Purezza
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Purezza

  1. 200 pagine
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Informazioni su questo libro

« Purezza è un libro impressionante: commovente, radicale, bello e violento insieme, inaspettato. Greenwell è uno scrittore importante e i suoi racconti ci danno gli strumenti per affermare noi stessi, per esistere, per combattere».
Édouard Louis «Greenwell è forse il miglior scrittore di sesso in circolazione. Di certo il piú elettrizzante».
«The Times Literary Supplement» Il narratore di Purezza è un giovane espatriato che insegna in un'università americana a Sofia, in Bulgaria. Questo è solo uno degli elementi che lo rendono sempre in qualche modo straniero: omosessuale, figlio di un padre conservatore e violento che gli ha instillato un profondo disprezzo per se stesso, il narratore di Purezza fa i conti con una vita trasformata dalla scoperta e dalla perdita dell'amore.

« Purezza è un capolavoro di erotismo radicale, ma le sue storie non avrebbero lo stesso impatto se non emergessero in un tessuto narrativo meravigliosamente vario, tra momenti di amore felice, scene dipinte finemente di disordini politici, ricordi perturbanti di un'infanzia dolorosa, momenti di rapimento estetico. Tenerezza, violenza, risentimento e compassione sono i margini esterni di quella che sembra una mappa totale della condizione umana». Alex Ross, «The New Yorker» «Se Henry James fosse vivo in questo strano secolo, se Thomas Mann si fosse concesso di scrivere di sesso esplicito, se Virginia Woolf si fosse lasciata andare di piú, se Proust fosse nato in Kentucky, e se tutti loro avessero mescolato sangue e cervello, potremmo avere qualcosa come Garth Greenwell. Purezza è sospeso tra Europa e America, tra romanzo e racconto, tra finzione e identità. È indescrivibile, ed è geniale». Rebecca Makkai «Piú o meno come altri scrittori maschi americani - penso a Hemingway, James Baldwin e Edmund White - hanno scelto Parigi come luogo in cui il loro solitario protagonista viene messo alla prova e trasformato, cosí Greenwell usa Sofia come suo laboratorio... Uno dei problemi che si trovano ad affrontare tutti gli scrittori gay è come rappresentare la felicità: Greenwell racconta, sí, cosa sono la paura, la segretezza e la solitudine per un omosessuale, ma nella seconda parte del libro mette in scena la felicità». Colm Tóibín, «The New York Times»

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
Print ISBN
9788806247737

Parte prima

Mentore

Ci eravamo dati appuntamento alla fontana di fronte al McDonald’s di piazza Slaveykov. Per i miei canoni americani G. era in ritardo, e lo aspettavo curiosando tra i banchi di libri per cui la piazza è famosa, le merci disposte in alte pile sotto i tendoni di fronte alla biblioteca comunale. Non era piú nemmeno una fontana, l’avevano chiusa da anni, da quando un’estate un cavo difettoso aveva fermato il cuore di un uomo che si bagnava le dita nell’acqua fresca. Era dicembre adesso, benché l’inverno non si fosse ancora insediato; c’era il sole, un clima mite, non era spiacevole fermarsi un po’ a sfogliare i libri esposti. G. aveva destato la mia attenzione fin dall’inizio dell’anno, dapprima solo per la sua bellezza, poi per la particolarità dell’amicizia che mi sembrava di intuire fra lui e un altro dei miei allievi, l’intensità con cui G. lo ricercava e il carattere privato di cui ammantava il rapporto. Mi era familiare, quell’intensità, un ricordo dell’adolescenza, come la compiaciuta ambiguità con cui l’altro la accoglieva, sollecitandola mentre la allontanava. Mi ero quindi fatto un’idea di ciò di cui avremmo parlato, e del perché la scuola non offrisse una sufficiente intimità, ma ero ugualmente curioso: non era uno studente a cui fossi particolarmente legato, non passava in ufficio fuori dall’orario di lezione, non si era mai confidato né mi cercava, e mi chiedevo quale crisi lo avesse spinto ad avvicinarsi ora.
Cominciavo a infastidirmi dei venditori che, intuendomi straniero, non facevano che indicarmi le loro pile di tascabili americani malconci, e poiché G. continuava a non arrivare mi sorse il dubbio di aver sacrificato il pomeriggio invano. Ma poi arrivò, apparendo di colpo al mio fianco, e nel vederlo il mio fastidio si dissolse. La sua presenza qui spiccava, con quei vestiti vagamente formali, i soffici capelli mossi, anche se negli Stati Uniti sarebbe risultato piuttosto anonimo, un futuro studente di college privato della costa orientale, o forse non esattamente, specie quando un sorriso troppo ampio (che quasi sempre si curava di evitare) rivelava il poco americano dissesto della fila di denti inferiori. Mi salutò con un certo calore, ma anche, come sempre, con una sorta di reticenza, quasi stesse decidendo se pronunciare o meno un giudizio che era sul punto di formulare. Mi chiese dove saremmo andati, salvo scartare ogni mia proposta e dire che mi avrebbe portato in uno dei suoi luoghi preferiti, quindi s’incamminò, non accanto a me ma davanti, scongiurando la conversazione e come pronto a negare qualsiasi legame con la mia persona. Non ero nuovo da quelle parti, vivevo a Sofia da due anni, ma ero rimasto un principiante della città, e presto – nonostante il centro sia piccolo e non ci fossimo allontanati troppo da Slaveykov e Graf Ignatiev, la zona che conoscevo meglio – non seppi piú dov’eravamo. La mia ignoranza non era dovuta a scarso impegno: per mesi, dopo il mio arrivo, ero venuto in centro ogni mattina possibile, camminando per le vie della città che si svegliava e segnando al mio ritorno il tragitto percorso, su una mappa appesa al muro. Ma quelle stesse strade, anche poco tempo dopo, mi apparivano quasi del tutto estranee; non riuscivo a comprenderne gli incastri, e solo qualche dettaglio isolato (un vecchio cornicione inciso, una facciata dai colori insoliti) mi ricordava che da lí ero già passato. Camminando dietro G. avevo l’impressione, come sempre in presenza di un nativo di Sofia, che la città si dischiudesse, che il monolitico cemento vuoto dei palazzoni in stile sovietico lasciasse il posto a inattesi cortili e caffè e sentieri di giardinetti trascurati. Entrando in questi spazi, piú silenziosi e meno trafficati dei viali, G. rallentò il passo, lasciandosi affiancare, quindi camminammo in modo piú amichevole, benché ancora senza parlare.
Era in uno di questi cortili o giardinetti che si nascondeva il ristorante di G. Era interrato, e avvicinandoci alla porta da cui saremmo scesi all’interno notai l’ingresso di un negozio vicino, un antiquario, dalle vetrine affollate d’icone – Cirillo e Metodio, un’estatica Maria, san Giorgio a cavallo che trafiggeva la bocca del drago – accanto a cimeli nazisti, orologi, portafogli e fiaschette, tutti marchiati da una croce uncinata. Se ne vedono spesso negli antiquari e nei mercati di qui, souvenir per turisti o per giovani uomini nostalgici di un tempo in cui avrebbero potuto allearsi, pur disastrosamente, con chi al mondo esercitava un vero potere. Lo spazio in cui scendemmo era piú ampio di quanto mi aspettassi, una grande sala con séparé sui due lati, e in fondo un bar che immaginai gremito, la sera, di studenti universitari. A illuminarla era una fila di piccole finestre sulla sommità di una parete, dai vetri appannati e macchiati di fumo, tanto che la luce risultava particolarmente smorzata, come intrisa di tè. G. mi indicò uno dei séparé, per la maggior parte vuoti, e insieme ci accomodammo.
Posò sul tavolo le sigarette e appoggiò la punta delle dita sul pacchetto, picchiettandolo delicatamente. Capii che attendeva il mio permesso, che malgrado quasi tutti nel ristorante stessero fumando non li avrebbe imitati senza prima ottenere il mio consenso. Gli sorrisi o annuii, e lui afferrò il pacchetto restituendo il sorriso, come per scusarsi di quella smania, e aspirando una prima lunga boccata i suoi contorni si ammorbidirono. Allora parlammo un po’, perlopiú di facezie e dell’inevitabile questione università; le domande di ammissione erano partite, gli studenti attendevano risposta, e benché tutti fossimo esausti di parlarne, era l’argomento a cui inevitabilmente tornavamo. Bene, disse lui, va tutto bene, devo solo aspettare, aggiungendo che gli istituti ai quali aveva fatto domanda erano per la maggior parte negli Stati Uniti, anche se adesso molti studenti di qui guardano all’Unione europea, dove le rette sono piú basse e maggiori le probabilità di potersi trattenere dopo la laurea. Ma quei discorsi erano come un panno già strizzato, e presto rimanemmo in silenzio. Parlai allora di poesia; poco tempo prima avevamo letto alcuni poeti americani del secondo dopoguerra, e i versi prodotti in seguito da G. erano stati un’autentica sorpresa, penetranti e fluidi, rivelatori di uno spessore che altri suoi lavori mai avevano suggerito. Una poesia in particolare mi aveva colpito, piena di quotidianità: descrizioni della nostra scuola, dei suoi compagni e insegnanti; e la sensazione che in quel mondo da lui descritto non vi fosse un posto in cui potesse sentirsi a casa. Sembrava una sorta di invito, e sospettavo che la mia reazione, entusiastica e molto incoraggiante, avesse a sua volta ispirato quell’incontro.
Estrasse alcuni fogli dalla sua borsa e li fece scorrere verso di me, dicendo Ecco, ho continuato a lavorare su queste. Rimasi deluso nel vedere in cima la piú inconsistente delle poesie che mi aveva dato, una generica ode a un femminino idealizzato, piena di lodi esagerate e pronomi maiuscoli. Era la stessa bozza che avevo già visto, piena di mie correzioni e suggerimenti, consigli che mi sentivo in dovere di dare anche agli elaborati meno promettenti. Ha corretto molto, mi disse, ma non l’errore piú importante. Posai lo sguardo sul foglio e lo rialzai confuso; Non lo vedo, dissi, cosa mi è sfuggito? Si sporse in avanti, allungando le braccia verso il foglio e adagiando il busto contro il legno laccato, in un gesto squisitamente adolescenziale, pensai, ricordavo di averlo fatto ma avevo smesso da anni, e puntò il dito sul margine del foglio. Qui, disse, indicando una riga che conteneva la sola parola Lei, è qui che l’ho fatto e diverse altre volte, i pronomi sono tutti sbagliati, e malgrado la postura semidistesa mi resi conto che il suo corpo era teso. Ah, dissi, alzando lo sguardo dal foglio a lui, capisco, e subito si ritrasse, come sganciato da un vincolo, e come volendo ristabilire, dopo quella rivelazione, una distanza fra noi. Arretrai anch’io, rispingendo i fogli verso di lui; avevano evidentemente esaurito la loro funzione.
Quelle poesie che abbiamo letto in classe, disse poi, non avevo mai visto niente di simile, non sapevo che cose simili esistessero. Si riferiva a Frank O’Hara, mi resi conto, i cui versi avevano sconvolto la maggior parte dei miei studenti, com’era nelle mie intenzioni. Non avevo mai letto nulla, proseguí, intendo un racconto o una poesia, che sembrasse parlare di me, che avrei potuto scrivere io. Lo disse senza guardarmi, guardandosi invece le mani, posate entrambe sul tavolo davanti a sé, le dita di una strette intorno a una sigaretta consumata fin quasi al filtro. Provai due sensazioni ascoltandolo, innanzitutto il solito sconforto che mi procuravano gli scambi con gli omosessuali di qui, ancor piú isolati di quanto ero stato io da giovane, nel Sud degli Stati Uniti, dove quantomeno avevo trovato libri che, pur immancabilmente tragici, compensavano offrendo una certa qual bellezza. Ma oltre allo sconforto provai soddisfazione, o forse orgoglio per aver procurato (cosí mi pareva) un minimo di sollievo, ed era forse questa la sensazione dominante. L’avevo accolto, pensai, il che mi procurava un senso di calore che dal nucleo centrale di me stesso s’irradiava all’esterno. Era, io credo, un orgoglio da artigiano: mi ero impegnato a fondo per trovare le poesie adatte ai miei studenti, scegliendo O’Hara per i temi ma soprattutto per la gioia, per quel suo rifiuto di ogni prudenza e senso di colpa, che non avrebbero che rafforzato ciò che molti miei studenti già pensavano della categoria o classe di persone cui appartenevo. La soddisfazione crebbe continuando ad ascoltarlo, dopo una pausa all’arrivo del caffè per aggiungere zucchero e latte. Lei è l’unico che conosco a parlarne, pubblicamente e senza vergogna, disse; ed è un bene che lo faccia, dev’essere dura qui. Era un tipo di legittimazione che non si riceve quasi mai, e mi ricordò il senso di missione che mi animava quando avevo cominciato a insegnare, e che nel tempo si era nettamente affievolito. Ebbe come effetto quello di aumentare ulteriormente la distanza che ci separava, e pur vedendolo ancora agitato, teso e ansioso, afflitto da ciò che gli rimaneva da dire, mi sentii pervaso da una sensazione di compiutezza, un insolito e nitido piacere.
Gli chiesi se c’era qualcos’altro, oltre alle poesie da noi lette, che l’avesse spinto a volermi parlare. Non so, rispose, avevo bisogno di parlare con qualcuno, e nel dirlo rigirava la tazza di caffè, lentamente, passandosi il manico da un palmo all’altro. Lei non ha idea di come sia, disse, pronunciando il mio nome, e facendomi trasalire, non so bene perché, e io provai di nuovo – per un istante e come in forma di eco – lo shock avvertito, anni prima, la prima volta che uno studente mi aveva chiamato per cognome. Mi era risultato cosí estraneo, cosí poco connesso alla mia persona, anche se adesso mi pare inevitabile, è forse ciò che sono diventato, mi sembra a volte, un me stesso ridotto. Non ha idea di come sia, proseguí, qui non ho nessuno con cui parlare, è impossibile, e mi elencò le fonti di conforto di cui non disponeva, genitori, amici, le figure scolastiche adulte presso le quali, negli Stati Uniti, avrebbe potuto cercare sostegno; e naturalmente qui non esistevano risorse pubbliche, centri di ascolto o reti da poter contattare. Nemmeno su internet, domandai, non potresti cercare qualcuno lí, e lui alzò lo sguardo severo. Secondo lei io voglio quello, mi chiese, incontrare qualcuno su internet? Non mi interessa, disse, e dal tono capii che mi aveva frainteso, pensava gli suggerissi dei siti d’incontri, quando in realtà avevo in mente ben altro, forum e apposite chat che in America esistono in abbondanza. Ma parve infastidirlo anche quell’idea, che scacciò con un breve gesto sprezzante. Cosa potrei farmene, disse, io vivo qui, non in America, e la vita qui è impossibile. Inoltre, e di nuovo arretrò con il corpo, adagiando il peso contro lo schienale della panca imbottita, ho visto un po’ di quei siti, disse, ho visto di cosa parlano, di televisione e musica pop e sesso, secondo lei avrei qualcosa da dirgli? Lí non c’è niente per me, non è la vita che voglio, non voglio essere quella persona. E poi, dopo una pausa, Ma sono tutti cosí, mi chiese, di nuovo sporgendosi, è questo che significa essere fatti in un certo modo? Lí la mia sicurezza vacillò; avevo detto una cosa sbagliata, e adesso mi sentivo sotto attacco, o quantomeno attratto con piú forza nel diametro del suo disprezzo. Non sapeva nulla di me, di quegli aspetti della mia vita che i miei studenti non hanno motivo di immaginare, pur essendo io piú aperto di chi in genere pratica il mio mestiere, che pure un tempo è stato forse una vocazione. Non sapeva nulla di me, nulla degli appetiti di cui a volte mi vergogno, e tuttavia mi sentivo accusato, e dunque No, naturalmente, dissi in tono piú secco del dovuto, per poi ripiegare su me stesso senza riuscire a dire altro. Si allontanò dalle mie parole, e mi pentii di ciò che avevo fatto. Cingendo con le mani la tazza che avevo davanti, inspirai a fondo e premetti i palmi contro il poco calore rimasto, dopodiché, ritrovata la calma per parlare, Tu che vita vorresti, gli chiesi.
Incurvò leggermente le spalle, come a dire non lo so, o forse che importanza ha, quindi cominciò a parlare d’altro, o di quel che altro sembrava, di nuovo dandomi la sensazione di aver sbagliato approccio, di non aver percepito o detto ciò che avrei dovuto. Ha presente quelle poesie che ha appeso in classe, riprese, e io annuii, certamente: cinque poesie scritte dagli allievi delle mie due quinte superiori, che avevo affisso in una piccola bacheca in fondo all’aula. Per una settimana, prima che i ragazzi le consegnassero, Sofia era stata battuta da un vento eccezionale, feroce e implacabile, un vento africano, si era detto, che aveva seminato il caos per la città rendendoci tutti ansiosi o troppo euforici. Era costante, ineludibile, e appariva in tutte le poesie che avevo affisso, ora in forma di serpente, ora di cavalli al galoppo sulla sabbia, le pagine accostate sulla parete come sfaccettature di un occhio composto. Quattro delle poesie che ha appeso erano scritte da me e dai miei piú cari amici, disse, tre di noi in una classe e il quarto nell’altra; non ne avevamo minimamente parlato, buffo che avessimo scritto dello stesso argomento. Sapeva, mi chiese, che eravamo cosí legati, ma io non lo sapevo; m’imbarazzava anzi constatare che, nelle settimane trascorse da quel compito, avevo scordato di chi fossero i lavori scelti, e ascoltando G. quel pomeriggio avrei ricostruito solo gradualmente chi erano gli altri studenti a cui si riferiva. O forse non era buffo, proseguí, immagino non ci sia niente di buffo, ma è comunque strano come tutti siamo stati attratti dalla stessa cosa. Erano amici da quando erano arrivati all’istituto, disse, si erano conosciuti in prima superiore, tre maschi e una femmina, diventando inseparabili quasi dal primo giorno. Sentendolo parlare di questi amici, pensai che nonostante i miei errori mi avesse giudicato degno della sua fiducia, una fiducia piú profonda di quella già dimostrata; o forse non era un giudizio ma un bisogno a spingerlo a parlarmi come fece, non una mia virtú ma la semplice funzione che potevo assolvere. Erano a loro agio uno con l’altro come prima non era mai stato, mi disse, non aveva mai fatto parte di un gruppo come quello; si era sempre tenuto in disparte dalle persone, tenersi in disparte era nella sua natura. Mi sento fortunato, disse, ero convinto che da un momento all’altro avrei mandato tutto a monte, che la nostra amicizia si sarebbe dissolta come sempre si dissolvono le mie amicizie; non ne ho che risalgano a prima delle superiori, disse, non so come ma scivolano via. O forse non usò quelle espressioni, dissolversi, scivolare via, forse le introduco io ora, ma sono quasi certo della forma di ciò che disse mentre bevevamo il nostro secondo caffè, io continuando ad aggiungere zucchero nel mio, una bustina dopo l’altra. Loro però non sono scivolati via, continuò, sono rimasti. Ci incontravamo ogni mattina nello stesso posto prima delle lezioni e poi di nuovo a pranzo, prendevamo insieme l’autobus dopo la scuola, nel fine settimana andavamo al parco o al centro commerciale. Passavamo insieme anche le vacanze, andavamo in montagna durante quelle invernali e al mare d’estate, le nostre famiglie hanno fatto amicizia, viaggiavamo tutti insieme. Loro non sono come me, hanno un sacco di amici, sono sempre stati inseriti, ma eravamo comunque un gruppo a parte, in cui ho sempre avuto il mio posto. Avevo ciò che volevo, per la prima volta non desideravo altro, mi capisce, e io annuii; capivo perfettamente, e mi sembrò che la vicinanza da cui eravamo avvolti si approfondisse, diventando una sorta di affinità, che accolsi con un misto di piacere e timore.
Nel ristorante erano arrivate altre persone, e mentre i tavoli accanto si riempivano e l’aria si addensava di fumo G. abbassò la voce. Dovetti sporgermi per sentirlo, e mi sfiorò il pensiero che mi avesse portato lí per la maggiore intimità, quella del séparé come del suo tono piú sommesso, ma anche per l’intimità linguistica; nei piú luminosi caffè dei viali avremmo sentito parlare inglese, però qui eravamo i soli, soli anche in quello. Allora B. non mi sembrava speciale, disse, non piú di tanto, riferendosi all’altro mio allievo, quello con cui ritenevo avesse un rapporto particolare; eravamo amici allo stesso modo, tutti e quattro, ma io e B. eravamo stati compagni di classe per i primi due anni, per poi finire in sezioni diverse l’anno dopo. Non doveva cambiare nulla, disse, eravamo bravi studenti, in classe non parlavamo, non cazzeggiavamo, e passavamo comunque il tempo insieme al gruppo. Qualcosa però era cambiato, continuò, e non lo sopportavo. Mi sono fatto spostare, dicendo che detestavo i compagni, che con me erano crudeli. Non era vero ma ho convinto mia madre, l’ho fatta venire a scuola a lamentarsi, e di lí a qualche giorno mi hanno messo dove volevo. A quel punto tutto avrebbe dovuto sistemarsi, però non è successo, sapevo che il mio turbamento era ingiustificato, non ne capivo la ragione. Ma non è vero, si corresse, scuotendo appena la testa, la capivo eccome, almeno in parte, sapevo che certe cose non avrei dovuto provarle.
Si accese un’altra sigaretta. Per un po’ aveva parlato senza fumare, ora invece aspirò a fondo e di nuovo, espirando, lo vidi rilassarsi. La verità è che tutto andava bene, disse, avevo sempre il mio posto tra gli amici e c’era sempre l’amicizia con B., del resto potevo fare a meno. B. usciva con qualche ragazza, io lo stesso, senza che nessuno dei due ci desse troppo peso, non era cambiato niente fra di noi, fra tutti e quattro, e qui per la prima volta G. nominò il terzo membro del gruppo, l’amica, di cui finora non aveva detto abbastanza perché potessi identificarla con certezza. Era una ragazza molto bella, intelligente, gentile, una delle mie allieve preferite; poco impegnativa, nel senso che mai aveva destato le preoccupazioni che in larga parte compongono l’insegnamento, una studentessa affidabile. Tutto andava bene, ripeté, e questo doveva essere il nostro anno, infine la maturità. Lo aspettavamo da tanto, tutti i viaggi che avremmo fatto, le feste. Sapevo che queste ultime erano una tradizione, una per trimestre e poi, dopo il ballo di fine anno, un ultimo baccanale al mare che durava, per alcuni, fino a quando in autunno non partivano per l’università.
In autunno avevamo deciso di affittare una casa insieme, disse, abbastanza vicina da permetterci di raggiungere gli altri alle feste la sera, ma abbastanza lontana da passare le giornate per conto nostro. Eravamo in montagna, in un paesino che resta vuoto quasi tutto l’anno, intorno non c’era nulla per chilometri. Ci eravamo portati tutto, alcol, musica, perfino delle luci da appendere in una delle case, per ballare. C’era una terrazza che dava sulla montagna, e la prima sera siamo rimasti seduti lí fino a tardi, a chiacchierare e a bere, ridendo come in vita mia ho riso solo con loro. Una serata perfetta, disse, e con un weekend lungo ancora davanti, non ero mai stato cosí felice. Nel dirlo, un’espressione di tale struggimento che dovetti distogliere lo sguardo s’impadroní del suo viso. Cominciavo ad avvertirlo in modo crescente, quel desiderio di guardare altrove, un desiderio al quale finora mi ero opposto, per comunicargli che ero in ascolto, pronto a ricevere ciò che aveva da offrire; a maggior ragione perché lui mi guardava di rado, fissando invece il tavolo, le sue mani o la tazza vuota al centro. Volevo esserci quando mi avesse guardato, mostrargli la mia attenzione, che era il mio modo di afferrarlo, suppongo, o avrei voluto che lo fosse, volevo raccoglierlo. Ma continuando ad ascoltarlo non mi riuscí nemmeno quello, non potevo trattenere gli occhi sul suo viso.
Sono andato a letto prima di B., disse allora, dividevamo una stanza ma lui voleva stare sveglio ancora un po’ e io ero sfinito. Pensavo che rientrando mi avrebbe svegliato, che avremmo chiacchierato come sempre, giusto qualche minuto noi due soli; ma ho dormito tutta la notte, e al risveglio il suo lato del letto era intatto. Ho pensato che si fosse addormentato in terrazza, ma di notte aveva fatto freddo e fuori non c’era nessuno. Era presto, un mattino di nebbia e silenzio come solo in montagna, e per un po’ mi sono fermato al parapetto di legno, guardando il paesino immobile giú a valle. Li aveva aspettati in soggiorno, disse, senza fare nulla se non aspettare, finché dal piano di sopra non aveva udito un rumore e l’ultimo membro del gruppo era sceso. G. pronunciò il nome del ragazzo e per la prima volta ebbi una percezione chiara dei quattro, tutti studenti che vedevo ogni giorno, o quasi, completamente ignaro delle loro interazioni. La mia visuale sulle loro vite è cosí strana; per certi versi li vedo come nessun altro, il mio mestiere è una sorta di sguardo prolungato, e per altri mi risultano opachi. Era tutto eccitato, disse G. di questo quarto amico, non vedeva l’ora di raccontarmi della notte prima, di come dopo che ero andato a letto si erano fermati a bere, e tra B. e la nostra amica era successo qualcosa, avevano cominciato a parlare come se l’altro non ci fosse, finché lui non aveva dato loro la buonanotte lasciandoli soli. Poi, prima di addormentarsi, li aveva sentiti passare davanti alla sua porta insieme. Come sono contento, aveva detto l’amico a G., insieme sono perfetti, era nell’aria da un pezzo; non si capacitava che non fosse successo prima, era talmente chiaro che lo desiderassero. E tutto questo me l’ha detto come se già lo sapessi, proseguí G., come se fosse cosí chiaro da non doverlo nemmeno dire. Ma io non lo sapevo, non mi ero accorto di nulla, e seduto lí ho provato una sensazione mai provata prima, come se stessi cadendo in un liquido, simile all’acqua però non era acqua, disse G., sembrava un elemento nuovo. Ma non deve aver detto esattamente questo, sarà qualcosa che avrò aggiunto io; per solidarietà, vorrei poter dire, ma non era solidarietà ciò che sentivo ascoltandolo, piú un senso di rivendicazione. L’esperienza che aveva vissuto mi apparteneva, pensai, la riconoscevo nel dettaglio, e ascoltandolo mi sentii cadere anch’io, nel suo racconto e nel suo sentire, intrappolato dalle sue parole.
E dopo un po’ li abbiamo sentiti muoversi, riprese G., si è sentita una porta chiudersi, dei passi dall’alto, e insieme sono scesi dalle scale. Timidamente, tenendosi per mano, come nervosi all’idea che li vedessimo. Il nostro amico si è messo a fischiare e a ridere, ad applaudire, e allora hanno riso tutti insieme. Ma io non riuscivo a ridere con loro, non con sincerità, ho potuto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Purezza
  4. Parte prima
  5. Parte seconda. Amare R.
  6. Parte terza
  7. Ringraziamenti
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Copyright