Il tempo in cui gli scrittori arrivavano, nel corso degli anni, al Fondo fu come un sogno, che d’un tratto si trasforma in un’immaginazione alla Chagall: il cielo non è vuoto, vi compaiono i «viaggiatori del cielo», come Bachelard chiamò i personaggi volanti della pittura di Chagall, quelle figure bianche che si librano nell’aria sopra le case del villaggio russo di Vitebsk in cerca di meraviglie, magari con le ali bianche, simili all’angelo che appare alla finestra del pittore intento a dipingere: simbolica Annunciazione nella realtà misteriosa dell’arte.
Alcuni camminano nel cielo con assoluta tranquillità, altri dopo essere stati a lungo in volo, arrampicati sulle nuvole, danno vita a un Bruit des nuages, altri impazienti di limiti e convinti che la gloria sia cosa loro dovuta, fanno disegni sulla volta del cielo prima di scendere nel Fondo, dove li attendono le casseforti del Destino.
Con le Carte che vengono da cassetti del Tempo, piene di cose incorporee e composte in un oscuro passato, con l’ingorgo delle loro composizioni e decomposizioni continue, gli scrittori ci affaticano, anche se va detto che non si amerebbe vivere senza la loro presenza. Raccontano le avventure della mente fantasiosa, affamata di un bene in generale, e noi non sappiamo nulla di quello che succede in quel mondo né delle passioni generatrici di Bellezza. Liberi ormai dalla terra, come i viaggiatori di Chagall, guardano la chiara luce del cielo e alcuni arrivano a intravvedere il confine del paradiso stesso. Ma cosí diverse le loro menti e i loro viaggi che non finisce mai di stupire l’incontro finale in questa terra lombarda dalla grande brumosa pianura inzuppata d’acqua che sembra scorrere in punta di piedi, dalle belle colline che la nebbia nasconde. A volte pare che il sole si sia spento.
Chi è forestiero non sarà mai in grado di amare sino in fondo questa Pavia, dove le strade hanno certi nomi longobardi quali Agilulfo, Rotari, Teodolinda o di antichi popoli che si vorrebbero rendere distinguibili, per qualche minuto solo, nella nebbia, via dei Burgundi, via degli Ariani, via dei Goti. Continua a Pavia lo scambio di attenzioni fra passato e presente. È proprio per i paesi brumosi come questo o come il Devonshire di John Keats, che il poeta inglese scrisse in una lettera a Benjamin Bailey del 13 marzo 1818: «le cose Immateriali si fanno reali, e si dividono in cose reali, cose semireali, e niente». Naturalmente non si può convivere sempre con lo stato mentale che Ignacio Matte Blanco chiama il «pensiero emozionato». Passiamo ad altro, allora.
C’è una grandiosa marcia della Poesia e della Prosa, testimoniata dai manoscritti, cammino di giganti e di esseri di media statura, per cui si ha da riflettere e da guardare con nuova lente di ingrandimento il rapporto fra le Carte degli scrittori e la Storia letteraria. Allora tutte le soluzioni per fare ordine vengono ad apparire un po’ sospette: sia quella rispettosa della cronologia, sia quella della distribuzione per generi letterari, che d’istinto agli scrittori appare un tantino petulante. C’è uno spazio abbastanza singolare ed enigmatico in cui è data agli scrittori la possibilità di esistere, in qualche misura, gli uni accanto agli altri. Roger Caillois in Babele (edizione Marietti) si domanda dove tracciare la sottile linea di separazione tra i prodotti appartenenti all’arte e quelli a lei estranei. Invano si ricercherebbe una linea di demarcazione definita. Tutti si è responsabili di una sorta di complicità con la nozione di letteratura, il cui meccanismo è cosí tenace da far comparire ogni anno, col sussidio dell’industria editoriale, qualche centinaio fra poeti e prosatori che stanno in agguato per entrarvi e ne vantano quasi un tenebroso diritto.
Allora che fare nella pratica della vita di un Fondo come quello pavese? Fra i due possibili criteri, fedeltà ai puri valori oppure ossequio a quei valori medi, presi in affitto e apprezzati dalla società, si è optato per il primo, d’accordo in questo con Rafael Sánchez Ferlosio che in Relitti (Garzanti 1994) considera la seconda soluzione a pagina 23: «uno stratagemma tanto vile e ripugnante quanto arcinoto, sapendo molto bene che, sul piano della retorica, la compagnia delle miserie non sminuisce le grandezze, anzi, al contrario, le fa risaltare e le innalza. È la legge del contrasto». Qualche volta naturalmente si è stati inclini a battere una discreta via di mezzo, sensibili all’importante connettivo dovuto agli autori minori e al fatto che solo al potere del tempo spetta separare ciò che ci sarà e ciò che non ci sarà piú. Separazione con cui si ha veramente a che fare solo dopo morti.
