Paese dalle ombre lunghe
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Paese dalle ombre lunghe

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Paese dalle ombre lunghe

Informazioni su questo libro

Tutti i lettori sanno bene che le storie narrate dagli scrittori portano sempre in tempi che non si sono vissuti e in luoghi che non si conosceranno mai. Ciò vale in modo estremo per Paese dalle ombre lunghe che, grazie al funambolismo mimetico della voce che narra, addirittura situa il lettore, direttamente, fin dal primo rigo, fra gli inuit, gli eschimesi del Nord, in un luogo del pianeta oltre il quale non c'è piú pianeta. Top of the World è infatti il titolo originale del libro, pubblicato nel 1950, letto da milioni di persone in tutto il mondo, con una celebre versione cinematografica nel 1960, protagonista Anthony Quinn. È la storia di Ernenek e Asiak, che vivono, si amano diventano genitori e muoiono scoprendo tutto come se fosse la prima volta al mondo, un istante prima dell'arrivo della civiltà occidentale, in un luogo violento e ingenuo dove la legge che comanda è quella della natura, una natura che non risparmia nessuno. «In quella zona la vita può solo essere carnivora. L'orso è la maggior preda dell'uomo. L'uomo è la maggior preda dell'orso. Qui, non si sa ancora quale dei due sia la perla del creato». Il giorno e la notte durano mesi, le tempeste sottomarine innalzano forme che sembrano rovine pietrificate, il vento rovescia le slitte e sposta i cani, a cui vengono limate le zanne per evitare che, rivoltandosi, possano sbranare l'uomo e i suoi cuccioli. Eppure si dorme tutti insieme negli igloo, costruiti sempre uguali ovunque sia necessario, anche al buio, in fretta e a memoria, contro la furia del vento e la morsa del gelo. Dentro, gli uomini e le donne si parlano senza dover urlare, mangiano, dormono, finalmente, e si fanno magari «due risate», magari gli uni con le mogli degli altri, perché cosí è giusto e cosí si fa da sempre... La salvezza a queste latitudini della civiltà e del pianeta è non pensare al futuro piú di quanto si pensi al passato, dice il narratore, si vive «in un presente eterno». Il mondo è giovane, gli esseri umani «schietti, allegri e crudeli».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806250348
eBook ISBN
9788858438336

