I mesi e i giorni sono eterni viandanti, e cosí gli anni, che vanno e vengono, sono viaggiatori. Per chi trascorre la vita su una barca, per chi invecchia tirando il morso del cavallo, ogni giorno è viaggio, e il viaggio è la sua casa. E molti antichi, un tempo, in viaggio sono periti. Io pure, da chissà quando, sono stato preso dalla brama di errare, invogliato da una nuvola sperduta sospinta dal vento, e ho vagato per le coste. Nell’autunno dello scorso anno, sono tornato alla mia catapecchia sulla riva del fiume, ho rimosso le vecchie ragnatele e ho accolto la fine dell’anno. All’arrivo della primavera, quando in cielo si alza la bruma, come posseduto dagli spiriti della tentazione, con l’animo in subbuglio, mi è venuta voglia di andare al di là della barriera di Shirakawa. L’invito al viaggio di Dōsoshin mi impediva di dedicarmi ad altro; ho rammendato le brache strappate, ho sostituito il cordoncino del copricapo di paglia, ho rinvigorito le ginocchia con la moxa e, ansioso di ammirare la luna a Matsushima, ho lasciato ad altri la mia casupola e mi sono trasferito nella dimora di Sanpū:
Per la capanna di paglia
è tempo di nuovi abitanti
forse casa di bambole hina.
Ho appeso il foglio che iniziava con questa strofa, la prima di otto, sulla colonna dell’eremo.
Nel settimo giorno della terza decade del mese yayoi, all’alba, «la luna che si attardava ancora nel cielo appariva chiara», la vetta del Fuji s’intravedeva appena e mi struggevo, domandandomi quando avrei rivisto i ciliegi di Ueno e Yanaka.
I miei amici piú cari si erano radunati dalla sera prima per accompagnarmi in barca. Scesi in un luogo detto Senju, avevo il cuore gonfio al pensiero di un viaggio di tremila ri. La vita è fugace come un sogno, come il crocevia d’addio dove abbiamo versato lacrime.
La primavera passa
triste il canto degli uccelli,
negli occhi dei pesci, lacrime.
Ho inaugurato il taccuino con questi versi, ma avanzavo a fatica, per la pena dell’addio. Chi ci ha accompagnato è rimasto sul posto, fermo in fila, e avrà vegliato su di noi finché le nostre figure di spalle non sono sparite dalla vista.
Quest’anno, il secondo dell’èra Genroku, l’idea di un lungo viaggio a piedi, lontano, nel profondo Nord mi ha colto all’improvviso, pur sapendo che in quelle terre remote i miei capelli avrebbero potuto farsi di neve. Con l’incerta speranza di tornare vivo da quei luoghi di cui molto avevo sentito parlare ma mai avevo visto con i miei occhi, il primo giorno sono arrivato appena a una stazione di posta chiamata Sōka. Sin da subito ho patito il peso del bagaglio sulle mie esili spalle. Sarei voluto partire spoglio, ma ho dovuto portare con me una veste di carta di riso per proteggermi durante la notte, una di cotone leggero, qualcosa per ripararmi dalla pioggia, inchiostro, pennelli e simili, e infine i doni ricevuti per il viaggio dai miei amici, che proprio non potevo gettare via. Mi erano d’intralcio, ma non avevo altra scelta.
Ho reso omaggio al santuario Muro no Yashima. Sora, il mio compagno di viaggio, mi ha raccontato la sua storia.
«La divinità a cui è dedicato il santuario si chiama Principessa Konohana Sakuya – Boccioli In Fiore Sull’Albero –, la stessa venerata al monte Fuji. Di fronte ai sospetti del marito, la principessa si barricò in una stanza chiusa e si diede fuoco: il figlio Hohodemi no Mikoto – Principe Nato Tra Le Fiamme – nacque sano e salvo nell’incendio, a dimostrare la fedeltà della donna. Ecco perché si chiama Muro no Yashima: muro come “sala”, “stanza” e yashima, “fornace”. Per questo molti poeti collegano a questo nome il fumo».
Inoltre, è vietato mangiare un pesce chiamato konoshiro. I dettagli di questa storia sono piuttosto noti tra la gente.
Il trentesimo giorno del terzo mese, ci siamo fermati a dormire ai piedi del monte Nikkō. Il padrone della locanda ci ha accolti con queste parole: «Il mio nome è Gozaemon il Buddha. Mi chiamano cosí perché l’onestà per me viene prima di tutto. Anche se il guanciale d’erba vi accoglierà per una sola notte, distendetevi e riposate». Ho osservato quest’uomo per cercare di capire quale buddha fosse disceso in questo mondo cosí torbido a offrire il suo aiuto a pellegrini mendicanti come noi. L’uomo era l’onestà fatta persona, privo di frivolezza o calcolo. «Essere inflessibile, risoluto, genuino e cauto nell’esprimersi: ecco come avvicinarsi alla benevolenza»: egli era cosí e degno di ammirazione era il suo animo, puro di natura.
