Il villaggio di Poolambadi si trova alle pendici delle colline di una riserva forestale di straordinaria bellezza, nel cuore dello Stato indiano del Tamil Nadu, una regione sospesa fra tradizioni millenarie e progresso tecnologico. Sviluppo di software e cerimonie indú ancestrali coesistono come le due anime di una stessa realtà. I templi – con quelle tipiche strutture a strati che li fanno sembrare delle coloratissime torte di compleanno – svettano all’improvviso dove meno ce lo si aspetta tra le case basse e gli alberi, e si fondono con le insegne variopinte di negozi di elettronica e botteghe fatiscenti in lamiera. Il dio indú locale, Karuppasāmi, è raffigurato un po’ ovunque sotto le sembianze di uomo baffuto colorato di blu, a piedi o a cavallo, che brandisce una spada in difesa della comunità. Le strade sono rosse e sterrate, e quando piove diventano poltiglie di fango che imbrattano i lembi dei sari delle donne e dei mundu degli uomini.
Uno degli eventi piú popolari da queste parti è il cosiddetto Jallikattu, una sorta di versione indiana della festa di San Firmino di Pamplona: un toro con delle bandierine colorate legate sulle corna viene liberato tra centinaia di persone festanti che devono riuscire a sfilargliele evitando di morire infilzate, cosa che, purtroppo, accade abbastanza spesso.
A parte questo, Poolambadi (attenzione: da non confondersi con il villaggio di «Pullambadi», che si pronuncia quasi allo stesso modo ma con la u piú breve, ha la stessa estensione e numero di abitanti, ma si trova due ore piú a sud – tutto questo l’ho scoperto mio malgrado, dopo aver passato una giornata intera a effettuare ricerche sul posto sbagliato) non è un luogo che si distingue particolarmente dalle altre decine di villaggi che punteggiano una regione anonima, dove dopo il tramonto arriva il grande buio che avvolge le campagne indiane. Chi se ne vuole andare per cercare fortuna altrove deve saltare su un autobus diretto alla città di Tiruchirappalli, e scegliersi una destinazione e un destino.
Alexandar Udhayakumar aveva preso un treno diretto a nord: a ventidue anni la vita del suo villaggio gli stava troppo stretta. Non era piú il bambino figlio unico di una casalinga cristiana e di una guardia notturna indú, cresciuto in una casa modesta, anche se dignitosa.
Non era piú il ragazzino che con gli amici aveva imparato a nuotare facendo i tuffi nei pozzi di Poolambadi, legandosi una tanica vuota alla vita, a mo di salvagente.
Era un giovane con un diploma superiore alberghiero, che aveva deciso di tentare la carriera nel mondo della ristorazione. E come migliaia di altri giovani di tutta l’India, era stato attratto dalla «Grande Calamita», a trenta ore di binari, oltre l’Andhra Pradesh e il Telangana: la città di Mumbai.
Appena sceso dal treno alla stazione di Mumbai Central, si era ritrovato catapultato in una megalopoli di 12 000 000 di abitanti, contro gli appena 10 000 di Poolambadi. Un cambiamento enorme. La confusione. Il viavai di volti, di lineamenti, di dialetti, di lingue: mārāṭhi, hindi, telugu, kannada. Il clacson assordante di migliaia di rickshaw. I corvi neri appollaiati su chilometri di fili elettrici sospesi e intrecciati sopra case, persone e bestie.
Alexandar, per sua fortuna, sapeva dove andare: Matunga, vicino alle spiagge del mare Arabico, è il quartiere degli indiani del Sud, un piccolo Tamil Nadu in miniatura, l’enclave-rifugio per chi come lui aveva bisogno di una comunità di appoggio da cui partire, a cui chiedere consiglio e grazie alla quale sentirsi meno solo. La sua nuova casa sarebbe stata lí. In una stanza con altri dieci ragazzi provenienti dal suo stesso Stato, tutti ammassati in pochi metri quadri. Alcuni erano amici d’infanzia arrivati prima di lui. Mumbai non era stata gentile con loro. Il lavoro non mancava, ma 100-200 dollari al mese per fare l’aiuto cuoco sette giorni su sette nella cucina di un ristorante o di un hotel erano una paga da fame. Presto Alexandar aveva capito che non lo avrebbero mai portato da nessuna parte.
