Il figlio terrorista
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Il figlio terrorista

Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione

  1. 296 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il figlio terrorista

Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione

Informazioni su questo libro

Carlo Donat-Cattin è vicesegretario della Democrazia cristianaquando, nella primavera del 1980, si scopre che suofiglio Marco milita ai vertici di Prima linea, una delle principaliorganizzazioni terroristiche di sinistra attive negli annidi piombo. La notizia fa da detonatore a uno dei piú graviscandali della storia repubblicana, che coinvolge il presidentedel Consiglio Francesco Cossiga e si combina a circostanzeinquietanti degne di una spy story. Al contempoil dolore privato della famiglia Donat-Cattin e il percorso diMarco, comune a molti altri giovani, mettono sotto gli occhidi tutti lo strappo senza rimedio che si è consumato nelcorso degli anni Settanta. Attraverso questa storia, che èdi padri e di figli, il terrorismo appare come una delle formeche assume il conflitto generazionale, una sorta di resa deiconti che ha le sue radici nelle caratteristiche e nei limitidella modernizzazione italiana. Di parricidio si parla già peril caso Moro, quando lo Stato rifiuta qualsiasi trattativa conle Br. Ma lo scandalo Donat-Cattin sembra annullare la distanzatra terrorismo e Stato, e suona come una chiamatadi correo, oltre che per la classe politica, per l'istituto dellafamiglia, cuore del Paese. A distanza di quarant'anni, spentida tempo i clamori, il caso Donat-Cattin ci appare una storiain grado di fotografare, in una unica istantanea, il drammadel terrorismo e l'Italia nel dramma del terrorismo.

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Informazioni

PARTE SECONDA

Storia di Marco

Ero rinchiuso nel presente, come gli eroi, come gli ubriaconi; momentaneamente eclissato, il mio passato non proiettava piú davanti a me quell’ombra di se stesso che chiamiamo il nostro futuro.
Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore.
Capitolo quarto

L’arresto e l’estradizione

Monsieur, vos papiers.