Parte seconda

Capitolo settimo

Il viaggio piú lungo

Poco dopo aver lasciato l’uomo bianco, Asiak sentí un nuovo bambino nella pancia.
La coppia, con due figli piccoli da crescere, aveva già il suo bel da fare e si domandava se fosse saggio lasciar vivere anche questo. Decisero quindi di tenerlo se fosse stato maschio, ma nel caso nascesse femmina l’avrebbero restituita ai ghiacci.
Asiak partorí una bambina.
Ma davanti ai suoi capelli di sole, agli occhi di cielo d’estate, davanti a quella sua pelle di neve fresca si innamorarono di lei. Era stato certo il loro ospite d’inverno, l’uomo bianco, ad averla generata, ed Ernenek scoppiava d’orgoglio all’idea che sua moglie avesse partorito un cucciolo di bianco.
La chiamarono Higgiungiuk.
Gli eschimesi adorano i loro bambini e li viziano oltre ogni dire, tanto che punizioni e botte gli sono praticamente sconosciute, ma pochi bimbi eschimesi devono aver goduto della quantità di coccole di quel batuffolo di sole e neve e cielo.
Purtroppo però, in una brutta giornata di bufera, quando era ancora troppo piccola per rendersene conto, Higgiungiuk trotterellò da sola via nel vento. Asiak dormiva molto perché era inverno ed era di nuovo incinta, non si accorse perciò della sua assenza finché la tormenta non ne ebbe cancellato le impronte. Ernenek era a pescare. Asiak partí per conto suo alla ricerca della piccola esploratrice, inciampando e gridando in mezzo a una tormenta talmente furibonda che nemmeno il cane di casa rintracciava l’odore della piccola.
Lo stesso cane, diverse ore dopo, portò Ernenek da Asiak.
La trovò che sanguinava sotto un cumulo di neve. Aveva avuto un aborto, e delirava. Di Higgiungiuk non si trovò mai traccia, quasi che Sila, l’uomo cattivo che abita nel cielo, l’avesse rapita dalla superficie della terra. Nemmeno si poté seppellirla insieme a una testa di cane, come ogni bambino morto, perché guidasse la sua piccola anima fino alle lande lontane dove vanno gli eschimesi.
Asiak non si riprese mai del tutto. Ogni anno rimaneva incinta, ogni anno abortiva. Perse quasi ogni forza, ogni giovinezza, ogni sorriso. Le nocche delle mani nodose cominciarono a dolerle, non era piú capace di intagliare quei begli aghi d’osso di cui andava tanto orgogliosa. Aveva i denti consumati quasi fino alle gengive a forza di masticare pelli, ormai andavano bene al massimo per preparare le giacche di piume d’alca, che si rovinano sotto i denti troppo giovani e affilati, ma erano del tutto inservibili per ammorbidire le pelli d’orso e di foca.
Pian piano diventava un peso, una donna inutile, e lo sapeva.
Prese a desiderare il caldo e le comodità del Sud, ma per i bianchi Ernenek era sempre ricercato e lei lo aveva persuaso a circoscrivere la loro esistenza al silenzioso Nord, tenendosi bene al largo dai luoghi dove si trovava l’uomo bianco e gli eschimesi con cui era in commercio.
Un lusso come il legname raccolto sulla costa venne cosí sostituito per intero da ossa, corna e avorio di tricheco; gli archi erano di corna di renna anziché d’ossa di balena, gli occhiali protettivi di zanne di tricheco anziché di legno. Gli unici uomini che incontravano erano eschimesi del Nord, come loro, peraltro pochi perché scarsi quanto vasto era il loro territorio, e una volta ogni morte di balena groenlandese una famiglia nomade di Netsilik.
Ma quei rari contatti bastavano comunque a dare la misura di come i tempi cambiassero.
La quantità di spacci commerciali cresceva, spuntavano come funghi qui, lí, dappertutto, e a ogni incontro con altri eschimesi il discorso finiva inevitabilmente sui bianchi, i loro costumi, le loro merci. L’uomo bianco di pelle sciamava sulle terre bianche di neve, preceduto dalla sua fama e tirandosi dietro le sue armi, la sua acqua di fuoco, il suo cibo, le sue lingue, i suoi beni e le sue benedizioni, i suoi tradimenti e le sue tradizioni; portava doni non richiesti e si appropriava delle cose senza chiederle, faceva e disfaceva leggi, lasciando un vortice folle nella sua scia: a volte un vortice di benessere e di gioia, ma a volte di desolazione, di prigione e di morte.
