Nagori
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Nagori

La nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato

  1. 104 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nagori

La nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato

Informazioni su questo libro

Hashiri, sakari, nagori: sono questi i tre termini usati in giapponese per descrivere lo stato di stagionalità di un prodotto. Se i primi due sono di immediata comprensione e condivisi da numerose culture - indicano, infatti, rispettivamente il concetto di «primizia» e di «piena stagione» - nagori è un'idea intraducibile, che corrisponde a quella che si potrebbe definire una «retro-stagione». Un frutto di nagori, per esempio, si consuma al termine del suo periodo di maturazione, e si può quindi considerare di fine stagione. Per ritrovarne il sapore, bisognerà rassegnarsi al ciclo delle stagioni e attendere l'anno successivo: nagori allora è la nostalgia della stagione giunta al termine che ci lascia, e che siamo costretti a lasciare. Letteralmente «traccia», «presenza», nagori abbraccia un significato piú ampio. È l'atmosfera di qualcosa che non esiste piú, come quella di una casa che evoca il ricordo di coloro che l'hanno abitata; è ciò che rimane dopo il passaggio di una persona, di un oggetto, di un avvenimento; è il momento del saluto prima di una partenza, o di una separazione definitiva. È da qui, dal concetto di nagori e dalle sue implicazioni nel nostro rapporto con le stagioni, la natura e il tempo che prende le mosse l'affascinante riflessione di Ryoko Sekiguchi: ha ancora senso oggi parlare di «stagioni»? Le suddividiamo, delimitiamo, classifichiamo, desideriamo o trascuriamo continuamente, ma secondo quali criteri? Quante stagioni ci sono davvero in un anno, in una cucina, in una vita? Dal Giappone alla Francia - con un'importante tappa emotiva e culinaria a Roma -, tra memoir e poesia, racconto della natura e food storytelling, Nagori è una piccola guida letteraria alla scoperta di una visione tutta giapponese dell'arte e della gastronomia.« Nagori è anche ciò che si prova nell'arrivare alla fine di questo libro, che ci fa ritrovare in un vibrante stato di appetito e contemplazione».
«Grazia»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
Print ISBN
9788806252656
eBook ISBN
9788858438916
Copertina. «Nagori» di Ryoko Sekiguchi
Ryoko Sekiguchi

Nagori

La nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato
Traduzione di Giampiero Massano
Giulio Einaudi editore

