Il cadavere emergeva prono dal lago accanto alla grande struttura in cemento armato che affiorava dall’acqua, struggente come il ricordo della civiltà dopo l’apocalisse.
Osservando quel corpo morto dalla riva, sotto il sole incandescente che faceva vibrare i contorni delle cose, il vicequestore Piersanti Spina pensò di essere vittima di uno scherzo topografico: il lago sembrava una riproduzione in scala di un angolo di Michigan, una cartolina del Wyoming; non era certo ciò che aveva immaginato quando gli avevano comunicato che era stato trovato un cadavere tra la Prenestina e via di Portonaccio.
Se non fosse stato per il muggito dei motori degli autobus in lontananza che, accelerando, facevano vibrare il loro paltò d’acciaio a ogni buca; se non ci fossero stati i tram che di tanto in tanto nitrivano a nord dell’area del lago, Spina non avrebbe mai immaginato di trovarsi a un paio di chilometri dal commissariato di Tor Pignattara.
L’occhio di un martin pescatore che barbagliava lucido come una goccia di petrolio sul piumaggio turchese sembrava scrutare Spina con curiosità dal ramo di un salice bianco, a pochi metri dalle canne di palude che circondavano lo specchio d’acqua immobili, spompate dal grande caldo. Il silenzio fu improvvisamente interrotto da una famiglia di anatre che si levò in volo starnazzando.
– Ad averci un fucile avremmo svoltato la cena, dotto’, – commentò con quella lingua che pareva pizzicare un banjo Karim Taoufik Mohamed, il bel poliziotto nato a Tor Pignattara da genitori tunisini che nel quartiere da sempre chiamavano Aldair. Sembrava uno scherzo, ma tra gli uomini in forza al commissariato VI, a conoscere meglio di tutti quel quadrante di Roma era lo sbirro con gli occhi azzurri e la pelle scura.
Spina seguà l’ascesa delle anatre fino al sole, che galleggiava alto nel cielo, tondo come un enorme tortello in brodo. Il suo sguardo si posò di nuovo sul lago, e piú precisamente sul cadavere, di cui affioravano soltanto la nuca e la schiena.
– Come facciamo a raggiungerlo? – domandò a Rino, un ragazzo coi capelli rasta, immobile là accanto. Quello mosse gli occhi piccoli e neri, che erano simili a quelli del martin pescatore, solo un po’ meno vispi e brillanti. Poi partà senza dire nulla e i due poliziotti lo seguirono.
Quando giunsero davanti a una rete metallica Rino virò a destra imboccando una stradina coperta dalle foglie. Dopo pochi passi si trovarono su un minuscolo molo, se cosà si poteva definire il gradino di tronchi affacciato sull’acqua, che in quel punto si addensava fino a diventare melma.
Solo allora Spina notò le braccia di Aldair imperlate di sudore.
– Fa tanto caldo? – chiese.
– Che non lo sente da solo? – rispose divertito Rino al posto di Aldair.
Dopo un giugno relativamente fresco e zuppo di pioggia, la calura era esplosa all’improvviso, cogliendo impreparati gli abitanti della Capitale. Ma se l’anticiclone africano in quei giorni era il piú grosso cruccio per tutti i romani, non tangeva neanche un po’ Piersanti Spina. Affetto da insensibilità congenita al dolore, il vicequestore non avvertiva neppure il caldo, il freddo e lo stimolo ad andare in bagno: i suoi nervi comunicavano con il cervello in una lingua che quello non conosceva, come con un telefono che squillava sempre a vuoto. «Risponde la segreteria di Piersanti Spina. I suoi sensi sono momentaneamente irraggiungibili».
Una vita cosÃ, senza sentire niente. Con un modernissimo orologio al polso per sopperire a tutte quelle mancanze, per ricordargli quando era il momento di fare la pipà e sgranchirsi le gambe. Proprio come fece in quel momento, segnalandogli che doveva idratarsi.
Spina disattivò l’allarme e ignorò l’avviso.
– E adesso? – domandò davanti all’acqua limacciosa.
– Adesso prendete la zattera, – rispose Rino, indicando un punto a meno di un metro dalla riva dove era ormeggiata una chiatta fatta di assi di legno e barilotti di birra alla spina vuoti, fissati ai lati dell’improvvida imbarcazione a mo’ di galleggianti.
– Fammi capire: per raggiungere il cadavere dovremmo montare su questo trabiccolo? – domandò Aldair.
L’uomo si strinse nelle spalle facendo ondeggiare i lunghi dread come fili di una vecchia tenda in ciniglia.
– Sempre meglio che andare a nuoto, no?
Il vicequestore e l’agente si scambiarono uno sguardo rassegnato. Poi salirono a bordo di quel rottame muniti di due lunghi remi realizzati con materiali di recupero. Rino liberò la cima che teneva ancorata la bagnarola alla terraferma e i due poliziotti incominciarono a pagaiare, uno da un lato, uno dall’altro.
L’imbarcazione avanzava sulla superficie del lago lenta e pesante come una frisella lasciata troppo tempo in acqua a sponzare. Due minuti dopo, Spina si voltò verso la riva e intravide delle creature in camice bianco simili a fantasmi: sul luogo del delitto erano arrivati quelli della Scientifica.
La quiete che regnava in quel posto ameno fu mandata in frantumi da un’infervorata telecronaca: – Giuseppe e Carmine Abbagnale, solo duecento metri vi separano dalla gloria immensa di una vittoria olimpica! Ecco che andiamo a vincere! Oro all’Italia! Oro all’Italia!
Con il respiro corto per la fatica e per il caldo, Aldair guardò la terraferma, e constatando che a sfotterli era un uomo bassino disse: – Ci hanno appioppato di nuovo lui, dotto’.
Lui era Roberto Rella: il medico legale che dopo il tramonto si trasformava in monologhista comico nei peggiori club del Bel Paese; il suo sarcasmo non era proprio il massimo, specialmente se stai pagaiando sotto il sole di luglio.
Aldair diede gli ultimi due colpi di remo con immensa fatica, gettando un’occhiata al vicequestore, che non soltanto sembrava perfettamente riposato, ma non aveva stillato nemmeno una goccia di sudore. «Insensibilità congenita al dolore con anidrosi» era la corretta diagnosi del suo male. E anidrosi significava proprio quello: non solo non sentiva il caldo, ma non sudava neppure.
– Perché mi guardi cos� – domandò Piersanti al sottoposto, che ingollava aria bollente con la bocca spalancata.
– Niente, una cosa mia, – rispose evasivo l’agente, mentre si bagnava una mano e se la passava sulla faccia.
Da sempre, in commissariato, tutti erano a conoscenza della patologia di Spina e tutti perlopiú la ignoravano: per un patto che non avevano mai esplicitamente stipulato, i poliziotti che lavoravano con lui non menzionavano mai la malattia in sua presenza, anche se, quando lui non c’era, nei corridoi del commissariato VI era tutto un ciangottare: «Dicono che una volta abbia camminato su un piede rotto per una settimana prima di accorgersi della frattura», «Non potete capire, ha sbattuto la testa e non ha emesso un suono!», «Ma secondo voi, anche là sotto non sente niente?»; e giú di gomitate, occhiolini, risate. Se fosse semplice pettegolezzo o un modo creativo di incanalare l’invidia nei confronti di un essere umano che era superiore al piú grande nemico della vita (non la morte, ma il dolore) ognuno nel suo intimo lo sapeva.
Nel frattempo la zattera coi due poliziotti a bordo si accostò finalmente al cadavere e Spina si piegò sulle ginocchia sporgendosi verso il corpo. Fece scorrere una cima sotto le ascelle e sigillò il lazo con un fiocco robusto all’altezza delle scapole.
– Se la cava mica male coi nodi! – commentò Aldair.
Il vicequestore sorrise. – Da bambino andavo a pesca con mio zio. Aveva la barca ormeggiata al porto di Brindisi e la domenica mattina se il tempo era bello uscivamo sempre, estate e inverno. E con quello che pescavamo mia zia faceva dei tubetti al sugo che tu non hai mai assaggiato –. Spina si corresse mentalmente: «E neanche io». Tra le ricadute bizzarre della sua insensibilità al dolore, infatti, c’era anche l’assenza del gusto. Da piccolo, senza accorgersene, si era morso la lingua talmente tante volte che le sue papille erano ormai belle che andate.
Aldair gettò un’occhiata al morto. Poi disse: – Eh, ma pesci grossi come questo mi sa che non ne ha mai pescati, dotto’.
Mentre Spina si rialzava facendo perno sul remo, la chiatta si sbilanciò come a volerli disarcionare. Fu il buon equilibrio di entrambi a impedire che finissero in acqua a far compagnia al cadavere. Ritornati in postazione, il vicequestore guardò il compagno di vogate come a chiedergli se fosse pronto. Quando Aldair annuà ripresero a remare all’unisono verso i colleghi a riva trascinandosi dietro il corpo, mentre l’anatra e i suoi anatroccoli assistevano incuriositi alla scena, appollaiati in cima a uno spuntone di cemento e ferro che germogliava dal lago come la caricatura di una palma.
Una volta arrivati a destinazione, quelli della Scientifica districarono il piede sinistro del morto dal fondale in cui si era incagliato, mentre Aldair raggiungeva l’ombra di un pioppo e si sedeva a terra, esausto.
Piersanti fece giusto in tempo a stringere la mano del medico legale: mentre compiva quell’operazione lo sguardo gli cadde sul quadrante dell’orologio da polso sul quale lampeggiava la sua temperatura corporea, schizzata pericolosamente a quarantadue gradi centigradi. Spina spalancò la bocca per lo spavento, ma non fece in tempo a ragionare sulle contromisure che i suoi occhi si ribaltarono.
E svenne sull’erba ai piedi di Roberto Rella.
– Dottore, posso dirle che è stato bellissimo? È la prima volta che qualcuno cade ai miei piedi. Sulle romantiche rive di un lago, poi! Certo, avrei preferito una donna, ma in assenza di meglio mi può andare a genio pure lei.
Piersanti aveva riaperto gli occhi da pochi secondi, ma la voce di Roberto Rella glielo fece subito rimpiangere. Quando mise a fuoco quello che lo circondava scoprà che i colleghi lo avevano trascinato all’ombra dei rami del salice.
– Però, se lo lasci dire, dottore: lei è troppo timido! Se si era innamorato di me bastava parlare.
– Per cortesia, Rella… – bofonchiò Piersanti.
Aldair accorse a liberare Spina dal seccatore sventagliando la mano come si fa per cacciare un insetto.
– Tutto a posto?
Il vicequestore annuÃ.
– Stavo per chiamare un’ambulanza…
Alla parola ambulanza, Piersanti si accigliò. Staccò la schiena dal suolo lentamente. Verificò che le gambe lo reggessero e si tirò su.
– Nessun’ambulanza, Aldair.
Spina sapeva bene che cosa gli era accaduto. Come un computer sprovvisto di una ventola di raffreddamento, il suo corpo sempre asciutto si era surriscaldato e come tutti i calcolatori che hanno raggiunto una temperatura critica aveva fatto ciò per cui era programmato in quelle circostanze: era andato in stand-by. Per ovviare a quel genere di imprevisti, Spina doveva semplicemente seguire le regole che i telegiornali propinano fino alla noia a tutti gli anziani d’estate: bere tanto, evitare di uscire nelle ore piú calde, evitare di esporsi al sole per tempi prolungati. Ma lui non era un vecchietto in pensione, era un vicequestore della polizia di Stato di quarant’anni. E questo genere di avvertenze non sempre poteva metterle in pratica. Controllare regolarmente la propria temperatura corporea era il prezzo che doveva pagare per non svenire. In cambio, la natura gli aveva regalato l’immunità alla torrida estate romana: lui era in grado di rimanere lucido, asciutto e presente a sé stesso anche quando l’afa si faceva insopportabile e la gente comune, come si dice a Roma, «sbroccava». Dei suoi goffi e strampalati poteri, l’insensibilità al caldo era quello che i colleghi gli invidiavano di piú da giugno a settembre. Specialmente se, come in quei giorni, la metà dei vecchissimi condizionatori del commissariato di Tor Pignattara era fuori uso per l’ennesimo guasto.
– Acqua ne abbiamo? – domandò, ricordandosi di aver ignorato l’allarme che gli suggeriva di idratarsi.
– Ho mandato Bob Marley a prenderla al bar, – rispose Aldair, non accorgend...