Le sue regole arrivavano lontano, e l’eschimese che imparava a sottostarvi era un eschimese furbo. I bianchi erano capaci di impiccare un autoctono solo perché aveva ucciso un mascalzone che gli aveva rubato la moglie, come avrebbe fatto chiunque giacché le mogli si possono scambiare, affittare e dare in prestito, ma non si rubano. Si era poi venuto a sapere che nei territori colonizzati dai bianchi a nessun autoctono era consentito uccidere piú di tre foche all’anno, anche se la sua sopravvivenza poggiava su olio, grasso, carne e pelli di foca, mentre i cacciatori bianchi ne spazzavano via intere popolazioni solo per la pelle e l’olio di fegato, abbandonando la carne ai gabbiani e infischiandosene, inutile dirlo, di rendere i loro scheletri all’oceano (e per forza che le foche scarseggiavano!)
I comportamenti dell’uomo bianco davvero non avevano capo né coda.
Insieme alle leggi e alle merci portava anche una marea di infermità. Malattie veneree, influenza, tubercolosi e soprattutto morbillo compivano devastazioni in organismi non abituati ai germi, uomini avvezzi ad avere la meglio sugli orsi e a resistere a lunghi viaggi tra accecanti bufere cadevano come mosche sotto i colpi di invisibili nemici annidati dentro il sangue; in alcuni agglomerati, dove molti bianchi garantivano un’ampissima diffusione di tante malattie diverse, si aveva notizia di epidemie in grado di eliminare otto eschimesi su dieci in poche settimane.
Ma se non tutto l’oro dell’uomo bianco luccicava, se poco di lui era comprensibile, tutto di lui incantava gli eschimesi – li attraeva come ti attrae l’abisso. Perfino a chi gli era lontano nel tempo e nello spazio era impossibile toglierselo dalla mente, anzi proprio chi ancora non si era del tutto arreso alle sirene dei nuovi usi e costumi ne era piú turbato. Perfino gli Angmagssalik, i Nettilingmiut, gli Ita, perfino gli Atka, addirittura gli Unalaska, i Palugvirmiut, i Nookalit, i Wootelit, gli Igloolingmiut, i Kitlinermiut, i Kivallirmiut, addirittura i Netsilik si erano arresi e soccombevano, proni e inermi, alle sue magie; ormai non sapevano vivere senza coltelli d’acciaio, fucili, fornelli da campo, acqua di fuoco, caramelle, nastri, specchietti, perline – tutta roba che andava continuamente ricomprata o ricaricata, cosa per cui ci volevano pelli, olio di fegato di pesce e tanta fatica.
Solo pochissimi sparuti eschimesi del Nord continuavano a vivere come i loro antenati, troppo ingenui per mentire, troppo veri per esser buoni. Eppure, il cancro dei bianchi aveva preso a infettare anche i loro cuori e Asiak avvertiva spesso la brama gridare nel silenzio dei suoi cari e le meraviglie proibite popolare le loro notti solitarie.
A sette anni Papik uccise la sua prima foca – un cucciolo non ancora in grado di nuotare – ed Ernenek lo fece sdraiare prono e gli posò la preda sulla schiena, cosí che l’animale non lo temesse e non mettesse le altre foche in guardia nei suoi confronti. Ma ci volevano ancora molti anni prima che diventasse un cacciatore, capace di provvedere a una famiglia.
E la sua famiglia aveva bisogno di lui.
Ernenek ebbe un incidente da cui non si riprese mai del tutto. In una caccia all’orso scivolò male giú da un colle, e insieme a parecchio ghiaccio si spezzò la schiena. Per molte lune rimase inerme sul giaciglio e quando finalmente riuscí ad alzarsi scoprí di non potersi chinare né sedere: aveva la spina dorsale piú rigida del gelo. O stava sdraiato o si metteva in piedi, ed era buffo vederlo rotolare sulle pelli e tirarsi su appoggiandosi al muro a poco a poco: regalava grasse risate a tutta la famiglia. Riusciva a camminare e pure a correre, ma non a lungo, e se alzava qualche peso la schiena e i lombi lo spedivano ben presto sul giaciglio, a mugugnare di dolore.
A volte il male era cosí forte che neanche riderci sopra lo aiutava.
Aveva quarant’anni ed era un vecchio, con lo stesso appetito di un tempo ma molta meno capacità nella caccia, pieno delle cicatrici del suo lungo viaggio attraverso gli anni. Aveva la faccia solcata nel profondo, le guance rigide e smunte, con molta neve sui baffi che gli pendevano a ciuffi giú dal mento raggrinzito. E gli occhi gli si colmavano di meraviglia ogni volta che guardava Papik – freccia da lui scoccata attraverso l’arco di Asiak – per quanto era identico a lui da giovane.