Un conoscente gli aveva parlato delle navi da crociera. Pagavano sei o sette volte meglio, lo stipendio era garantito. 1000 dollari al mese, senza il pensiero dell’affitto e con un solo compagno di cabina, invece di nove. Bastava fare un corso di formazione, apprendere alcune nozioni sulle pratiche di sicurezza in mare, e ottenere dei certificati che lo avrebbero abilitato a lavorare a bordo dei colossi che vedeva sfilare nel Mumbai Harbour non lontano dalla sua stanza.
Completato il corso, bisognava pazientare e nel frattempo girare tutte le agenzie di reclutamento della città lasciando loro il curriculum, sperando che l’impiegato di turno avrebbe trovato il suo in cima alla pila al momento giusto. Ogni tanto qualcuno dei suoi coinquilini riceveva la telefonata magica e preparava i bagagli. Allora gli altri facevano una colletta e compravano una bottiglia di whisky per brindare alla sua salute e a quella di chi, tra i rimasti, sarebbe stato il prossimo. In quelle occasioni, la luce della loro stanzetta affollata e chiassosa nel palazzo di Matunga restava accesa fino a tardi.
Gli ho chiesto se avesse mai provato invidia, o se l’avesse mai notata negli occhi degli altri compagni di attesa. «Oh no, no! Nessuna invidia. Eravamo tutti sinceramente felici per chi se ne andava».
Poi, nel giugno del 2011, intorno alle 10.30 di una torrida mattina qualunque, quella telefonata era arrivata anche a lui: un’agenzia. «Presentati qui entro l’una». Alexandar ci era andato di corsa. Un impiegato lo aveva informato che la compagnia italiana Costa Crociere lo voleva subito a bordo di una delle sue navi; sarebbe salpata due sere dopo dal porto di Civitavecchia, nome che Alexandar non riusciva nemmeno a pronunciare. Aveva a malapena il tempo di tornare a casa, fare il bagaglio e raggiungere l’aeroporto di Mumbai. Sarebbe partito per l’Italia quella sera stessa. La festa di addio si sarebbe tenuta senza di lui. Alexandar aveva preso il passaporto e le sue poche cose ed era uscito dall’appartamento di Matunga senza guardarsi indietro. Insieme a lui, quella sera, sarebbero partiti altri due dei suoi coinquilini.
Tre ragazzi indiani del Sud pieni di adrenalina, con in tasca un biglietto fortunato per Roma Fiumicino e un sogno che finalmente si realizzava. Tre vite che cambiavano radicalmente nel giro di appena ventiquattro ore. Tre dollari al giorno che diventavano trentatre. Nessuno nella sua famiglia aveva mai guadagnato tanto.
Erano arrivati in Italia di sera, di che giorno non lo sapevano nemmeno piú. Era già oggi o ancora ieri? Avevano viaggiato indietro nel tempo? A casa loro era già domani? Alexandar avrebbe voluto fissare ogni particolare nella memoria, gustarlo, farlo durare per sempre. Invece tutto avveniva cosí rapidamente che nemmeno riusciva a fotografarlo. Non era trascorso neanche un giorno dalla sua vecchia vita, eppure gli sembrava già cosí lontana. Dopo la notte passata in albergo, la mattina seguente una navetta li aveva condotti al porto di Civitavecchia. E lí, con un misto di stupore e meraviglia, Alexandar Udhayakumar e i suoi due amici avevano alzato lo sguardo di fronte a un’enorme città galleggiante bianca, che svettava decine di metri sopra le loro teste. Una delle piú grandi opere mobili mai costruite dall’uomo: la nave Costa Concordia.
Balconate di vetro azzurro correvano per la lunghezza di quasi tre campi da calcio sul lato di dritta e su quello di sinistra, dove spiccavano ventisei grosse scialuppe di salvataggio color giallo canarino. In totale 114 000 tonnellate di stazza, una montagna di metallo bianco sovrastata da un fumaiolo giallo con una grossa C color blu al centro.