Nagori

Prologo

Spesso i miei libri sul gusto scaturiscono da una frase, da una parola che mi arriva all’orecchio. Questa volta, è stata la frase di uno chef a darmi l’idea di scrivere un libro sulle stagioni.
Una sera, ormai diversi anni fa, mi trovavo in un bistrot in cui ero solita andare quando tornavo in Giappone. Adoravo accomodarmi al bancone, proprio davanti allo chef, Mitsuo Fujinaga, che doveva avere una sessantina d’anni. Ogni volta era uno spettacolo e una vera e propria lezione di cucina. Si diceva che lo chef avesse lavorato tempo addietro in un ristorante gourmet rinomato; poi però, forse per cucinare a modo suo in un luogo che gli assomigliasse, aveva aperto un bistrot popolare, sempre affollatissimo, in una zona periferica di Tōkyō. C’è da dire che i piatti che proponeva nel suo menu non solo erano invitanti, ma la ricercatezza degli abbinamenti gustativi rifletteva la solida formazione e la profonda cultura della persona che li aveva preparati. Del resto, quello che lui stesso mi raccontava lasciava trasparire una grande familiarità con la storia della letteratura culinaria. Un giorno ero seduta al bancone del bistrot Kyūshō, come sempre di fronte a Mitsuo Fujinaga, e mi fu servito un piatto di verdure che sembravano ormai fuori stagione. Intrigata, chiesi allo chef come mai e lui mi rispose: «Signorina, io sono molto piú anziano di lei, e non so se potrò assaggiare quest’ortaggio il prossimo anno».
Quando si parla di cibo, la questione della stagione è di primaria importanza. Che si debbano utilizzare e consumare prodotti di stagione va da sé. Ma cosa è, per l’appunto, un prodotto «di stagione»? Il prodotto cosí come lo troviamo al mercato? Quando compare per la prima volta nell’arco dell’anno; e in quale regione? Qual è la distanza che un frutto può percorrere perché si possa considerare «di stagione»? I tuberi e gli agrumi, che si conservano per mesi, a che punto del loro ciclo vitale non sono piú «di stagione»? In quale momento un certo tipo di pesce sarà «di stagione» e come si può fare a determinarlo? Il concetto di «stagione» può essere piú complesso di quanto non sembri.
Nei luoghi caratterizzati da stagioni climatiche distinte il concetto è piú che ovvio. Quello che spesso dimentichiamo è che la stagione entra in relazione col cibo solo nel momento in cui è possibile anticipare, ritardare, giocare con le stagioni. C’era una volta un tempo in cui potevamo procurarci solo quello che ci offriva la natura. Il «fuori stagione», allora, non esisteva. Si parlava piuttosto di «contro stagione», che indica non tanto ciò che si trova «al di fuori» della stagione, bensí ciò che è «contro natura», e di conseguenza inquietante, addirittura riprovevole. Le annate calde o fredde e i loro effetti sui raccolti, sulle messi o sulla vendemmia, anticipata o tardiva, cosí come sulle variazioni di resa, che possono rasentare la carestia, erano parte integrante del «ritmo della natura» e dei suoi rischi. Non potevamo che essere alla mercé delle stagioni.
Non è certo senza ironia che oggi sentiamo tanto predicare il rispetto delle stagioni in un’epoca in cui è teoricamente possibile coltivare frutta e verdura in qualunque periodo, ed esportarle ovunque nel mondo. Certo, questa raccomandazione ha un suo fondamento. Spesso però viene semplicemente concepita come un imperativo incontestabile, al quale bisognerebbe attenersi senza porsi domande. Come se si dovesse camminare al passo con le stagioni.
Eppure, le stagioni non sono affatto un metronomo o una siepe squadrata; per loro, l’idea di piantare i filari con un tiralinee, senza che un grappolo sia piú in alto degli altri, è del tutto estranea.
Spesso diamo una rappresentazione fissa alla durata delle stagioni, come se fossero regolate da un decreto o da un calendario scolastico; ma la stagione non rientra e non è mai rientrata in quest’ordine.
Paradossalmente, oggi comprare prodotti di stagione è diventato un lusso, considerando che questa denominazione esclude completamente prodotti surgelati, barattoli di conserve e coltivazioni industriali.
Pensiamo a tutti quei racconti per bambini e per adulti che narrano della ricerca di un prodotto fuori stagione: spesso è una questione di vita o di morte. Come mi diceva lo chef di Kyūshō, servire un ortaggio fuori stagione può essere un lusso di per sé. Dubitare di poter rivivere una determinata stagione significa già desiderare la stagione che non abbiamo ancora vissuto o voler prolungare quella appena terminata.
Alterare il corso delle stagioni, eludere la successione del tempo e delle epoche, sono l’espressione di una tipica fantasia di noi mortali, costretti a seguire il flusso del tempo che scorre a senso unico. Per la durata dell’assaggio, ci liberiamo della nostra temporalità. Desiderare un’arancia in piena estate è come desiderare di vivere fino all’inverno, rifiutare di fare del presente «l’ultima stagione».

1.