Seguendo la via memoriale degli arrivi al Fondo si corre il rischio di perdersi in diramazioni e deviazioni sinuose, come spesso sono i percorsi della memoria. Si vuol dire che qui non si ha assolutamente a che fare con un catalogo, bensí con una memoria un po’ selettiva, da collezionista. Chi legge ci segua, bontà sua, con sorriso mite senza aspettarsi che gli si dica «qui comincia», «qui finisce». L’esperienza difatti conferma che non è un luogo, il Fondo, dove spazio e tempo si articolino in accordo: esso è qualcosa che cresce, spesso casualmente e senza regole, per eventi propizi che di tanto in tanto compaiono all’orizzonte come le comete, ed è per sua natura incompiuto. C’è, almeno per ora, qualcosa che lo imparenta agli Accidenti Naturali.
Forse un giorno la cosiddetta Scienza della Letteratura con i suoi computer confezionatori di ipertesti se ne approprierà e gli cambierà spirito, lo renderà suo territorio chiudendo definitivamente la porta a ogni farnetico di ombre. A questo punto il nostro discorso riguarderà solo la storia passata del Fondo e noi si assomiglierà a quei cari antichi cronisti, che scrivevano con la penna d’oca e consideravano benedetto il tempo del passato, a partire dalle origini del mondo o almeno della loro città.
In inverno ci si attende il meglio dalla primavera, in primavera dall’estate. Poi si continua con l’autunno, è sempre la stessa storia ogni anno. Manca qualcosa a un uomo perché si trovi bene cosí com’è.
Ancora circondati da una fantasia di nebbia, ecco una luce incolore che suggerisce: sta’ seduta tranquilla, che per pensare ci vuole solo il cervello. Riflessione: la vita o è troppo vasta per non disperdere il piú di quello che ti è capitato o è troppo ristretta per contenere tutto. Non è mai di misura giusta. Per esempio, quanti dei fogli e quadernetti e block-notes del Fondo furono scritti da vecchi amici, Sereni, Montale, Bilenchi, Calvino. Con il passare degli anni loro sono scomparsi, gli eventi hanno perso i contorni precisi, tutto nella memoria si è rarefatto. Perché a suo tempo non si è preso nota delle cose importanti o bizzarre che loro hanno detto? Al momento non si sa che cosa conterà dopo, che cosa bisognava assolutamente martellarsi nel cervello. E non parliamo delle date. Fu nel 1958 o nel 1959? Ora la forza della memoria si è naturalmente affievolita e loro sono assai lontani, in quanto certa la lontananza del mondo dell’ignoto. Ci restano le Carte scritte, l’apparire di ombre e il poco che della realtà lontana le loro apparizioni comunicano.
Con questo vorremmo erigerci a controllori, a riordinatori del lavoro di un uomo che ha scritto riferendosi ad altri uomini che gli parlavano di altri uomini ancora? Sembra di assomigliare a spie in servizi segreti dell’arte.
A tratti dalla finestra arriva odore di terra umida.
E con la posta arriva una delle tante lettere di coppie ottantenni che offrono temerariamente le loro poesie: vi si legge che le scrivono da una vita e ora, vicini al trapasso, vogliono che esse sopravvivano. Con la gente non si giunge mai a capire di che cosa sia capace. Rispondiamo che non c’è spazio e che ci dispiace molto di non poter accogliere le loro poesie. Poi andiamo a bere un caffè al bar dell’Università per toglierci da un certo imbarazzo.
Ma c’è anche un altro tipo curioso di offerenti: i giovani poeti che portano nel palmo della mano le loro creazioni e le posano in silenzio sul tavolo. Si vuol sempre lasciare un briciolo di immortalità da qualche parte, diceva Barbara Pym.
La memoria, salute della mente, a volte plana come un uccello, a volte piomba in picchiata sull’oggetto del ricordo, ma esso, a detta di Aristotele, appare dentro di noi come un dipinto: ecco la casa di Montale in via Bigli, lui nella poltrona dall’alta spalliera che chiama la Gina, governante di casa: – Apri quel cassetto e dà alla signorina Maria tutti i fogli che ci trovi –. Era il settembre del 1968, avevo esposto a Montale il programma di un Fondo Manoscritti presso l’Università di Pavia, dove io insegnavo e dove avrei messo tra i materiali di fondazione, insieme a testi di Bilenchi e di Gadda, i block-notes, per la precisione tre, che lui mi aveva donato qualche mese prima e che poi portai nel Fondo tra il 1969 e il 1970.