La nave era ancora molto giovane. Aveva solo sei anni di vita. Era stata varata nel 2005 al porto di Genova, dopo l’uscita dai cantieri di Sestri Ponente, anche se la cerimonia di battesimo non era andata come si sperava. Il rituale della rottura della bottiglia inaugurale di champagne, tradizionalmente scagliata contro la prua e infranta come buon auspicio – una pratica che sotto varie forme ci portiamo avanti dai tempi dei babilonesi –, era andato nel peggiore dei modi. La corda a cui era attaccata si era tesa, la bottiglia aveva oscillato verso il basso e preso velocità, per poi rimbalzare contro l’imponente fiancata metallica della nave con un secco stang! Infine si era stappata da sola, come per un brindisi di Capodanno fuori tempo massimo, nel disappunto generale di chi aveva assistito alla cerimonia. Un pessimo segno, per gente profondamente superstiziosa come quella di mare.
«Nuoooo!»
«Uuuuh!»
«Ahia, ahiiiiaaa!»
«Altro che fortuna!»
Avevano mormorato alcuni dei presenti mentre qualcuno riprendeva la scena, registrando il loro ridacchiare sarcastico in sottofondo. Ma la Concordia era comunque un successo, un’opera colossale. Pier Luigi Foschi, presidente e amministratore delegato di Costa Crociere, l’aveva definita «un’emozione davvero speciale per noi perché è una nave davvero unica ed innovativa, espressione della qualità e della bellezza del made in Italy».
Che valore poteva avere la scaramanzia davanti a quella clamorosa dimostrazione di progresso scientifico e ingegneria navale?
Nella sua «opera viva» – è cosí che sulle navi si chiama la zona al di sotto della linea di galleggiamento – risiedeva la sala macchine in grado di far correre sul mare quella città da oltre 4000 persone. Sei grandi generatori diesel Wärtsilä provenienti dalla Finlandia producevano 75 megawatt di energia. Un quantitativo mostruoso, sufficiente per soddisfare il fabbisogno quotidiano di mezzo milione di persone. O, in questo caso, per fornire energia a due turbine, le cui enormi eliche alle estremità davano a loro volta propulsione alla nave, spingendola all’occorrenza fino alla velocità di 23 nodi, o 43 km orari.
Dal giorno del varo monco, la Concordia aveva attraccato presso la maggior parte dei principali porti dell’Europa occidentale, meridionale e orientale, e del Nord Africa, disegnando ogni anno nell’acqua itinerari con tappe diverse – Tunisi, Pireo, Smirne, La Valletta, Cadice, Gibilterra – e con nomi evocativi come Tesori della storia e Magico Mediterraneo.
La clientela a bordo proveniva da tutto il mondo occidentale. Italia, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti. Tante coppie over 60, tante famiglie. I profili di chi non ha voglia di affrontare le fatiche di lunghi spostamenti in treno, aereo o macchina, e preferisce guardare il mondo da un comodo salotto affacciato sul mare, con tutto quello di cui ha voglia o bisogno nel raggio di pochi metri. Cibo, intrattenimento, relax. Magari due passi in una città o su un’isoletta mai visitate prima. Ma sopra ogni cosa la comodità. Su quel genere di navi c’era un servizio continuo, senza buchi o momenti morti, senza un appetito che non si potesse placare, senza una noia a cui non si potesse porre rimedio, a tutte le ore del giorno e della notte: l’estrema, quasi algoritmica ingegnerizzazione del servizio turistico di bordo.
Difficile pensare che fosse l’ultima frontiera di un’industria nata poco piú di cento anni prima, a cavallo tra XIX e XX secolo, nel periodo in cui le navi cosiddette Ocean Liners trasportavano le prime ondate di immigrati che avrebbero riempito e fatto grandi gli Stati Uniti, o tentato la fortuna nei Paesi dell’America Latina. Le liners non erano pensate per il comfort. Erano semplici mezzi di trasporto con l’unico scopo di portarti sano e salvo da una costa all’altra.