Mancano pochi giorni a Natale e a Parigi dilaga un incontenibile clima di festa. Sugli Champs-Élysées ristoranti, cinema, teatri, alberi, tutto è illuminato e sfavilla nella notte invernale. È qui, in una grande brasserie a buon mercato, protetti dai vetri appannati e dal brulichio della metropoli, che la sera del 18 dicembre 1980 Marco Donat-Cattin e una sua amica stanno cenando.
Loro non lo sanno, ma fuori qualcuno li aspetta. Incuranti del freddo e della neve, confusi tra la folla dei passanti, gli agenti della Brigade criminelle di Marcel Leclerc e del controspionaggio francese, in accordo con gli uomini del generale Dalla Chiesa, tengono d’occhio l’entrata del locale. Appena li vedono uscire, un rapido cenno d’intesa e li seguono a distanza, lasciando diradare un po’ il fiume vociante della gente. «Monsieur, vos papiers», gli intimano una volta che gli sono alle spalle.
La carta d’identità che Marco esibisce è intestata a Renato Palma, elettrotecnico nato a Civitavecchia nel 1951, occhi e capelli scuri, alto 1.86. Gli agenti sanno benissimo chi hanno di fronte, su di lui pende un mandato di cattura internazionale e sono sulle sue tracce da settimane ma, anche avessero avuto un dubbio, il documento non avrebbe certo potuto trarli in inganno. Marco Donat-Cattin è poco piú alto di 1.75, dieci centimetri meno di quanto lí indicato. Al Quai des Orfèvres, la sede della polizia giudiziaria dove subito lo portano, pallido, smagrito, un po’ trascurato, continua a ripetere di essere Renato Palma1.
Nega per la notte intera, ma all’alba, sotto il peso di numerosi e puntuali riscontri, crolla. Della ragazza che è con lui, Gloria Cesari Grumbaum, un’italiana ex Lotta continua che ha ottenuto la cittadinanza francese grazie a un matrimonio di convenienza, si sa che ha fatto da intermediaria per l’affitto della casa in cui Marco risiede a Parigi, in rue de Tocqueville2. Sarà rilasciata quasi subito, anche se si tenta di incriminarla per favoreggiamento, perché in realtà è piú coinvolta di quanto scrivano i giornali. Alla polizia italiana risulta collegata a un collettivo di supporto per terroristi latitanti con base a Parigi, e anche Paolo Salvi la indica come una fiancheggiatrice; al ritorno di uno dei suoi numerosi viaggi sospetti a Roma è stata trovata in possesso del documento sulla diserzione firmato a ottobre dai piellini Fabrizio Giai e Franco Albesano3.
Insieme alla carta d’identità, che risulterà rubata, Marco ha con sé poco o nulla, qualche spicciolo, una carta Orange – l’abbonamento per i mezzi pubblici parigini – anch’essa intestata a Renato Palma, il ritaglio di un giornale italiano con la foto di Giusi V., una ragazza torinese finita in carcere, alla quale lo legano una tormentata storia d’amore e forti sensi di colpa, perché se lei sta passando dei guai – lo ripetono tutti i pentiti e cosí farà lui stesso – è solo per colpa sua. In tasca ha anche dei foglietti con indirizzi, nomi, numeri di telefono, la «rete d’appoggio», dicono i giornali dando l’idea che ci sia dietro chissà che cosa; ha anche un telegramma inviato da Torino da un certo Giovanni Maurotti, un nome che risulterà inventato, a Claudine Ragonnet, affittuaria dell’appartamento di rue de Tocqueville occupato da Marco: «Telefona mercoledí 17 alle 22 al solito posto. No brutte notizie»4.
La gendarmerie parla di un «colpo di fortuna», un’informazione in seguito alla quale gli agenti si sarebbero precipitati sugli Champs, non ci sono però conferme; qualcuno dice che sia stato individuato e pedinato dal giorno precedente, ma quattro ore prima ha incontrato Massimo Prandi che invece non cade nella rete5. È chiaro che la pista seguita dagli investigatori è quella dei canali mantenuti da Donat-Cattin con l’Italia, soprattutto dopo l’arresto a Parigi lo scorso luglio di sette ex piellini suoi compagni, al quale lui è sfuggito per un soffio. Lo davano in Venezuela: Saluti da Caracas, scrive a ottobre «Panorama», che allude agli appoggi dei democristiani locali, riportando particolari dati per certi e alimentando i misteri6; anche Sandalo, come si è visto, parla di America Latina o Inghilterra, e cosí altri. E invece lui è lí ed è sempre stato lí, a poche ore di treno da Torino, come molti altri latitanti, anche se Parigi è in realtà un rifugio sempre meno sicuro rispetto a pochi mesi prima. Siamo ancora lontani dalla dottrina Mitterrand e sono assai piú restrittive le nuove leggi contro il terrorismo internazionale volute da Giscard d’Estaing, che è preoccupato del contagio italiano e vuole uno «spazio giudiziario europeo»7.
Il capitano Gian Paolo Sechi, uno degli uomini di Dalla Chiesa accorso a Parigi subito dopo l’arresto sugli Champs-Élysées, ha raccontato di essere arrivato a lui facendo pedinare un giovane contiguo agli ambienti eversivi che un giorno è salito sul treno Torino-Parigi. Si dice anche che sia stata una ragazza a funzionare da esca, tradendolo involontariamente8. È la stessa Gloria? Si sa che Marco, appena arrivato nella capitale francese, è raggiunto da Teresa L., una ragazza bresciana amica di Prandi, ma estranea alla militanza, con la quale divide un appartamento9. La ragazza si consegnerà alla legge, il 30 marzo. Quel poco che è rimasto della corrispondenza tra i due non chiarisce come abbia vissuto Marco a Parigi, chi abbia visto, con chi abbia tenuto i contatti; nemmeno le carte di polizia ci dicono qualcosa in piú.
Dopo gli arresti di luglio, Marco è del resto ben consapevole che il cerchio si sta stringendo. A ottobre la cattura di Michele Viscardi, militante bergamasco di Prima linea a lui vicino, imprime un altro giro di vite. Viscardi assume subito un comportamento collaborativo, che consente di portare a termine una maxiretata a dicembre; e conferma le responsabilità di Donat-Cattin nel delitto Alessandrini, al quale lui stesso ha partecipato10. In Italia, dove la situazione è in rapida evoluzione, si alternano sentimenti contraddittori, tra repressione e primi segnali di desistenza, ma la rottura del fronte eversivo pare ormai inarrestabile e, parallelamente, cresce la disponibilità a discutere soluzioni legislative piú precise per chi ha deciso di collaborare, dopo che nel febbraio 1980 è stata approvata la cosiddetta legge Cossiga.
