Le grandi terre del largo
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Le grandi terre del largo

  1. 448 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Le grandi terre del largo

Informazioni su questo libro

Livy e Cheyenne sono sorelle a metà. Le accomunano un padre biologico snaturato e un fratello adottivo ufficioso. La donna che le ha cresciute entrambe, una pugnace appassionata di I Ching e New Age, è la madre naturale di una sola di loro. Quale, non lo sanno, ma giunte ormai all'età di trentatre anni hanno intenzione di scoprirlo. Inizia per loro un viaggio picaresco e travagliato che, toccando tutti i punti cardinali di un'America povera ma generosa - la California e la Carolina del Nord, i deserti meridionali e i mari d'Alaska -, le porterà a prendere il largo fisicamente e spiritualmente.

Trentatre anni fa Kirsten, appassionata di magia e affini, ha avuto una figlia. Un'altra, l'ha vinta con un tiro di monete e l' I Ching; quale delle due sia l'una e quale l'altra non ha mai voluto rivelarlo. Ora Livy e Cheyenne delle sue storie fumose sono arcistufe: scorgendo la possibilità di scoprire la verità sulle loro radici, le due donne salgono in macchina, pronte ad attraversare gli Stati Uniti da Seattle a Boston alla volta del Tempio del fiore di fuoco. Comincia cosí l'avventuroso romanzo di Vanessa Veselka, un on the road al femminile in cui la storia personale di tre donne diversissime si intreccia alla dura realtà di una nazione che attira stranieri da tutto il mondo, abbacinandoli con il mito del sogno americano, e intanto lascia indietro i suoi, costretti a rimandare a tempi migliori persino una visita dal medico. Presto le strade delle due sorelle si dividono: Livy, piú quadrata, va in Alaska a sudarsi un po' di sicurezza economica pescando salmoni e granchi; Cheyenne, piú mistica, continua da sola la sua ricerca di risposte e, benché ancora non ne sia cosciente, di pace interiore. Kirsten, nel frattempo, è a casa ad affrontare i suoi problemi a testa alta, come ha sempre fatto. Per fortuna anche tra chi tira la cinghia c'è gente generosa: quando le cose si mettono davvero male, Livy trova un sostegno nella volontaria idealista di un centro antiviolenza, Cheyenne nel fratello avviato a diventare marine e Kirsten nell'ostetrica battagliera che anni prima l'ha liberata dai condizionamenti di un coercitivo mondo a tinte pastello.

«Che magnifico esemplare, questo romanzo. Avvincente. Originale. Capace come pochi altri di comprendere la povertà americana».
Roxane Gay «Arguto, epico, strepitoso».
Emma Donoghue
«Un libro geniale e senza paura».
Nathan Hill «Le grandi terre del largo mi ha ricordato cosa puòfare un grande romanzo: l'epopea marinara di Veselkaha lo slancio di una grande avventura e la profonditàdi un nuovo mito».
Karen Russell

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
Print ISBN
9788806251178
eBook ISBN
9788858438923
Libro quarto

A monte

E lo scatto del timone e il canto del vento e il tremito della vela bianca,
e una foschia grigia sul volto del mare, e il nascere di un’alba grigia.
Componimento di John Masefield, cantato a squarciagola dalla guardia di dritta della Neva ricostruita quando trema di freddo sul ponte in attesa del mattino
Capitolo quarantacinquesimo