La Gina si accostò e mi trovai fra le mani un gruppo di quattordici fogli dal contenuto imprevisto: erano diverse prove di indici per la raccolta Satura, varie fasi o proposte a se stesso di organizzazione del materiale a volume.
Il vero prodigio fu che Montale continuò nel corso degli anni a darci manoscritti, oggi fogli sparsi, domani un quaderno, un altro giorno un numero di una rivistina inglese di poesia con sue postille e addirittura testi nuovi scritti a mano nei margini. Li consegnava ora a me ora alla mia allieva, adesso docente Maria Antonietta Grignani, acuta studiosa pavese della sua poesia; che li regalasse all’una o all’altra oppure li consegnasse per il Fondo, la destinazione fu sempre la stessa. Gli piaceva l’idea in sé del Fondo e che lui ne fosse uno dei realizzatori; gli piaceva che la cosa non rivestisse caratteri pubblici, sfuggisse alla presa di possesso della ufficialità.
Dopo la morte della Mosca, gradiva le visite anche perché si divertiva molto a proporre con tono brusco e secco quadretti ironici di scrittori, critici, musicisti, signore della Milano bene, i quali a loro volta sarebbero stati depositari di altre operazioni verbali ludiche o satiriche destinate ad altri, assenti. Un genere di oralità con cui Montale creava autentici minuscoli capolavori stilistici, arricchiti dall’uso di soprannomi, spesso improvvisati; un tutto andato perso, a meno che ne abbia preso nota Marco Forti, altro frequentatore fedele. Era un sicuro modo di spiegare a chi lo ascoltava i misteri della stupidità. I vizi di un piccolo e pettegolo letterato conversatore divenivano in lui, in un’infinità di casi, le virtú di un sublime osservatore. Qualche intervento orale era sommessamente drammatico o autobiografico. Ricordo che una volta a una donna che lo informava di essere stata abbandonata da un uomo a lungo amato, suggerí: – Tu tira giú il sipario. Per lui comincerà il dramma degli spettri –. Dopo queste uscite in genere socchiudeva gli occhi, taceva e fumava, fumava. È ben noto come Montale amasse scrivere versi nei posti piú impensati, sul retro di un menu o di un cartoncino d’invito a qualcosa, conferenza, convegno, concerto, pranzo, presentazione di un libro, su una busta o su un dépliant pubblicitario. Questo era per lui naturale e ne approfittava sovente. Gli stranieri che lavorano al Fondo guardano il tutto con curiosità divertita o sconcertata. I menu, anche questo è noto, gli servivano sul retro per minuscole illustrazioni, per lo piú con spiagge marine a soggetto, fatte con l’utilizzo di penna, caffè, vino, crema, cioccolato e qualche occasionale ingrediente culinario. I menu del Bagutta ne sono suggestive testimonianze.
Oggi nel magazzino della memoria noi si distingue a malapena una donazione montaliana da un’altra, data la loro regolarità per anni. Naturalmente gli inventari del Fondo documentano tutto con precisione: Xenia, Satura, Diario del ’71 e del ’72, Poesie disperse, Varie. Una volta Montale mi disse che l’Accademia dei Lincei gli aveva offerto quaranta milioni per i suoi manoscritti, ma lui aveva optato per noi, anche se non era ancora stato nominato senatore a vita e non sapeva se sarebbe rimasto a Milano o si sarebbe trasferito a Firenze, dove il vivere costava meno. Ripeté divertito la notizia a Giulio Einaudi quando nel dicembre del 1976 in occasione degli ottant’anni del poeta, ormai senatore, Einaudi e io gli portammo la prima copia del volumetto di suoi inediti, presenti nel Fondo, che l’editore aveva pubblicato a cura mia e di Maria Antonietta Grignani.
A volte con le Carte di Montale ci si sentiva divorati dalla curiosità. Sí, perché il manoscritto non rispondeva all’immagine che di sé scrittore aveva dato il poeta, in quanto non risultava che dopo aver tenuto a lungo in testa una poesia la buttasse giú quasi definitiva. Nossignore, spesso si arrivava a cinque, anche sei stesure. Se si dovessero attribuire alle dichiarazioni degli artisti i normali concetti di menzogna e sincerità, bisognerebbe dare loro una nuova definizione, perché la normale non avrebbe senso. John Keats, riflettendo sull’uomo artista, scrisse anche riferendosi a sé: «Il Poeta è la piú impoetica delle cose che esistono» (lettera a Richard Woodhouse del 27 ottobre 1818).
L’unica volta in cui Montale rivelò un aspetto nuovo di sé fu quando decise di recarsi a Padova per un intervento chirurgico. Telefonata a me della Gina nell’autunno 1973:
– Per favore, venga stasera. Il signor Montale domani parte e ha bisogno assolutamente di vederla.