Quattro stagioni, ventiquattro stagioni, settantadue stagioni?
A volte consideriamo universali alcuni concetti che riteniamo essenziali alla vita e ci stupiamo quando scopriamo che non sempre lo sono. È il caso, per esempio, di nozioni quali «società», «libertà» o «amore», che esistono in giapponese solo dall’apertura del Paese nell’Ottocento, come concetti mutuati dalle lingue europee. Questa constatazione stupisce sempre i non giapponesi.
Allo stesso modo, quando viviamo in luoghi che conoscono l’alternarsi delle stagioni, tendiamo a dimenticare che non è cosí dappertutto.
Sono numerosi i Paesi in cui si alternano solo due stagioni: quella calda e quella fredda. O, ancora, due stagioni distinte dal tasso di umidità o dalla quantità di pioggia, oppure dalla temperatura (che ne è una conseguenza secondaria). Cosí per esempio nella savana tropicale abbiamo la stagione delle piogge e la stagione secca. Lo stesso vale per la stagione dei monsoni in Indonesia, Martinica o a Miami. Oppure questa caratteristica climatica può dare luogo a tre stagioni, come in Myanmar con la stagione fresca, quella calda e quella delle piogge; o nel Sud della Tailandia, con la stagione secca, la stagione calda e la stagione delle piogge.
Un tempo mi recavo regolarmente in Mali. A fine novembre, quando termina la stagione delle piogge, il sole brilla per tutta la giornata, la temperatura si alza gradualmente di giorno in giorno, quasi senza soluzione di continuità, la terra si inaridisce sempre di piú, il livello dei fiumi scende a poco a poco, il verde inizia a diradarsi, e, nell’arco di cinque mesi, il ciclo si compie; ecco che ritorna il primo giorno di pioggia. Dopo una iniziale pioggia torrenziale, la terra ritrova la freschezza e fanno capolino i primi germogli, fino a quando le precipitazioni, divenute troppo abbondanti, provocano un aumento dell’umidità e talvolta delle inondazioni.
A Bogotá, in Colombia, la temperatura non sembra mai subire cambiamenti. Oscilla in media tra i diciotto e i ventuno gradi per tutto l’anno, con nebbia due giorni su tre. Per sperimentare altre temperature e un’altra stagione, bisogna salire di quota e ritrovare le caratteristiche del clima di montagna. Piú si va su, piú la temperatura si abbassa e via via che si scende si incontra un clima piú mite. Niente di piú banale: è quello che ci viene insegnato a scuola nell’ora di geografia. Eppure, ciò non toglie che ci riesca difficile interiorizzarlo o, piú precisamente, integrarlo nel nostro corpo, nella nostra immaginazione concreta.
Per quanto riguarda le stagioni, abbiamo tutti questa tendenza un po’ limitata, che consiste nel concepirle solamente a partire dalla nostra esperienza personale. A tal proposito, del resto, ci si adatta con enorme fatica persino al cambiamento piú insignificante. Non è raro che un espatriato debba fare i conti, anche dopo diversi anni, con il clima del Paese che lo accoglie. Non è necessario aver lasciato, magari per esigenze professionali, la propria terra natale per averne nostalgia. Anche quando in un dato luogo la nozione e la sensazione di stagione, o addirittura la sua realtà climatica, sarebbero molte e varie, ci piace generalizzare e tenere a mente l’immagine delle stagioni che ci sono familiari.
Un giorno, la proprietaria di un albergo a un’ora e mezza da Kyōto mi ha detto: «Da noi la primavera arriva piú tardi che in città, perché qui siamo ai piedi della montagna e la temperatura è piú bassa. Ma i clienti di Kyōto dimenticano che in un’ora e mezza di treno il clima può cambiare, e si stupiscono di vedersi servire un piatto di verdure che credono già “fuori stagione”. Io mi scuso con loro chiedendo di essere indulgenti con la natura».
In Francia ci si scandalizza facilmente alla vista delle fragole a marzo, dei pomodori in inverno, o delle albicocche arrivate dal sud ad aprile. L’indignazione è perfettamente giustificata se si considerano il gusto insipido e le metodologie delle coltivazioni industriali, o anche l’inutile trasporto di frutta dall’estero. Ma in realtà, non si tratta forse di un sentimento di rifiuto quasi istintivo che ci prende alla vista di quei frutti «fuori stagione», proprio per via della specifica stagione a cui li associamo? Non c’è forse un sentimento di disagio nel vedere quel frutto uscire dal quadro in cui lo collochiamo nel nostro immaginario delle quattro stagioni?