Onde e luce

Sulla testa di sbarco – non molto lontano dal fiume Roanoke e dall’isola di Hatteras, un posto di fantasmi – lo spettro di Sir Walter Raleigh guarda a est, intrappolato in un loop temporale. Tutte le notti fugge dalla colonia perduta e salpa per El Dorado. Infatti, se inspirando aveva benedetto la Compagnia delle Indie orientali, espirando la regina vergine aveva concesso a Raleigh una patente prendere o lasciare per il Nuovo Mondo. «Va’ a est, giovanotto, va’ a ovest. Va’ dove diavolo ti pare».
Dietro di lui, in direzione di Jacksonville lungo le strade della Carolina del Nord, si trova Camp Lejeune, dove migliaia di soldati si affrontano in scaramucce quotidiane. La base è sede della seconda divisione del corpo dei marines, creata a metà del ventesimo secolo, quando il nascente impero avvertí il bisogno di una guardia del corpo. Concepita alla Casa Bianca, nata nelle Filippine, istruita a Panama, a Cuba e Guadalcanal, la divisione fornisce forze di terra al Nordafrica e al Medio Oriente.
Ultimamente Raleigh ha preso l’abitudine d’indossare una ghirlanda di tabacco intorno al collo e di portare con sé la ciocca bionda di una bambina. In lontananza, al largo della Carolina del Nord, fabbriche di balenieri simili a navi puntano verso Capo Horn. Andando sempre piú in profondità e piú lontano via via che il picco del petrolio si avvicina, salpano per le grandi terre del largo. Scalzo, Raleigh affonda le dita nella sabbia oleosa. Con la spuma che gli arriva alle caviglie, sussurra il suo mantra: «Non sono punibile. Non sono punibile».
Intorno a lui, sulla spiaggia, i marines si esercitano per gli sbarchi notturni su coste straniere. L’estuario che circonda in parte Camp Lejeune è considerato ideale per addestrare unità d’assalto anfibie. Peccato che conquistare e riconquistare la testa di sbarco per quarant’anni abbia avuto un prezzo involontario. Benzene e sgrassatore per motori hanno inquinato l’acqua potabile del campo, portando a difetti congeniti, tumori e cause legali. Mentre l’oro cura l’impotenza, l’alcolismo e la povertà, e le balene curano l’oscurità e le macchine, non esistono antidoti contro l’avvelenamento da benzene.
John A. Lejeune esce dall’acqua seguito dai tuscarora, in forma prima di cresta d’onda e poi di schiuma sulla sabbia. Raleigh si tramuta in lucciole. Lejeune distoglie i suoi occhi da solarium. L’uno, esploratore e inventore di marchi; l’altro, tutto logistica e risultati concreti.
Alla fondazione delle colonie, gli indigeni tuscarora fuggirono a nord, scomparendo come forza, ma non per sempre. Cent’anni dopo che la colonia della Carolina si era divisa in nord e sud, riaffiorarono nell’immaginario bianco sotto le sembianze della corvetta unionista USS Tuscarora. Quella proiezione segnò uno slittamento sottile nel nucleo morale del paese, che abbandonando il ruolo di fiero aggressore si ricollocò come centro vittimizzato del tormentato inconscio coloniale: «Non sono il cowboy, sono l’indiano. Non ho conquistato la collina. Quella città non è mia. Non sono coperto di sale».
Alla vigilia della guerra civile, l’USS Tuscarora fu mandata a intercettare la CSS Alabama, la nave corsara confederata che si sarebbe presto guadagnata una fama temibile e in onore della quale avrebbero battezzato le Alabama Hills, colline ora invase di gladiatori e cavalieri solitari. L’USS Tuscarora aveva ricevuto un ordine semplice. Affondare la CSS Alabama prima che attraversasse l’Atlantico: chi meglio dei tuscarora, infatti, ne comprendeva la necessità? Chi meglio di loro comprendeva il prezzo del fallimento? E se, una volta sbarcati, quei semi infestanti avessero conquistato e colonizzato l’intero giardino, diventando in seguito difficilissimi da estirpare? Tuttavia, l’USS Tuscarora fallí. Non fermò la CSS Alabama. Anzi, fu costretta anch’essa a fuggire a nord. In una delle sue infinite ricomparse, tuttavia, doppiò Capo Horn e raggiunse Valparaíso, dove incontrò fantasmi, soprattutto quelli delle tartarughe giganti delle Galápagos a cui i marinai della baleniera Essex avevano dato fuoco.
È assai probabile che il padre di John A. Lejeune, devoto capitano confederato, avesse gioito per il fallimento dell’USS Tuscarora, per quanto certe cose non sia dato saperle. Forse in cuor suo il vecchio Lejeune non si votò mai alla Confederazione quanto ai cuori di coloro che ci credevano: chi non farebbe per la persona amata cose che per se stesso non farebbe mai? Ad ogni modo, il vecchio Lejeune non trasmise alla generazione successiva la fedeltà alla Confederazione. Il marine per antonomasia John A. Lejeune, pur essendo figlio di un capitano confederato e nato in una piantagione del Sud, visse e morí in difesa dell’Unione.
Prestò servizio nella guerra ispano-americana, nei reparti di copertura, in seguito alla battaglia di San Juan. Combatté nella battaglia per la baia di Guantánamo, dopo la quale Cuba fu per breve tempo una colonia degli Stati Uniti. Comandò l’USS Dixie a Panama, quando gli Stati Uniti presero le redini della costruzione del canale. Uno che apriva le porte. Che parlava piano. Il grosso bastone… John A. Lejeune.
