Fare la rivoluzione ai tempi di Pornhub
eBook - ePub

Fare la rivoluzione ai tempi di Pornhub

Sesso, potere e piattaforme

  1. 48 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Fare la rivoluzione ai tempi di Pornhub

Sesso, potere e piattaforme

Informazioni su questo libro

Le reti virtuali affondano le loro radici reali nelle profondità della vita quotidiana, e sono ormai diventate il luogo in cui si definiscono le nostre relazioni intime e spesso anche quello dove si organizza la lotta politica. Ma può bastare un'ampia scelta di porno queer, su un sito di streaming di proprietà di una multinazionale, per dirsi sessualmente liberati? È sufficiente una preferenza espressa con un click a generare comunità? E possiamo davvero usare con leggerezza i social media per diffondere le immagini di una protesta, sapendo chi e come li controlla?

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
eBook ISBN
9788858438176

Essere numerosi

Una fotografia dai giorni a volte lieti di Occupy Wall Street è tornata per perseguitarmi come un fantasma. Lo scatto, che era stato usato per la copertina della seconda uscita di «Tidal», la rivista di teoria del movimento, a prima vista sembra ritrarre una scena significativa dell’insurrezione. La massa enorme e compatta dei manifestanti è sul punto di abbattere una recinzione, sorretta dall’altra parte solo da un misero gruppetto di poliziotti in tenuta da sommossa posti a difesa di Duarte Square, una scialba distesa di cemento nel centro di Manhattan. Se però la si guarda piú da vicino la scena assume un aspetto diverso: a forzare effettivamente la recinzione non sono che pochi manifestanti. La maggior parte di loro, pressati gli uni sugli altri come sardine, tiene in alto lo smartphone, tutti si registrano a vicenda e per degli, ipotetici, spettatori a casa. La recinzione di Duarte Square alla fine è rimasta in piedi quel giorno di dicembre del 2011.
Due anni dopo che quella foto è stata scattata, le informazioni divulgate dalla gola profonda della National Security Agency (Nsa), Edward Snowden, hanno svelato quanto la sorveglianza capillare di ogni aspetto delle nostre esistenze sia un dato di fatto nei tempi in cui viviamo. Fa strano, adesso, immaginare che possa essere stata una rivelazione scoprire che siamo ammassi di dati a disposizione dei governi e delle aziende. La fotografia di Occupy – in cui il desiderio di un atto d’insurrezione è inscindibile dal piú avanzato apparato di sorveglianza tecnocapitalista – rivelava una dinamica insidiosa che negli anni a venire è diventata impossibile da ignorare, ma altrettanto facile da dimenticare.
Quella foto coglie un riflesso incondizionato che hanno ormai in molti durante i cortei e le manifestazioni, ovvero raccontare ogni istante in diretta sui social media, nella convinzione che si tratti di un gesto coraggioso e radicale: riappropriarci del racconto della lotta, trasmetterlo attraverso i nostri canali, senza dover far affidamento sui media istituzionali. Al di là di dove ci si collochi nel dibattito sulle piattaforme social, che si creda abbiano aiutato, ostacolato, o soltanto in qualche modo dato forma ai movimenti di protesta, la copertina di «Tidal» ha acquistato un valore diverso negli anni successivi alle rivelazioni di Snowden. Perché gli smartphone in quella foto non sono solo un intralcio nel tentativo della folla di prendersi Duarte Square; sono dispositivi di sorveglianza.
Si tratta di una questione innegabile: i device e le piattaforme di cui ci serviamo ogni giorno, per comunicare, informarci, costruire reti solidali, ci espongono a un controllo costante. Lo stato di sorveglianza non potrebbe reggersi se i bravi cittadini volontariamente non si lasciassero tracciare. Ignorare la nostra tacita complicità significherebbe negare le profondità quotidiane in cui affondano le radici del controllo: riguarda tutta la nostra vita.