Si capisce quindi che Marco metta le mani avanti e già all’inizio dell’autunno cominci a preparare il terreno in vista dell’arresto, sentito in qualche modo come inevitabile, se non imminente. Alla metà di ottobre lui e un altro latitante concedono una intervista al «Nouvel Observateur» in forma anonima: si sa che è lui a parlare solo al momento del suo arresto, quando «Lotta continua» decide di pubblicarne ampi stralci rivelando l’identità di uno dei due intervistati11. L’incalzante botta e risposta si pone nei termini di una resa dei conti non solo nei confronti di Prima linea – che nell’estate si è espressa molto duramente contro Sandalo e anche contro Donat-Cattin12 – ma dell’esperienza della lotta armata in generale. Vi prevale, senza mezzi termini, la voglia di rompere con il passato che – dopo l’«infernale spirale in cui si è cacciato il terrorismo» – poggia sulla convinzione del tutto illusoria che la loro sia ancora una condizione reversibile. È un atteggiamento invero assai comune in chi ha i primi ripensamenti, nel quale una non piena consapevolezza del proprio passato e delle sue conseguenze si associa a una enorme stanchezza. C’è, forte, «la voglia e il bisogno di essere uno tra gli altri», «il bisogno di silenzio», in sostanza la necessità di riprendersi la propria vita, una volta che si è smesso di agire in nome degli altri e si è finito di riempire con gli attentati i vuoti della clandestinità.
Il ragionamento dei due latitanti si muove su due binari paralleli: da una parte la delusione per ciò che Prima linea è diventata rispetto alle origini; dall’altra, la convinzione che le responsabilità debbano essere condivise con tutti coloro i quali sono approdati al terrorismo dal ’68 passando attraverso la sinistra extraparlamentare e l’autonomia, oltre 10 000 terroristi di cui 3000 in carcere, si precisa. Il punto di non ritorno è individuato nell’affaire Moro, dopo il quale Prima linea non è piú riuscita a essere quel che aveva promesso, cioè una struttura clandestina al servizio delle lotte operaie e della conflittualità sociale, finendo per somigliare alle Br e per mimare il loro attacco al cuore dello Stato. La sproporzione e la crudeltà di alcuni attentati recenti – il riferimento è all’omicidio del militante di secondo piano William Vaccher, ucciso perché sospettato di aver parlato – è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. «La morte è divenuta un’abitudine», affermano, senza però con questo prendere fino in fondo le distanze dalla violenza, che è considerata inevitabile nell’Italia dei padroni, delle stragi e dei colpi di Stato. Quel che è fallito, precisano, è l’idea di creare una struttura militare piú sofisticata per sviluppare le lotte di massa e accelerare la storia.
Gli intervistati, pro domo sua, insistono sulla pervasività del terrorismo, diffuso anche tra i figli della borghesia; il che porge ai comunisti italiani l’occasione per rilanciare sull’«Unità», insieme alle accuse contro Cossiga e la Dc, il vecchio cavallo di battaglia sulla matrice borghese del fenomeno13. A fronte di queste ragioni, concludono i due latitanti, l’unica possibilità per interrompere la spirale degli ultimi mesi, dovuta anche alla delazione che alimenta l’odio e le frustrazioni, è in mano allo Stato.
Ancora piú ambiguo è il memoriale che Marco consegna al giornale francese di sinistra «Libération» con la precisa indicazione di pubblicarlo nel caso, altamente probabile, che sia arrestato. «Chi firma questo memoriale ha un nome piuttosto famoso, per merito o per colpa del quale è diventato una delle persone piú ricercate al mondo, con carichi giudiziari pendenti che pochi sono riusciti ad ottenere in uno spazio di vita cosí breve». Rispetto all’intervista, che non è firmata, il documento – apparso il 20 dicembre sul quotidiano di estrema sinistra francese – è scritto in prima persona e anche per questo concede poco o nulla sul piano delle ammissioni. Pur rivendicando una storia politica comune alla sua generazione, «limpida e chiara», si limita a riconoscere solo che «forse» è stata «talvolta condotta agli estremi»; parla di Prima linea come uno «spazio politico, talvolta armato», ben diverso dal partito combattente rappresentato dalle Br; si dichiara «contro ogni attuale forma di terrorismo ma anche ogni genere di delazione», rifiuta la «cosiddetta giustizia»; scagiona il padre (che dice di non vedere dal settembre 1978) e tutta la sua famiglia, negando di aver goduto di trattamenti di favore di alcun genere e precisando che fino al 1980 non era clandestino; senza mai nominarlo, condanna duramente Sandalo e tutti i pentiti: «sono sconvolto pensando di aver offerto amicizia e solidarietà a persone che mi hanno ceduto per un tozzo di pane o forse per la loro futura libertà».
Il memoriale è preceduto da una cartella scritta a mano, in stampatello, che suona ancora piú proterva, perché sconfessa i «criteri di questa giustizia», ma allo stesso tempo pretende una sorta di condono generalizzato, chiedendo che «un numero notevole di compagni» possa riprendere il proprio posto di lotta «senza obbligarli ad essere clandestini», «senza naturalmente vendersi al potere» o «marcendo in galera»14. Al di là dei toni, che non favoriscono certo il dialogo, il giovane Donat-Cattin tocca un problema molto serio, che costituirà uno dei nodi del dibattito sull’uscita dall’emergenza.
Ampia è la risonanza che ha l’arresto di Marco Donat-Cattin. I giornali frances...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Abbreviazioni e sigle
  5. Il figlio terrorista
  6. PARTE PRIMA. Il dramma di una famiglia e di un Paese
  7. PARTE SECONDA. Storia di Marco
  8. Il libro
  9. L’autrice
  10. Copyright