Nell’estate del 1905, ricordava Lejeune, l’USS Dixie cambiò rotta per dare una mano nella colonia francese di Algeria. Dovevano aiutare ad allestire una stazione di ricerca da cui si sarebbe osservata l’eclissi totale di sole. Lejeune arrivò ad agosto. Visitò la città di Bône, dove era avvenuto un cambiamento paradigmatico di forza e splendore. Grato di essere lí per imparare e non per massacrare, gironzolò da solo. Quelle erano le strade di Ippona che aveva calcato sant’Agostino. Agostino, che aveva osservato l’espansione e gli eccessi di Roma e aveva capito che il suo non era un destino divino, ma un glitch nella narrazione del divenire. Partendo dalla realtà concreta degli archi e dell’acquedotto, Agostino aveva costruito una città santa in cima alla collina, scolpita nel sale e nella luce, invisibile.
Un attimo prima dell’eclissi del 1905, gli scienziati controllarono gli strumenti. Ordinarono ai domestici algerini di stendere a terra le lenzuola per cogliere le ombre volanti. Poi l’eclissi incominciò. La temperatura calò di colpo. Una luce tremula danzò sulla biancheria e spettroscopi che molto dovevano alle teorie di Augustin-Jean Fresnel sulle onde e sulla luce catturarono la corona del sole. Strumento elegantissimo, lo spettroscopio, un semplice prisma. Un paio di specchi, una fessura in una scatola, eppure in grado di svelare gli elementi di radiazioni complesse. Per questo viene usato spesso nelle scuole per dimostrare la spettrometria. È un esperimento semplice. Prendete una candela usata. Mettete del cloruro di sodio nel pozzetto accanto allo stoppino. Poi guardatela bruciare attraverso lo spettroscopio. Nel buio apparirà una riga giallo acceso, fatta anch’essa di sale e di luce.
A differenza delle altre reclute, Essex e Jared si erano arruolati con un contratto aperto, pertanto non sapevano quale sarebbe stata la loro specialità. L’idea era di tirare i dadi per davvero, vedere cosa la sorte teneva in serbo per loro. Dopo la batteria di test attitudinali avevano aspettato i risultati. Forse i test avrebbero colto un insieme di capacità e predisposizioni che avrebbe delineato un nuovo sé. Spose in un matrimonio combinato, speravano che andasse tutto per il meglio.
Il test delle forze armate non aveva, però, riservato sorprese. Tutti e due avevano ottenuto punteggi alti in «Montare oggetti» e «Conoscenze elettroniche», e toppato invece «Scienze». Essex aveva superato a gonfie vele la sezione di «Competenza lessicale», salvo poi fare un pasticcio in «Espressione verbale». Il che, a pensarci bene, non era insensato. Aveva un’esperienza vergognosamente limitata nel dire quello che pensava in termini comprensibili al prossimo. Non era chiaro, tuttavia, se quello o qualunque altro dei loro tratti fosse stato determinante per il marine incaricato di attribuirgli una specialità. Furono assegnati entrambi alla fanteria. Jared come marine semplice. Essex come fuciliere.
Con le sue cento miglia quadrate di estensione, il complesso di Camp Lejeune era piú grande di Seattle. Essex era colpito dalla differenza del paesaggio della Carolina del Nord. Era molto piú selvaggio rispetto alle colline intorno a San Diego. L’umidità del Sud era un’esperienza senza precedenti. Era ottobre, ma non sembrava autunno. L’aria era bagnata, eppure le piante erano secche. I verdi e i blu scuri del Pacific Northwest lí non esistevano. Di grigio c’erano solo i marciapiedi. Gli alberi non erano né triangoli né lance, ma cespugli e mani. Batuffoli di cotone color cetriolino su erba riarsa, crescevano in boschetti o in filari artificiali lungo i viali a misura di carro armato della base.
Camp Geiger, la struttura satellite che sarebbe stata la sua prima casa nel complesso, si trovava dieci miglia a sud della base principale, dunque settantatre miglia a nord di Cheyenne.
Dopo essersi ambientato e aver cominciato l’addestramento, la maggior parte dei giorni Essex non pensava a lei. Si esercitava a pattugliare, a cadere in imboscate e a dormire sotto le stelle. Stava meglio sul campo che in caserma.
Di giorno s’impegnava a eccellere nell’anonimato. Quando aveva qualche ora libera, girovagava. A volte, mentre esplorava da solo i fossi e i ruscelli dei dintorni, lo spettro di John A. Lejeune lo accompagnava, chinandosi con lui a cercare gamberi di fiume nelle pozze scure sotto i massi. In sua compagnia Essex ritrovava se stesso. Alla base il livello era alto e difficile da raggiungere, ma il perché non era piú nelle sue mani. Ti manca?, chiedeva allo spettro. Ti manca non dover andare dove ti dicono? Ma lo spettro di John A. Lejeune si limitava a rabbrividire, bisbigliando: «La banda del presidente, la banda del presidente…»
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Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le grandi terre del largo
  4. Libro primo. Henry Hudson
  5. Libro secondo. La pesca
  6. Libro terzo. Slovacchia metal
  7. Libro quarto. A monte
  8. Libro quinto. Il mare
  9. Epilogo
  10. Ringraziamenti
  11. Il libro
  12. L’autrice
  13. Copyright