Se ripenso a quei tempi, non riesco piú a immaginare come queste riflessioni potessero sembrarmi qualcosa di nuovo e di urgente. La sorveglianza è parte della nostra vita sociale e relazionale, data l’ubiquità dei social media; mi sembra piuttosto strano (e non è un buon segno) che solo pochi anni fa fossimo tutti scioccati dallo scoprire quanto ampi erano i confini del controllo di massa. Perché già allora, senza dubbio, riguardava l’intera nostra vita. Eppure i leak sull’Nsa ci sono sembrati lo stesso sconvolgenti. Hanno gettato una luce oscura sugli inquietanti legami tra il governo, i media e le grandi multinazionali tecnologiche. Ma soprattutto ci hanno messo di fronte alla sfida di combattere un sistema «repressivo» di cui siamo tutti complici.
C’è stata una certa rabbia, ma anche un ottimismo sorprendente, nelle reazioni a caldo che hanno seguito i leak di Snowden. I giornalisti e gli attivisti sono andati a caccia di qualcosa di tangibile, un vessillo, un mostro. A chi dobbiamo dare la colpa? Chi è il cattivo? Contro chi dobbiamo combattere? C’erano ovviamente dei colpevoli da prendere di mira; che si trattasse dell’allora direttore dell’agenzia di sicurezza nazionale, James Clapper, dell’ex direttore dell’Nsa Keith Alexander, di Google e AT&T o dei responsabili del programma di raccolta dati Prism: avevamo bisogno di prendercela con qualcuno che ricoprisse un ruolo, che fosse possibile isolare. Gli sforzi dei politici e degli attivisti sono stati tutti volti a ottenere una riforma dall’alto dell’Nsa e a richiedere piú trasparenza ai giganti tecnologici. Dimostrando di non aver colto le sfumature ben piú gravi di quello che c’era in ballo.
È stato l’inizio di una pantomima bipartisan. I legislatori democratici e repubblicani hanno imbastito insieme un teatrino indignato, chiedendo che l’Nsa smettesse di accumulare dati dalle comunicazioni private dei cittadini americani; la legge, firmata nel giugno del 2015, assurdamente chiamata Usa Freedom Act, mirava soprattutto a questo. Poneva qualche limite alla raccolta massiccia delle informazioni, ma ripristinava anche alcune delle peggiori disposizioni del Patriot Act di George W. Bush. La Casa Bianca, guidata da Obama, ha messo in piedi competenti commissioni che hanno redatto lunghi report, promettendo che ci sarebbero stati ulteriori sviluppi; sviluppi però mai visti. Ma peggio di tutto forse è stato il tentativo dei leviatani della tecnologia, tra cui Google e Facebook, di passare come i «bravi ragazzi», spingendo pubblicamente perché ci fosse maggiore trasparenza nel trattamento dei dati. Fa parecchio sorridere oggi, quando le tante opacità nella gestione dei contenuti di Facebook possono aver contribuito a cambiare il risultato di qualche elezione; anche se ciononostante non c’è settimana in cui i tecnoimprenditori dalle loro nuvole non tuonino proclami in favore della «trasparenza».
La battaglia per una riforma radicale dello stato di sorveglianza è stata inconsistente. Per mesi, tra il 2013 e il 2014, si è dibattuto dell’Nsa. Senza poi fare nulla. E cosí oggi le agenzie governative continuano programmi come Prism, che garantisce all’Nsa la possibilità di accesso a enormi quantità di dati, in accordo con quasi tutte le grandi aziende della Silicon Valley; il che significa la possibilità di controllare le nostre conversazioni piú private senza il bisogno di alcun mandato giudiziario. Nessuno dei programmi scoperti grazie alle rivelazioni di Snowden, che tanta indignazione avevano suscitato, è stato davvero interrotto. E gli accordi tra stati e grandi aziende per limita...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Quanti Einaudi
  4. Fare la rivoluzione ai tempi di Pornhub
  5. Sorvegliare il desiderio
  6. Essere numerosi
  7. Gli altri Quanti. Reti
  8. Il libro
  9. L’autrice
  10. Copyright