Era seduto al suo solito nella poltrona dall’alta spalliera vicino all’abat-jour, aveva fra le mani leggermente tremanti per via del morbo di Parkinson un involto in raso di seta rosso. Avvicinatami mi accorsi che si trattava di una busta di raso rosso molto gonfia. Lui la guardava e c’era qualcosa di inconsueto nel suo atteggiamento.
– Questa busta non te la dò, era della Mosca. Ti dò il contenuto: sono miei manoscritti degli Ossi, vi interesseranno perché sono tutti datati e qualcuno diverso dalla stampa. Domani vado a Padova per operarmi. Non tollero anestesie locali e non so se possono farmi la generale. È bene che gli Ossi siano da voi.
In che conversazione ci si stava addentrando. La Gina dal fondo della stanza guardava e ascoltava con aria assorta.
– C’è qualcosa d’altro oltre agli Ossi, – e mi passò il pacchetto. La stanza era nella penombra; per leggere mi sedetti sul tappeto sotto l’abat-jour. Grande silenzio. Una sorta di strana sacralità saliva dalle Carte e si espandeva nell’aria. Nel levare gli occhi verso la poltrona constatai che la sua mente stava facendo traversate solitarie. La Gina era tornata in guardaroba a stirare. Sapevo di fare una domanda superficiale:
– Qui c’è una lettera tua, inviata a una Paola Niccoli. Se la si mette col resto può venire letta. Vuoi il vincolo dei venticinque anni, proprio degli epistolari?
– Non la ricordo. Leggimela.
Mandava a Paola Niccoli il manoscritto di Arremba su la strinata proda, parlava di Crisalide in gestazione e firmava «Vi bacio le mani. Eugenio Montale».
– Ma chi è?
– Una delle donne degli Ossi, che i critici cercano come i cani da tartufi.
– E l’hai amata.
– Era un’attrice teatrale genovese, lavorava con Lodovici. Gli altri andavano a letto con lei, io le mandavo poesie –. Sembrava parlasse piú a se stesso che a me.
– E come mai è nelle tue mani?
– Gliel’ho chiesta quando è partita per il Sud America. Forse volevo riavere la poesia, non ricordo.
– Allora cosa vuoi che ne faccia?
Ricadde in quella specie di assenza tipica di chi non vuole che qualcosa sia spiegato. Aveva l’aria di non aver neanche sentito la domanda. Se era cosí, meglio tacere. Passarono alcuni minuti. All’improvviso disse:
– Metti e lascia tutto insieme nel Fondo –. C’erano anche lettere di Giacomo Debenedetti e di Sergio Solmi, che plaudivano agli Ossi, letti in anteprima in occasione dell’uscita di alcuni su «Primo tempo». E di Crisalide c’era una redazione piú lunga di sedici versi e c’era l’inedito Musica silenziosa del 1918.
Si era creata nel chiuso di quella stanza semibuia una deprimente aria testamentaria, forse per via della busta di raso rosso della Mosca o delle parole e dei silenzi di Montale o per tutte queste cose insieme, fatto sta che nell’andarmene, sul pianerottolo di casa, dissi sottovoce alla Gina di telefonarmi da Padova, dopo l’operazione. Lui intanto camminava a piccoli passi striscianti, avanti e indietro nella penombra della stanza.
La Gina fu fedele alla consegna:
– Il signor Montale sta bene, è allegro, dice di chiamarlo domani e risponderà lui stesso.
Allorché fu lui a rispondere, il gusto ludico aveva ripreso quota:
– Sai, – disse, – ho visto tutto da uno specchio curvo sovrastante e quando il professore mi ha mostrato la mia prostata, gli ho detto: carne Simmenthal!
L’ironia era tutto ciò che le avventure del suo corpo gl’ispiravano e la usava socchiudendo spesso gli occhi.
Poi ci sono i delegati dell’aldilà. In viaggio verso Catania nell’aprile del 1989 non sapevo nulla del signor Tripi e di sua moglie. Perciò mi chiedevo che cosa potesse averli spinti a scrivermi una lettera e chiedermi se ci interessava per il Fondo l’acquisto di uno «scrignetto» contenente quarantotto preziose lettere dell’Ottocento e dei primi del Novecento, inedite, dirette a Luigi Capuana. Giunta a Catania, cercai piazza Verga e la casa dei miei corrispondenti. Era un piccolo appartamento al terzo piano di un edificio senza ascensore: gettai lo sguardo all’onesto e lindo tinello con la classica ottomana a una parete e ricevetti quel messaggio sicuro che mandano le cose. Era l’appartamento di brava gente modesta. La diagnosi fu immediata; mi domandai se in quell’ottomana con il materasso ripiegato a spalliera dormiva per ca...