Poi, come sempre accade, qualcuno aveva avuto un’intuizione. Il magnate ebreo tedesco Albert Ballin, nel giugno dell’anno 1900, aveva fatto varare la Prinzessin Victoria Luise: la prima nave che oltre a essere progettata per evitare i disagi della burrascosa navigazione atlantica, era dedicata esclusivamente al turismo di élite, con spazi piú ampi, cabine di lusso, palestra, libreria, sala da ballo, sala fumatori, persino una camera oscura per chi si volesse dilettare nella nuova, emergente e costosa arte della fotografia.
La fortuna tuttavia non aveva assistito la madre di tutte le future navi da crociera. Una sera di dicembre del 1906, a soli sei anni di età – la stessa della Costa Concordia quando Alexandar vi aveva fatto il suo ingresso – la Victoria Luise era andata di prua contro alcune rocce nei pressi di un faro in Giamaica, durante un tour dei Caraibi. I passeggeri erano usciti illesi, ma il suo acclamato comandante, Hermann Brunswig, non aveva retto al senso di colpa. Era rientrato in cabina e si era sparato un colpo in testa. Tuttavia quell’incidente non avrebbe fermato un nuovo business destinato a crescere in maniera esponenziale, nonostante i rallentamenti e le interruzioni causate dalle due Grandi guerre.
In Italia, alla fine degli anni Cinquanta, la società Costa – creata a metà Ottocento dai due fratelli Giacomo e Giobatta Costa, che inizialmente commerciavano tessuti e olio d’oliva tra Genova e la Sardegna – aveva rilevato, e in seguito modificato e riadattato una vecchia nave da carico chiamata Medina, ribattezzandola Franca C., e lanciandola come prima nave da crociera al mondo con una sola classe, sperimentando i cosiddetti pacchetti «all inclusive». L’idea aveva funzionato. Era l’epoca del benessere, della crescita. Le famiglie avevano soldi da spendere. Le compagnie di crociera osavano sempre di piú, avventurandosi in mari e lidi sempre piú lontani, con navi sempre piú belle, piú grandi, piú lussuose. Su alcune di queste, come la Federico C., si esibivano anche futuri protagonisti della scena politica, economica e artistica italiana. E poteva capitare di imbattersi nell’animatore Paolo Villaggio, nel cantastorie Fabrizio De André, nel chitarrista Silvio Berlusconi e nel pianista Fedele Confalonieri, che si esibivano a volte sulla stessa tratta.
Gli anni Novanta avevano segnato una svolta per l’industria delle navi da crociera, con i grandi colossi del settore in perenne competizione tra loro. Gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 ne avevano rallentato solo momentaneamente l’espansione. Gli investimenti sarebbero continuati. I giganti del mare assomigliavano ormai a bizzarre e insaziabili creature di acciaio che ogni settimana ingoiavano tir carichi di roba e risputavano decine di tonnellate di rifiuti, inquinando e consumando, miglio dopo miglio, tappa dopo tappa, come migliaia di veicoli, attirandosi le polemiche feroci dei comitati di quartiere delle città portuali e dei gruppi ambientalisti. Ma i numeri crescevano, e crisi economiche globali a parte, i rapporti annuali sprizzavano sempre grande ottimismo.
Dentro la nuova casa di Alexandar, la Costa Concordia, c’era un centro benessere da record, il piú grande del mondo su una nave da crociera: circa 2000 metri quadrati di Spa. E ancora 1500 cabine, 4 piscine, 5 ristoranti, 13 bar. Teatro, cinema, sala giochi, casinò, cucine che producevano ogni giorno quintali di cibo di ogni tipo, provenienza e colore.
Presto Alexandar avrebbe scoperto chi operava tra gli automatismi nascosti dietro queste macchine semoventi che vendevano comfort e generavano appagamento.
Le persone che popolavano lo strato piú basso delle grandi torte galleggianti. Decine di ragazzi indiani, indonesiani, filippini, peruviani e honduregni che come lui si erano messi in fila davanti alle agenzie di reclutamento ingaggiate dalle compagnie di crociera da Manila a Lima, da Giacarta a Puerto Cortés, da Odessa a Colombo, da Bogotá a San Pietroburgo. In alcuni luoghi Costa Crociere aveva aperto scuole di formazione dove era possibile seguire un training e arrivare a bordo delle navi preparati a quell’esperienza che non assomigliava a nient’altro che avessero mai provato in vita loro. Un viaggio senza fine, il domicilio...