Il primo giorno del quarto mese ho reso omaggio al monte sacro. Un tempo il nome del monte si scriveva Futara, ma quando il Grande Maestro Kūkai vi fondò qui un tempio, cambiò il suo nome in Nikkō, ovvero Luce Del Sole. Forse aveva previsto il futuro radioso di mille anni dopo, perché oggi la sua luce divina risplende ovunque e la sua grazia illumina l’intero paese: i quattro popoli vivono in serenità e regna la pace. E ora, con la dovuta reverenza, ripongo il pennello.
Quanta nobiltà!
Le foglie verdi, le foglie giovani
splendono alla «Luce Del Sole», a Nikkō.
Il monte Kurokami – Monte Dai Capelli Neri – era avvolto dalla foschia e s’intravedeva ancora la neve candida, a dispetto del nome.
Ho rasato il capo
e qui, al monte Kurokami,
ecco è tempo di cambiare abito.
Sora
Il cognome di Sora è Kawai, mentre il suo nome è Sōgorō. Viveva vicino al mio eremo all’ombra delle foglie piú basse del banano e mi aiutava con la legna e con l’acqua. Deliziato all’idea di ammirare insieme le vedute di Matsushima e di Kisagata, e al contempo per alleviarmi le pene del viaggio, ha deciso di venire con me. All’alba del giorno della partenza, si è rasato la testa, ha indossato la veste monacale nero inchiostro e ha cambiato i caratteri del suo nome Sōgo in altri che significano «Religiosamente Illuminato». Da qui sono nati i suoi versi composti al monte Kurokami e le parole «cambiare abito» mi sono parse particolarmente forti ed efficaci.
Salendo il monte per circa 20 chō c’è una cascata. L’acqua precipita volando dalla sommità di una grotta e ricade per cento shaku in una pozza del colore dell’acqua marina, circondata da mille pietre. Insinuandosi dentro la grotta, si può osservare la cascata da dietro, per questo il suo nome è Urami no Taki, Cascata Che Si Guarda Da Dietro.
Tempo di appartarsi
dritto sotto la cascata
inizio di un ritiro d’estate.
A Nasu, in un luogo chiamato Kurobane, vive un mio conoscente, cosí abbiamo imboccato una scorciatoia in mezzo ai campi per raggiungerlo. Si vedeva il villaggio in lontananza, ma lungo il tragitto ha iniziato a piovere ed è scesa la sera. Abbiamo cercato riparo per la notte a casa di un contadino e all’alba abbiamo ripreso il cammino per i campi. Ci siamo imbattuti in un cavallo al pascolo. Abbiamo chiesto aiuto a un uomo che falciava l’erba lí accanto, un uomo di campagna, di certo non senza cuore.
«E ora che farete? Le strade della campagna di Nasu sono intricate: i viaggiatori, non avvezzi, possono perdersi facilmente. Non sia mai. Prendete questo cavallo e rimandatemelo indietro dal posto in cui si fermerà».
Cosí dicendo, ci ha prestato il cavallo e due fanciulli ci sono corsi dietro: una era una bambina di nome Kasane. Un nome inusuale, dal suono dolce, cosí Sora ha composto questi versi.
Kasane,
il nome del garofano
carezza dai molti petali.
Sora
Poco dopo siamo giunti a un villaggio e da lí abbiamo rimandato indietro il cavallo, dopo aver legato del denaro alla sua sella.
Abbiamo annunciato il nostro arrivo a un uomo di nome Jōbōji, sovrintendente del castello di Kurobane. Lieto della visita inaspettata, abbiamo parlato insieme a lungo, giorno e notte. Il fratello minore, tale Tōsui, un uomo molto premuroso, ci ha fatto visita a tutte le ore e ci ha condotto a casa sua; siamo stati invitati anche dai suoi parenti e ci siamo fermati per qualche giorno. Una volta, mentre passeggiavamo alla periferia di Kurobane, abbiamo trovato i resti di una battuta di inuoumono; proseguendo attraverso il boschetto di bambú di Nasu, abbiamo visitato l’antica tomba di Tamamo no Mae. Infine, ci siamo recati a rendere omaggio al santuario dedicato al dio della guerra Hachiman. Mi sono molto commosso quando ho saputo che Nasu no Yoichi, prima di colpire il ventaglio nemico, rivolse le sue preghiere a «Shō Hachiman, divinità tutelare della mia terra», lo stesso venerato in questo santuario. Si è poi fatto buio e siamo tornati a casa di Tōsui. Lí vicino, c’era un tempio di montagna dedicato allo shugendō chiamato Kōmyō-ji: mi hanno invitato a entrare e ho pregato nel padiglione dedicato all’asceta En.
Sui monti d’estate
partendo
mi inchino ai sandali di legno.