L’ipotesi sarebbe facilmente dimostrabile semplicemente pensando ai frutti cosiddetti «esotici». Nessuno si scandalizza per la presenza costante delle banane nei mercati, e sono rari quelli che chiamano in causa l’impatto ambientale dei manghi o degli ananas, come si fa con le fragole e le ciliegie, o ancora quelli che rifiuterebbero di mangiarli «fuori stagione». Chi tra noi conosce la stagione del kiwi, o meglio chi se ne preoccupa? Esprimiamo un desiderio quando mangiamo il primo kiwi dell’anno? Spesso consideriamo il kiwi un frutto tropicale, eppure è abbondantemente coltivato in tutta Europa, anche in Francia; se è sempre presente nei mercati, è perché si conserva a lungo, per due o tre stagioni. Ma a questo punto, quindi, qual è la stagione del kiwi?
Il rapporto tra prodotto e stagioni è aleatorio e fortemente simbolico. Tutto avviene come se alcuni prodotti godessero dell’onore di essere regolati dalle leggi di una stagionalità rigorosissima (ciliegie, fichi, asparagi o piselli… in Francia spesso etichettati come frutta e verdura primaverili o estive: giovinezza delle quattro stagioni), mentre altri prodotti sono completamente privi di qualunque simbolismo stagionale (avocado, mele, banane, zenzero…) Chi sa distinguere le variazioni del gusto dell’avocado a seconda del periodo e della provenienza?
Si dice spesso che i giapponesi sono sensibili alle stagioni. I giapponesi stessi si vantano di questa qualità. Ci si entusiasma quando si viene a sapere che il calendario tradizionale giapponese prevede ventiquattro o addirittura settantadue stagioni, ognuna delle quali gode di una denominazione suggestiva legata al momento dell’anno a cui corrisponde. È un po’ come dire: piú stagioni ci sono, meglio è.
Va da sé che le stagioni del calendario non possono corrispondere esattamente alle stagioni della natura. In un calendario lunare come quello islamico, un anno si compone di 354 giorni, che slittano tutti gli anni. Questo non vuol dire che chi segue questo calendario non abbia una nozione di stagione. I calendari sono, per la maggior parte, associati a riti religiosi, a fenomeni astrologici e naturali, o a una combinazione di questi elementi. Le culture che hanno adottato il calendario agricolo tradizionale sembrano essere piú in sintonia con le stagioni.
Pare che il sistema giapponese – che divide l’anno in ventiquattro o settantadue periodi, quindi sempre sulla base di quattro stagioni, e che sembra sofisticatissimo – in realtà non sia nato in Giappone. Arriva dalla Cina, dove la sua creazione ha origine dalla necessità di voler correggere il calendario lunare che cambiava da un anno all’altro. In effetti, non è mai stato adattato al clima giapponese.
Non ha senso, ovviamente, valorizzare un calendario per via delle sue suddivisioni1. Se i francesi avessero conservato il calendario della Rivoluzione, ogni giorno sarebbe indicato con il nome di un frutto o di un animale!
Allo stesso tempo, bisogna ammettere che dare dei nomi evocativi di fenomeni naturali a queste innumerevoli stagioni ha contribuito allo sviluppo di una sensibilità legata ai minimi cambiamenti del tempo che passa. Alcuni di questi ventiquattro termini sono entrati nell’uso comune e vengono utilizzati ancora, per esempio, nelle lettere ufficiali. Del resto, le capitali storiche (Kyōto, Kamakura e Edo – oggi Tōkyō) godono di un clima temperato, con quattro stagioni ben distinte, favorevole alla produzione di tutta una letteratura legata alle stagioni.
La sensibilità nasce dalle parole: non potremmo percepire ciò che non ha nome. Se si dovesse riconoscere un primato, io direi senza dubbio che sono state la letteratura e la scrittura ad aver plasmato la coscienza e l’immaginario delle stagioni nei giapponesi. Nel...

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  2. Copyright