Secondo i calcoli di sua madre, Papik cominciò a somigliare moltissimo a suo padre a sedici o diciassette anni, tanto era diventato grosso e muscoloso. Era anche presuntuoso come lui, o quasi; avventato come lui, o quasi; spiccio e sfacciato come lui, o quasi.
Né avrebbe mai potuto, essendo anche figlio di Asiak.
Ivalú, piú bassa del fratello, non si era ancora del tutto sviluppata ma si presentava già tozza e ampia di petto. Aveva le labbra di Asiak, larghe e piene ma non turgide, mentre il taglio dei suoi occhietti vivaci era quello di Ernenek. Era curiosa ma quasi senza volere, bramosa ma ignorante, incontaminata da civiltà, istruzione, disciplina, socialità, trasporti e aviazione; terreno incolto, fiore non colto. La cera vergine della sua mente reagiva subito agli altri perché ne aveva visti pochi, il suo umore era riottoso al pari del vento. Ma alla fine il riso prevaleva sempre.
Poi un giorno incontrò un ragazzo di nome Milak.
Successe d’estate, durante una battuta di caccia nell’entroterra. I due scambiarono poche parole, nessuna delle quali amichevole.
— Qualcuna non sa che farsene degli uomini, — aveva detto Ivalú.
— Chi non sa che farsene degli uomini non è una donna, — rispose Milak.
— E allora chi è, questa qualcuna?
— Una bambinetta con un cervello d’alca e un cuore da ghiottone. Soltanto una bambina può credere di sapersela cavare senza un uomo.
— A una bambinetta la tua presunzione piace, la fa molto ridere, — disse Ivalú dando subito, con i fatti, seguito alle parole.
Ma che cafoni questi nordici, pensò Milak, che era meridionale. Soltanto Asiak era un minimo dirozzata, doveva avere ascendenze del Sud. Ivalú e Papik, invece, erano buzzurri come il padre. O quasi. Piú rozzo di Ernenek non c’era nessuno. Appena una dormita prima, dopo la caccia, Milak gli aveva detto: — La mia preda è squallida, in confronto alla tua, — ed Ernenek aveva avuto la faccia di rispondere: — E certo! — giacché quel po’ di modestia faticosamente acquisita in passato era andata perduta negli anni lontano dagli esseri umani.
C’era da stupirsi se la figlia di un uomo del genere rideva di lui, anziché considerarsi la donna piú insignificante che mai avesse posato gli occhi su un cacciatore della sua possanza? Eppure cosí era. Prendere o lasciare.
E Milak prese.
— Sai, — provò a ragionare con lei mentre atteggiava a indifferenza il volto pallido, — tuo padre ormai non è un gran cacciatore, si è rotto la schiena, e tuo fratello presto prenderà moglie e dovrà provvedere a lei.
— Una ragazza è capace di cacciare e pescare come un uomo, — rispose Ivalú.
— E chi cucirà? Non puoi badare a tutto. E in quanto donna ti è proibito uccidere le foche, né potrai inseguire gli orsi o piegarti sopra un buco per pescare, quando sarai gonfia di un figlio o lo trasporterai nel marsupio. Dopo un bambino o due, ti toccherà cercartelo, un marito.
— E perché?
— Perché tuo fratello non può provvedere a tanta gente!
— Forse tu no, Papik eccome! Siamo del Nord e l’unica cosa in cui voi stranieri debolucci ci battete è la vanità!
Sotto gli strati di grasso e nerofumo, Milak arrossí. Si alzò, batté i piedi per terra, sputò, mentre Ivalú lo osservava interessata. La incuriosiva. Veniva dal Paese dalle ombre corte, dal caldo, gioioso, incantevole Sud, lí da dove vengono il sole, la renna e il bue muschiato.
— Allora qualcuno tornerà sui suoi passi da solo, — disse alla fine imbronciato, e si ritirò in buon ordine verso il sole.
Ivalú sognava uomini grossi e robusti, allegri e spavaldi come suo padre, tutt’altra roba rispetto a Milak. Era un bravo cacciatore, agile e svelto, ma non abbastanza muscoloso per piacerle, quasi gracile in confronto agli eschimesi in generale e a quelli del Nord in particolare. Non rideva mai e il suo volto vibratile e nervoso tradiva pensieri in conflitto costante...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Paese dalle ombre lunghe
  4. I fatti nudi e crudi
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Copyright