Dietro al tempio Ungan, che si trova in questa provincia, ci sono i resti dell’eremo del monaco Bucchō, il mio Maestro zen.
Una capanna d’erba
lunga e larga
non piú di cinque shaku
fastidiosa da intrecciare
almeno non piovesse!
Una volta, il Maestro mi ha detto di aver scritto questa poesia con carbone di pino su una pietra. Mentre camminavo verso l’Ungan-ji, reggendomi al bastone, per vedere questi resti, in tanti si sono uniti a noi, tra cui molti giovani: procedendo in allegria, siamo giunti ai piedi della montagna senza rendercene conto. I monti occupavano tutta la vista, il sentiero a valle proseguiva in lontananza; tra i pini e i cedri, folti e scuri, c’era muschio in abbondanza. Nonostante fosse l’inizio dell’estate, il cielo era freddo. Al termine delle dieci vedute dell’Ungan-ji, attraversato un ponte, abbiamo varcato il portale. Ci siamo inerpicati su un’altura dietro al tempio alla ricerca dei resti: sopra a una pietra ho trovato una piccola capanna, appoggiata a una grotta. Sembrava di avere davanti agli occhi la grotta con l’insegna Shikan – Barriera Della Morte –, dove perí il monaco Yuanmiao, o l’eremo in pietra del monaco Fayun.
Persino i picchi
non colpiscono l’eremo
tra gli alberi d’estate.
Ho scritto questi versi d’istinto e li ho lasciati appesi a una colonna dell’eremo.
Ci siamo poi diretti verso le Sesshōseki – Pietre Assassine. Ci ha accompagnati un cavallo prestatoci dal sovrintendente del castello. L’uomo che lo conduceva mi ha chiesto di poter avere un tanzaku. Colpito dalla raffinatezza della sua richiesta, ho composto per lui questi versi:
Accanto ai campi
ferma il cavallo!
Canto di cuculo.
Le Pietre Assassine si trovano in montagna, nei pressi delle fonti termali. I fumi mefitici che emergono dai sassi non si sono ancora estinti: api, farfalle e altri insetti morti formano un tappeto cosí fitto da coprire il colore della sabbia sottostante.
Il celebre salice presso cui «scorreva acqua cristallina» si trova qui, nel villaggio di Ashino, lungo un sentiero tra le risaie. Un capodistretto un tempo mi disse che avrebbe tanto voluto mostrarmelo: mi chiedevo dove mai si trovasse e oggi, finalmente, posso fermarmi all’ombra delle sue fronde.
Seminata l’intera risaia
ora di andare
il salice resta.
Dopo giorni di inquietudine, giunto alla barriera di Shirakawa, lo spirito del viaggio si è fatto in me piú saldo. Non stupisce che qui il poeta abbia desiderato mandare notizie «alla capitale». Questa di Shirakawa è una delle tre famose barriere del profondo Nord e ha attirato l’attenzione di raffinati letterati. Nelle orecchie, udivo il riverbero del vento d’autunno e negli occhi avevo l’immagine degli aceri rossi, sicché le foglie verdi sulle cime dinanzi a me erano ancora piú struggenti. Ai candidi fiori di deutzia si affiancavano le gemme bianche dei rovi e sembrava di passare nella neve. Kiyosuke intinse il pennello per narrare di come gli antichi si sistemassero il copricapo e si cambiassero d’abito prima di passare da qui.
Nel passare la barriera
come nuove vesti
fiori di deutzia tra i capelli.
Sora
Superata cosí la barriera di Shirakawa, abbiamo proseguito attraversando il fiume Abukuma. Sulla sinistra, si ergeva alto il monte Aizune, mentre sulla destra si susseguivano i villaggi di Iwaki, Sōma e Miharu. Una fila di monti segnava il confine delle province di Hitachi e Shimotsuke. Sono passato per Kagenuma – Stagno Specchiante –, ma il cielo era nuvoloso e non si scorgeva alcun riflesso. Giunti alla stazione di posta di Sukagawa, abbiamo fatto visita a un uomo di nome Tōkyū, che ci ha ospitato per quattro o cinque giorni. Innanzitutto mi ha chiesto: «Com’è stato attraversare la barriera di Shirakawa?»
«Stanco nel corpo e nell’anima per il lungo viaggio, ero completamente rapito dal paesaggio, con il cuore cosí gonfio al pensiero del passato da non riuscire a pensare a nulla. Ma sarebbe stato un peccato attraversarlo senza comporre neppure un verso.
Ha inizio la poesia
del profondo Nord
canto di risaia».
Cosí gli ho detto e insieme abbiamo composto un’altra strofa, poi una terza e cosí di seguito, fino a riempire tre rotoli.
Nei pressi di questa stazione di posta, all’ombra di un grande castagno, vive un monaco che si è allontanato dalla vita mondana. In silenziosa contemplazione, ho riflettuto che vivere «tra i monti [...] cogliendo castagne» doveva essere simile e ho scritto queste parole...