Delicatezza.
Sono sempre stata colpita dalla delicatezza nelle favole, fin da quando ero bambina. Anche nelle storie piú crude e brutali riuscivo a trovare qualcosa che rendeva tollerabili gli episodi piú cruenti, come se questi fossero funzionali all’alleggerimento finale, e permettessero al lettore (o a chi quelle storie se le sentiva raccontare) di farsi scivolare addosso qualsiasi violenza.
Ricordo chiaramente di non essermi impressionata quando, ai tempi in cui per me la lettura significava ancora scandire sillaba dopo sillaba alla ricerca del senso dell’intera parola, mio padre mi ha letto la versione integrale di Pinocchio. Non ho battuto ciglio neanche la volta in cui mi hanno raccontato per la prima volta la storia di Biancaneve, nessun tremore durante le avventure di Cappuccetto Rosso, tifo sfegatato ascoltando il passaggio in cui Hansel e Gretel buttano la strega nel fuoco.
Di conseguenza, quando ho iniziato a leggere da sola, non ho avuto timore nell’avvicinarmi ai momenti narrativi di maggior tensione. Avevo ormai capito, proprio per la struttura in crescendo verso il lieto fine tipica di ogni favola, che il bene avrebbe trionfato sul singolo episodio sfortunato e maligno. Perciò non ho avuto paura per Cenerentola quando è stata rinchiusa in casa dalle sorellastre. Non ho tremato per la principessa Aurora, crollata in un sonno profondissimo. Sono rimasta tranquilla seduta sul divano mentre Pollicino e i suoi fratelli finivano dritti nella casa dell’orco.
La delicatezza di questa narrazione tende infatti a uno scopo preciso: a rassicurare le bambine e i bambini di tutto il mondo promettendo loro che il male è cosa rara, spesso di natura bestiale, e che può essere vinto grazie a un semplice esercizio di virtú. Il messaggio è chiaro. Piú avremo fatto tesoro delle doti di bontà e misericordia tramandate da millenni, meno rischieremo di incontrare lupi e streghe sul nostro cammino. E se questo dovesse comunque accadere – nonostante la nostra purezza –, non saremmo stati noi i diretti responsabili. Sarà colpa unicamente del fato, incarnato dalla cattiveria di fattucchiere, orchi e lupi, che ci sta mettendo alla prova.
Un caso raro, insomma, che capita solo agli eletti toccati dal destino. Un caso che trascende dall’umano, perché coinvolge dei mostri con fattezze animalesche, lontanissimi da noi.
Nonostante tutto quel macabro buio che si portano dietro, le favole ti trasmettono – a qualunque età – un senso di protezione. Merito della delicatezza di cui parlavo: il rassicurante sentore di stare leggendo (o ascoltando) qualcosa che in futuro ti potrebbe servire. E che, al contempo, per una bizzarria spaziotemporale sei certo non accadrà mai a te.
Ma se mi soffermo e ripenso in maniera piú analitica e razionale ad alcune storie che ho incontrato durante la mia infanzia, capisco invece che di delicato c’era ben poco: Hansel e Gretel sono brutali quanto Cappuccetto Rosso, cosí come La Bella addormentata ha i caratteri truci della tragedia. Persino Pinocchio, a dirla tutta, ha un fine punitivo piú che rieducativo.
Questa continuità è garantita dalla stereotipizzazione del male: i motivi ricorrenti e il profilo psicologico dei personaggi delle favole tradizionali, traslando di storia in storia, dopo un po’ diventano elementi ripetitivi e riconoscibili. I cattivi si tramutano puntualmente in maschere teatrali, personaggi da commedia riproposti all’infinito, e che sebbene agiscano in storie differenti sembrano avere tutti le stesse radici.
La potenza di questa tradizione, prima orale e poi scritta, è stata talmente incisiva sull’immaginario che queste maschere noi ce le siamo ritrovate nella vita quotidiana, senza essere piú in grado di distinguere in maniera analitica il mondo delle favole da quello reale.
I mostri sono stati portati nella quotidianità anche se di mostruoso – in quello che vedremo – non c’è alcuna traccia: esiste solo una cultura che non abbiamo ancora il coraggio di affrontare coscientemente.
Il GGG.
Mi ricordo bene di quando ho sperimentato un’invasione da parte dei personaggi di fantasia nella vita vera. Ricordo in particolare l’episodio che per primo mi ha fatto confondere il mondo reale con quello inventato, sovrapponendoli per un breve momento davanti ai miei occhi.
Agosto 2019. La storia è quella del GGG, e la ritrovo inserita in uno dei peggiori fatti di cronaca riportati dai quotidiani dell’epoca: quello del femminicidio di Elisa Pomarelli. Quel giorno mi renderò conto che – a differenza di tutto quello che ho studiato, che ho imparato, e a differenza di tutto quello che credo di sapere su di me – sono incapace di distinguere il bene dal male, il vero dal falso. E penserò che, cosí come sta succedendo a me leggendo la notizia, quel fenomeno potrebbe succedere a molti altri lettori.
Procediamo però con ordine, cosí da mantenere i due mondi – quello tangibile e quello di fantasia – ben separati. Cerchiamo anche noi di non commettere l’errore che troppe volte è già stato fatto, quello di mischiare cosí tanto i diversi piani da non riuscire piú a distinguerli con la giusta lucidità.
Il Grande Gigante Gentile, noto appunto come GGG, è uno dei piú famosi libri per bambini di tutti i tempi, e l’ha scritto Roald Dahl nel 1982. La storia parla di un gigante che rapisce Sofia, la piccola protagonista, per portarla nel paese immaginario dove abita un’intera comunità di giganti simili a lui. Un paese cupo, boschivo, lontano da tutto ma dai tratti estremamente familiari.
Inizialmente spaventata, Sofia capisce in breve tempo che il colosso non è cattivo come gli altri suoi simili, i quali mangiano gli esseri umani. Lui è, appunto, una creatura gentile. Lui è diverso – termine fondamentale ai fini della narrazione.
Già da bambina (anche se non avevo le parole per dirlo) nutrivo dei seri dubbi verso la presunta benevolenza di un gigante che ti acchiappa di notte, ti rapisce dal tuo letto e ti porta in un mondo di adulti contro la tua volontà. Col senno di poi, devo ammettere che non mi sbagliavo di molto: soltanto crescendo avrei compreso quanto gli schemi dell’universo favolistico vengano spesso importati nella realtà per poter giustificare i comportamenti umani che ci rifiutiamo di imputare ai nostri simili.
Nella narrazione della violenza di genere questo espediente è molto comune. Il mondo tangibile, con tutto il suo bisogno di assoluzione, non vede l’ora di poter prendere in prestito queste figure di fantasia per autoassolversi dai propri peccati.
Un’estate di un paio di anni fa, all’improvviso, mentre leggo la rassegna stampa del mattino, scorrendo i titoli che riassumono e raccontano il femminicidio di Elisa Pomarelli mi salta all’occhio qualcosa di strano. E cioè il titolo di un giornale che parla di un gigante premuroso, buono, che suo malgrado si è trovato a dover fronteggiare un amore non corrisposto.
Conoscevo il fatto di cronaca, l’avevo letto in prec...