solo delle povere vecchie −. Ma noi abbiamo mostrato i nostri zubidi, splendidi splendenti, ci siamo seduti, abbiamo suonato il campanello e aspettato che arrivasse il ragazzo. Quando è apparso, quello si è asciugato le bruccole sul grembiule grassoso, bello nervosetto, e noi abbiamo ordinato quattro veterani: un veterano è un cocktail a base di rum e brandy alla ciliegia, che allora andava molto di moda, anche se qualcuno lo preferiva con un goccio di limone (era la variazione canadese). Poi ho detto al ragazzo:
− Servi a queste povere vecchie babucce laggiú qualcosa di nutriente. Un whiskaccio abbondante e qualcos’altro da portare via −. Al che ho rovesciato tutti i miei dindi sul tavolo e gli altri hanno fatto lo stesso, fratelli miei. E cosí le starde febane atterrite si sono viste servire un doppio whisky, e non sapevano che fare o che dire. Una di loro è sbottata: − Grazie, ragazzi, − ma lo vedevi chiaro che s’aspettavano qualcosa di losco. Comunque a ognuna è stata smollata una bottiglia di Yank General, che è un cognac, da portare via, e io ho sganciato altri soldi affinché la mattina dopo venisse consegnata a casa una dozzina di nereschiumate cadauna, di modo che lasciassero i loro puzzacchiosi indirizzi da vecchie cinne al bancone. Poi, con le svanziche rimaste, abbiamo comprato, fratelli miei, ogni pasticcio, pasticcino, patatona formaggiosa e cioccobarretta di quel miesto, tutto sempre per le vecchie gazze. Poi abbiamo detto: − Torniamo tra una minuuta, − e le vecchie pizie stavano ancora lí a ripetere: − Grazie, ragazzi, − e − Dio vi benedica, giovanotti, − e noi ce ne siamo usciti senza un centesimo di svanziche nelle carmane.
− Ti fa sentire proprio dobbo, una cosa cosí, − ha detto Pete. Si videava che quel povero vecchio tonto di Tonto non riusciva a ponzare l’accaduto, ma non diceva niente per paura di sentirsi dare del galuppo e del superzuccone. Ordunque, abbiamo svoltato in Attlee Avenue, e c’era un negozietto di dolciumi e tumorelle ancora aperto. Li avevamo lasciati in pace per quasi tre mesi e in generale tutto il quartiere era rimasto bello tranquillo, quindi i maliziani armati ossia le pattuglie di sburri non gironzolavano tanto, in quel periodo si tenevano piú a nord lungo il fiume. Ci siamo infilati le nostre mascherette: erano nuove di pacca, molto incresciò, un lavoretto fatto bene, mica no; c’avevano tipo le facce di diverse personalità storiche (ti dicevano il nome quando le compravi) e io avevo Disraeli, Pete aveva Elvis Presley, Georgie aveva Enrico VIII e il povero vecchio Tonto aveva un ciallovo poeta chiamato Pibi Shelley; era troppo il travestimento perfetto, con tanto di parrucca e via dicendo, ed erano vescie di una plastica speciale, che finito il lavoretto potevi arrotolarle e nascondertele negli stivali – poi siamo entrati in tre, con Pete che restava all’esterno a fare il ciasso, non che lí fuori ci fosse granché di cui preoccuparsi. Appena fatta la spaccata nel negozio ci siamo lanciati su Slouse, il gestore, un grosso ciallovo gelatinoso che ha videato subito cosa stava capitando e s’è fiondato sul retro dove c’era il telefono e forse la sua puscia bene oliata, con sei colpi in canna cattivelli. Tonto ha scavalcato il bancone scorrevoloso come il vento e ha rovesciato una quantità di pacchetti di snaricio sopra la grande sagoma di una gazza con gli zubidi che ammiccavano ai clienti e le gruddole spiattellate per pubblicizzare una nuova marca di tumorelle. Quello che si riusciva a videare subito dopo era una specie di grande palla che rotolava verso il fondo del negozio oltre la tendina, e quella palla erano il vecchio Tonto e Slouse avvinghiati in una lotta mortale. Riuscivi a slusciare gli sbuffi e i grugniti e i calci dietro la tendina e le vescie che cadevano per terra e le imprecazioni e i bicchieri che crashavano e crashavano. Mamma Slouse, la moglie, era come pietrificata dietro il banco. Si capiva che avrebbe scricciato di tutto, se solo ne avesse avuto la possibilità, quindi sono balzato scorrevoloso dietro il banco e l’ho grimpata, ed era veramente una bella salamotta incresciò, tutta odorosa di profumo e con due grosse gruddole gongolanti. Le ho messo la bruccola intorno alla brotta per impedirle di strepitare morte e maledizioni ai quattro venti, ma questa cagnolina mi ha rifilato un brutto morso digrignoso e sono stato io a scricciare, e allora ha spalancata davvero la brotta per mollare un gridolo flippo di quelli buoni per chiamare i maliziani. Oh, a quel punto toccava cioccarla a dovere con uno dei pesi della bilancia, per poi aggiungerci una bella mazzuolata con il piede di porco che tenevano lí a portata per aprire le casse, ed ecco il vecchio amich...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Martin Amis
  4. Introduzione. di Andrew Biswell
  5. Arancia meccanica
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Parte terza
  9. Note
  10. Glossario di nadsat
  11. Appendice
  12. Pagine annotate dal dattiloscritto originale. (1961)
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright