O forse farei meglio a dire la fine decisiva del quartetto d’archi Razumovsky. E solo alla vigilia del debutto ufficiale, previsto per il concerto di Capodanno nell’auditorium del distretto di Hamburg, nel Montana. A mandare all’aria ogni nostro progetto fu la morte improvvisa di Max Brentano, primo violino. Mesi e mesi di studio vanificati dalla tragica morte del nostro leader. Venuto a mancare lui, crollava la colonna portante di tutto il quartetto. Una colonna insostituibile, poiché era stato lo stesso Max a proporre che, in ricordo della nostra giovinezza, si ricostituisse, dopo trent’anni, il gruppo musicale. E ciò che all’inizio era nato come uno scherzo diventò ben presto una faccenda piuttosto seria, un progetto che per circa un anno ci avrebbe visti impegnati anima e corpo.
I funerali di Max Brentano furono celebrati il 5 gennaio del 1977 in forma strettamente privata. Il corpo fu inumato accanto a quello della moglie nella tomba monumentale, riconoscibile da un cippo a forma di piramide tronca. Era una mattina particolarmente fredda, la notte prima la temperatura era scesa sotto i venti gradi. Oltre ai rimanenti membri del quartetto, ci saranno state in tutto una dozzina di persone, tra le quali mi sembrò di individuare quella che, per l’età , avrebbe potuto essere sua figlia: una signora elegante, ancora giovane, con il volto celato da una veletta nera. Dopo la breve omelia del parroco, mi fu chiesto di dire qualche parola in ricordo del defunto. Elencai le varie doti del nostro amico e mentore: la sua intelligenza e sensibilità , che da sole sarebbero state in grado di farlo emergere in ogni campo dello scibile umano, la sua generosità d’animo, il suo mecenatismo a favore della diffusione della musica e della scoperta di nuovi talenti. Non potei fare a meno di ripercorrere a ritroso il nostro passato, fino alla giovinezza che ci aveva visti uniti per la prima volta nell’esecuzione di un famoso quartetto di Beethoven (naturalmente, mi guardai bene dal precisare che suonammo al cospetto del Führer). E per concludere degnamente, citai a memoria una frase autografa scritta a margine dello spartito dal grande musicista tedesco, il quale amava in particolar modo questa composizione, e soprattutto il terzo tempo: quell’adagio molto e mesto che era come un salice piantato sulla tomba dell’amato fratello.
Provai la sensazione di aver esagerato nell’esternare con tanto calore sentimenti che mi erano propri, tuttavia notai con piacere che il mio intervento aveva avuto il suo effetto sui presenti: qualche signora non riuscà piú a soffocare il pianto, e gli uomini presero a soffiarsi rumorosamente il naso. Quando arrivò il mio turno di gettare nella fossa una manciata di terra, raccolsi una zolla ghiacciata che si rifiutò di sbriciolarsi tra le dita. La lasciai cadere intatta com’era, colpendo la cassa di risonanza della bara che rimandò un suono cupo, un re bemolle, o almeno cosà mi parve.
Quello stesso giorno, subito dopo le esequie, vennero ad arrestarmi.
E pensare che fino a pochi giorni prima eravamo ancora impegnati ad apportare gli ultimi ritocchi all’esecuzione. Era da un anno che ci lavoravamo con tutto l’impegno. In questo periodo Max si era prodigato per affinare la nostra tecnica, per elevarla ai fasti di un tempo, e seppure non fosse prevista l’esecuzione alla Carnegie Hall – ci aspettava, infatti, un pubblico di bovari con l’immancabile Stetson in testa e gli stivali a punta –, era nostro dovere dare il meglio.
All’ispettore, che dei nostri rapporti volle conoscere ogni particolare precedente la sua morte, assicurai che tra noi non c’era stato alcuno screzio e che ultimamente Max era molto soddisfatto dei risultati ottenuti in un anno di prove. Aggiunsi che era stato lui a proporci di riprendere l’attività musicale, interrotta dai tempi della guerra, dimostrandosi un maestro esigente e severo, e che, preso com’era dall’entusiasmo, nulla avrebbe lasciato credere che avesse dei propositi suicidi. Infatti, Max era riuscito a riportare tutti a un buon livello, pronti per esibirci in pubblico. E all’improvviso, dopo tanti sforzi, tutto ciò che ci restava di lui era lo struggente interrogativo: perché? La scena lasciava credere a un suicidio, e tuttavia non c’era alcun motivo plausibile che potesse averlo spinto a togliersi la vita alla vigilia del debutto del nostro quartetto d’archi, tanto fortemente atteso e da lui stesso voluto. Per un anno intero Max aveva lavorato alacremente, non solo per permetterci di dare il meglio di noi, ma si era accollato anche il compito di arrangiare la parte del violoncello, affidata a Vanessa, una giovane neodiplomata. Cosà dissi all’ispettore che mi interrogava. A questo riguardo, va precisato che, quando ci venne in mente l’idea stravagante di ricostituire il complesso musicale che da giovani ci aveva visti perseguire un sogno mai realizzato, eravamo solo in tre e non sapevamo ancora a chi affidare la parte del basso, riservata a suo tempo a Victoria. Si sa che un ispettore di polizia deve prendere in considerazione anche il minimo sospetto, ma che la sua morte potesse essere in qualche maniera collegata alla giovane Vanessa, l’acquisto recente del nostro ensemble, era da escludere tassativamente. La decisione di inserire nel quartetto un nuovo elemento era stata infatti l’ultima ratio: dovevamo per prima cosa assicurarci che Victoria fosse non solo ancora in vita, ma anche disposta a condividere il bizzarro progetto che avevamo in mente. Mai avremmo pensato che un’estranea, per giunta americana, potesse sostituirla. Ritrovarci tutti e quattro nella stessa formazione di allora sarebbe stato pressoché un miracolo nel quale non speravamo, ma un tentativo era d’obbligo. L’ultimo scoglio da superare non era certo da poco: volevamo rintracciarla, ma non sapevamo da che parte iniziare. Attorno al suo nome si andava formando un vortice di domande. Era ancora in vita? Era disposta a partecipare? Dove si trovava? Com’era possibile raggiungerla? Il cognome Engelhart era piuttosto raro, ma in America lei aveva assunto quello del marito: Graham, e a chiamarsi a quel modo ci saranno stati almeno centomila sparsi per tutto il territorio, dal Messico al Canada. Di lei sapevamo solo che, subito dopo la fine della guerra, aveva sposato un celebre compositore, riprendendo, con il nome del marito, l’attività concertistica (in certi negozi specializzati di musica si poteva ancora trovare qualche disco in vinile con una sua interpretazione delle Suites per violoncello solo, di Bach). Ma oltre a queste scarne notizie, apparse su riviste come «Classic Voice» e «Gramophone», non si sapeva altro. Ormai erano già quasi dieci anni che di lei non si avevano piú notizie, e ritrovarla senza il minimo indizio sembrava un’impresa disperata. Infine, dopo lunghe ricerche, un’agenzia investigativa rintracciò in una casa di riposo a Providence una donna che corrispondeva alla descrizione. Non potevamo essere certi che si trattasse proprio di lei e non di un caso di omonimia. A ogni buon conto, prima di ricostituire il nostro quartetto d’archi, era necessario verificare di persona. Tanto le era dovuto.
Era un bel viaggio quello che ci accingevamo a fare: parte con un pullman della Greyhound, parte in aereo e infine, per raggiungere il luogo, avremmo noleggiato una macchina presso una delle tante stazioni della Hertz.
Da principio avevo accampato ogni scusa possibile per non partecipare alla «spedizione». Temevo che in tutti questi anni Victoria avesse avuto modo di scoprire la verità inconfessabile che mi riguardava, e che, vedendomi, mi puntasse contro l’indice accusatore. Ma quando Max si offrà di sostenere tutte le spese del viaggio, comunicandoci di aver già acquistato i biglietti e prenotato tre posti sul volo per Rhode Island, non mi restarono piú scuse. Infine dovetti accettare. Avrei corso questo rischio, sperando che i miei timori fossero ingiustificati e che il tempo avesse cancellato ogni traccia delle mie colpe passate.
Secondo quanto ho riportato sul mio quaderno, partimmo una mattina d’estate (il 6 giugno 1976, la domenica di Pentecoste, per la precisione) e giungemmo a destinazione dopo quattro ore di viaggio. La casa di riposo era una villa in stile georgiano, attorniata da alcuni padiglioni immersi nel verde e affacciata su un giardino all’italiana, con fontane zampillanti, roseti e siepi di bosso potate ad arte. Non fosse stato per il gran numero di sedie a rotelle sospinte lungo i vialetti di ghiaia da linde infermiere con la cuffietta inamidata in testa, piú che una casa di riposo sarebbe sembrato un luogo di villeggiatura. Il nostro arrivo era atteso. Ad accoglierci venne la direttrice che, dopo qualche convenevole, ci affidò alle mani dell’infermiera caposala che si prendeva personalmente cura di Victoria.
Era arrivato il momento del confronto che ci vedeva tutti e tre emozionati, seppure per motivi diversi. Non appena fummo entrati nella sua stanza ogni dubbio sembrò dissolversi. Solo io stentavo ancora a credere che quella donna dallo sguardo vuoto e il labbro pendulo, relegata a letto con il busto sollevato da un cumulo di cuscini, fosse la stessa che un tempo aveva seminato tra noi discordie e gelosie. Capimmo subito che ad avverarsi erano state le nostre peggiori previsioni, e che per l’ambizioso progetto che avevamo in mente di realizzare, lei era ormai fuori gioco. Il tempo non le era stato amico: la pelle del viso era spenta e opaca, e la lunga chioma di un tempo ridotta a un groviglio incolore. Solo per un attimo su quel corpo illuminato da una losanga di luce, schermata dalle tapparelle mezzo abbassate, mi riapparvero i suoi tratti giovanili, un flash sulla bellezza di un tempo: i capelli biondi dai riflessi ramati, il volto dall’ossatura forte, dagli zigomi pronunciati, e il corpo slanciato, con gambe snelle che, nello stringere tra le ginocchia lo strumento, lei sapeva mettere in mostra con grazia e un pizzico di civetteria. Non fosse stato per la mia natura poco incline a subire il fascino femminile, mi sarei lasciato sedurre anch’io.
La diagnosi della malattia che l’aveva ridotta in quelle condizioni era stata chiara: demenza senile precoce. In ogni caso, a vedere quelle dita martellate dall’artrite, si capiva subito che anche con la mente a posto, non sarebbe stata in grado di reggere un archetto. Tirai un sospiro di sollievo. Benché ai tempi gloriosi del Terzo Reich tra lei e Max si fosse instaurato un autentico legame d’amore, tra i due nulla sembrò trapelare dell’antico sentimento. Lui rimase impassibile, sedette sulla sponda del letto e, sollevatale una mano, la strinse tra le sue e se la portò al cuore. Restò immobile a osservarla, aspettandosi forse chissà quale reazione, ma da parte di lei non sortà nulla che lo lasciasse intendere. Il suo sguardo galleggiava come un pesce morto nell’acqua torbida. Solo quando stavamo per andarcene, lacrime copiose le rigarono le guance, e il suo volto si contrasse farfugliando parole incomprensibili. Seguà poi qualcosa di inaspettato a cui non facemmo in tempo a sottrarci: assalita da un’incontenibile smania, cominciò a strapparsi di dosso lenzuola e coperte come se vi avessero appiccato il fuoco, e prima che riducesse a brandelli la camiciola ospedaliera, accorse in tutta fretta la caposala che riuscà a calmarla. Ci invitò a uscire dalla stanza e chiamò un’inserviente perché le cambiasse lenzuola e biancheria. Piú tardi, al momento del commiato, ci disse che le capitava spesso di non riuscire a contenersi, soprattutto quando era in preda a una forte emozione, o quando cercava di esprimere qualcosa senza riuscirci. Pensai alla sua reazione incontrollata. Era stata l’emozione di rivedere il suo amato? Oppure ero stato io ad attirare la sua attenzione e, nel riconoscermi, si era risvegliato in lei il rancore che aveva sempre nutrito nei miei confronti? Non le ero mai andato a genio, sin da quando eravamo giovani, questo lo sapevo, ero un ostacolo che s’inframmetteva tra lei e Max. Era chiaro che mi tollerava solo perché facevo parte del quartetto, e mi teneva costantemente d’occhio, anche mentre suonavamo, gelosa che tra il primo e il secondo violino ci fosse un’invidiabile intesa. Mi chiedevo se avesse intuito qualcosa, se fosse penetrata fin dentro la mia mente. Diventava di giorno in giorno piú sospettosa, e con il sospetto cresceva nel suo animo anche la gelosia. Naturalmente, ricambiavo lo stesso rancore. Io però ero svantaggiato, poiché, di fronte al loro amore esibito alla luce del sole, potevo opporre debolmente solo un sentimento tacito, sotterraneo. L’attrazione che provavo per Max a quel tempo era quanto mai sottoposta alla pubblica condanna e si paludava sotto il nome generico di «amicizia». Ma l’intuito di una donna è pressoché infallibile. Arrivò al punto di affrontarmi di persona. A innescare la sua reazione incontrollata fu un fatto del tutto innocente: solo qualche giorno prima di subire la sua sfuriata avevo proposto a Max un’escursione attraverso le Alpi svizzere. Gli avevo prospettato una breve vacanza corroborante: notti all’addiaccio accanto al fuoco di un bivacco, ginnastica mattutina e frizzanti nuotate in qualche lago alpino. Tutto in linea con l’imperante Spirito Ariano che incoraggiava il cameratismo e l’amicizia virile. Tentato dalla mia proposta, Max ne aveva parlato a Victoria, la quale capà che da parte mia c’era molto di piú di una semplice amicizia. Infatti, venne a casa mia e mi affrontò a viso aperto, infuriata come non mai. Mi accusò di chissà quali sotterfugi. Mi dette del ruffiano, del finocchio, tanto che fui costretto a spingerla con forza fuori dalla porta. E ora eccola lÃ, ridotta a quattro ossa messe in croce!
Interrogata da Max sullo stato reale della paziente, l’infermiera si mostrò dapprima restia a parlarne, ma bastò farle scivolare tra le dita qualche banconota perché si sciogliesse, fino a fornirci una sua personale prognosi sul decorso della malattia. Seppure lentamente, il male progrediva: tratti piú o meno lunghi di lucidità si alternavano a ricadute. Qualche anno prima, però, le era stato somministrato, in via sperimentale, un nuovo farmaco che aveva ottenuto su di lei risultati sorprendenti. Per tutto il ciclo di cure la paziente era stata in grado di esternare i propri sentimenti. Era arrivata al punto di scrivere parole e frasi di significato compiuto, persino di dettare una lettera, comunicando in tal modo desideri e bisogni che altrimenti non sarebbe riuscita a esprimere. Purtroppo, il farmaco miracoloso costava troppo perché il loro istituto potesse permettersene l’acquisto. Interrotta l’assunzione del medicinale, in breve tempo lei era ricaduta nel suo stato catatonico. Rallegrato dalla notizia che esistesse una cura, Max mise in mano all’infermiera qualche altro dollaro con l’esortazione ad avere per la paziente un particolare riguardo, e di venire informato sulle sue condizioni qualora il male si fosse aggravato.
Prima di lasciare l’istituto, Max ebbe un lungo colloquio con la direttrice. Innanzitutto si fece dare il nome del laboratorio svizzero che produceva il farmaco miracoloso. Pretese quindi che si riprendesse la cura impegnandosi a sostenerne i costi, integrando ogni spesa eccedente o straordinaria. Inoltre, dal momento che dopo la morte del marito a Victoria non erano rimasti altri parenti, lui si offrà di assumerne la piena tutela, riservandosi di sbrigare le pratiche legali per l’affido, e in segno di buona fede staccò un congruo assegno a favore dell’istituto. Evitò di dirci l’importo della donazione, ma di sicuro non doveva essere di poco conto, dal momento che la direttrice, rinunciando alla sua rigida maschera professionale, volle illustrarci di persona le comodità del luogo e la cura riservata agli ospiti, portandoci a visitare l’intero padiglione, dalla sala giochi alla palestra. Infine ci accompagnò all’automobile, avendo cura di indicarci la strada giusta da imboccare per raggiungere l’aeroporto, evitando il traffico cittadino. A giudicare dai pomelli accesi sul volto della donna, si vedeva chiaramente che Max l’aveva pienamente conquistata. Oltre all’indubbio charme personale, Max possedeva quella specie di aura misteriosa che solo il denaro in grande profusione – quand’anche non esibito – riesce a infondere in un individuo. Come figlio unico, aveva ereditato da suo padre un’ingente fortuna costituita da alcune industrie di pezzi di ricambio per automobili con sede a Detroit e succursali in tutto il mondo. A mandare avanti l’azienda c’era uno staff di ingegneri e manager, esperti nei vari settori. Ciononostante, la presenza di Max era spesso indispensabile nel consiglio di amministrazione quando c’erano importanti decisioni da prendere e documenti da firmare. Un’incombenza che Max mal tollerava, erano solo seccature delle quali avrebbe volentieri fatto a meno.
Il viaggio di ritorno fu di grande mestizia. In cuor nostro sapevamo di avere avuto davanti agli occhi un semplice simulacro del passato, non dissimile da una vecchia foto sbiadita; forse solo Max continuava a illudersi che lei fosse ancora cosciente e che nel rivederlo l’avesse riconosciuto. Mi chiedevo se ciò che chiamano amore, il piú controverso dei sentimenti, al quale ci si appiglia per giustificare a volte le azioni piú abiette, possa avere in certi casi questa rara facoltà di restare immutato nel tempo. Ma in ogni caso, per quanto crei sofferenza, è pur sempre il miglior antidoto alla sofferenza stessa. Di quell’incontro una cosa mi restò impressa: quel pungolo di gelosia che provai nel vederli ancora assieme. Nonostante lei fosse ridotta a una larva, Max sembrava non accorgersene. Segno che ne era ancora innamorato e che la sua mente si rifiutava di accettare la verità , lasciandosi cullare da chissà quali speranze. E se l’amore possiede questa rara facoltà di passare indenne attraverso qualsiasi ostacolo, persino all’usura del tempo, anche la gelosia, che ne è una componente, l’affianca di pari passo.
Mentre tornavamo verso Hamburg, per buona parte del viaggio Max non disse una sola parola. Chissà da quale lontano echeggiare, da quale riverbero di voci erano popolati quei suoi lunghi silenzi. Non so che cosa avrei pagato per poter scoprire ciò che gli passava per la mente. Di sicuro anche lui aveva portato in tutti questi anni il peso del rimorso per non aver saputo soccorrere Victoria, quando uno zelante burocrate aveva scovato tra le radici del suo albero genealogico l’infame eredità di sangue. Ebrea!
Una notte Max mi buttò giú dal letto. Era sconvolto, non lo avevo mai visto in quelle condizioni. Victoria era stata arrestata assieme ai suoi genitori, e solo io avrei potuto salvarla.
– Io? – dissi. – In che modo?
– Tu dovresti conoscere qualcuno in grado di intervenire. Tuo padre forse…
Scoppiai a ridere. – Mio padre è l’ultimo dei funzionari. Poco piú di un semplice galoppino. Impossibile che faccia qualcosa.
Sapevo bene, invece, qual è il potere occulto esercitato dai burocrati, soprattutto da quelli che si trovano all’infimo gradino della scala gerarchica. Inoltre, come avrei potuto chiedere l’intercessione di qualcuno, quando ero stato proprio io a mettere in moto l’intero apparato investigativo, inducendo alcuni zeloti a indagare su Victoria. A quel tempo ero capace di qualsiasi bassezza pur di dividerli. Ma quell’azione inconsulta finà per sfuggirmi di mano. Le azioni malevole hanno la capacità di prendere vita propria e di svilupparsi spontaneamente: la scoperta delle sue origini portò gli inquirenti a perquisire la casa dei genitori, dove furono trovati dei volantini propagandistici di chi si opponeva al Regime. E questo segnò la loro condanna senza possibilità di appello.
Quella notte Max restò a casa mia; non lo disse apertamente ma capii che aveva bisogno di trovare conforto nella mia amicizia. Nel frattempo si scolò una mezza bottiglia di cognac. Non lo avevo mai visto in quello stato. Cercai di rassicurarlo in qualche maniera, promettendogli che avrei fatto il possibile per ottenere il visto. Sapevo bene, però, che non ci avrei neanche provato. Victoria era stata d’inciampo nella nostra amicizia, un ostacolo che andava rimosso a tutti i costi. Sapevo comunque quali erano i miei doveri di buon cittadino tedesco e quali rischi stessi correndo nel disconoscerli. Se avessi mosso un solo dito a suo favore, sarei stato passibile di tradimento. Ormai era acclarato che Victoria appartenesse a ques...