Ho spesso incontrato poesie che predicevano cose che mi sarebbero successe.
Davvero cari, da una poesia di Giorgio Bassani, era il titolo di lavoro del romanzo che poi diventò L’amore che ti meriti, una storia ambientata a Ferrara, la mia città.
Era un titolo molto piú bello, e soprattutto era il suo titolo, ma mi venne il dubbio che fosse troppo oscuro, e lo cambiai con uno piú banale.
In tutto ciò che scrivo spuntano citazioni o versi di poesie che ho incontrato e non ho dimenticato.
Alcune sono famose, altre meno, alcune forse non sono neanche tanto belle (Natalia Ginzburg considerava Bassani scarso come poeta), ma ciascuna mi ha rivelato e anticipato, molti anni prima, cose importanti che sarebbero accadute.
L’arte fa cosí: svela le nostre paure e i nostri desideri prima che – a volte disgraziatamente, come scrivevano Maugham e, prima di lui, Rilke – si avverino, come capitò a me con la copertina immaginaria di Djuna Barnes.
Davvero cari di Giorgio Bassani per me parla di quegli autori, quei romanzi e quelle poesie che nella mia lunga attrazione per il buio – attraverso quali | strade cosí di lontano – ho riconosciuto e amato come si riconoscono e amano dei fratelli.
E di come da un posto buio si possa – anche dopo talmente tanto tempo – ritornare:
Davvero cari non saprei dirvelo
attraverso quali
strade cosí di lontano
io sia riuscito dopo talmente
tanto tempo a tornare.
Vi dirò soltanto che mi lasciai
pilotare nel buio
da qualcheduno che m’aveva
preso in silenzio per la
mano.
Quel qualcuno, sul quale tanto mi interrogai, era Dio? L’amore? La vita?
Oggi penso di essere io.
«La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre», diceva Giovanni l’evangelista.
Ora che non ho piú il culto della malinconia e che mi sento libera di preferirla, la luce mi sembra persino piú intelligente, mentre una volta credevo fosse superficiale e sfottevo il mio fidanzato pisano, quello che preferiva i ristoranti vetrati, dicendogli: «Beato te che non capisci una sega».
Avevo pensato di scrivere attorno ai libri che mi hanno rovinato la vita senza fare verifiche, lasciando che fosse la memoria, da sola, a far emergere i ricordi, come bolle d’aria sulla superficie di un lago, ma poi non ho resistito, sono andata a controllare certe date e ho scoperto che la memoria scrive una storia sua.
È la nostra vera storia o è un inganno?
Quello che veramente ami rimane,
il resto è scorie.
Quello che veramente ami non ti sarà strappato.
Quello che veramente ami è la tua vera eredità.
Sono versi della poesia di Ezra Pound che avevo copiato sul diario l’ultimo anno di liceo, e che mi consolavano come la fragola di Celestino.
Avevo abbandonato il giardino assolato, ma speravo – o intuivo – che quello che veramente amavo alla fine mi avrebbe salvata.
I romanzi russi li ho letti piú o meno tutti tra i dodici e i sedici anni, come i classici francesi. Ma non fu Dostoevskij a segnarmi per sempre, e neanche Gogoľ o Puškin o Lermontov.
Ognuno ha il suo demone russo: il mio fu quello di Sologub.
A fregarmi fu quel libro maledetto, Il demone meschino: «forse il piú celebre romanzo russo della sua epoca, pagano e morboso, visionario e realistico», come lo definisce Renato Poggioli in Il fiore del verso russo.
Il titolo viene da Puškin.
Mefistofele dice a Faust: «Io, demone meschino, mi dimenai», e si comincia a tremare.
Non c’è niente di eroico o consolatorio nel Demone di Sologub. C’è solo meschinità, invidia, follia e squallore: un mondo malefico dove Peredònov, professore di provincia con manie di persecuzione, finisce per commettere un delitto insensato.
Ho letto da poco una nota di Sologub in cui diceva: «No, miei cari contemporanei, è per parlar di voi che ho scritto il mio romanzo sul Demone meschino […] di voi!»
Io lo avevo capito a tredici anni. Diedi fuoco a del profumo dentro una scatolina di metallo – che ho qui davanti a me mentre scrivo, restituita da un’onda alla spiaggia dei miei traslochi – per evocare l’incenso odiato da Peredònov, il laido professore che trafficava con la polvere, il veleno, le erbe malefiche, il fumo e le maschere, ma non bastò a proteggermi.
Ero turbata. Peredònov era uno sfigato, un malvagio repellente e pazzo, eppure mi diceva qualcosa della natura umana che fino ad allora non avevo nemmeno sospettato, ma che intuivo possibile, anzi vero.
L’Inafferrabile correva sotto le sedie e per gli angoli e squittiva. Era sudicio, puzzolente, odioso e terribile. Era chiaro ormai che era ostile a Peredònov.
Altro che fiorellini e farfalle, altro che simpatici vagabondi e orfani coraggiosi. C’era il demonio, dentro ognuno di noi, e soprattutto dentro di me: c’era L’Inafferrabile, «la Nedotỳkomka grigia», come la chiama Sologub.
Questa consapevolezza mi terrorizzò ma piú ancora mi affascinò.
In Peredònov non c’era pentimento né redenzione. Smisi di andare in chiesa, di comunicarmi e di pregare.
Il Diavolo era piú interessante di Dio e persino piú del mio amico Gesú.
Pur avendo chiara – e di prima mano – la distinzione che bisogna fare tra l’opera e l’autore, so dalle sue poesie quanto Sologub amasse soffrire.
Eccolo che si identifica in una cagna solitaria che parla alla luna nel gelo della notte:
Sta la luna come un disco
su nell’aria.
Io stanotte illanguidisco
solitaria.
Non abbaia piú nessuna
mia compagna.
Gela al lume della luna
la campagna.
Soffriva la solitudine, ma la preferiva alla compagnia:
Non amo incontrar qualcuno
sulla mia via.
Solo col vento è gradevole
avviare un discorso.
Il tragitto da percorrere
senza gente è piú gradito.
Ogni sguardo che incontro
è un coltello nel cuore.
Ma la sua poesia che mi fa piú paura è L’altalena del diavolo:
Nella boscaglia spessa,
sopra un torrente in piena,
il diavolo non cessa
di scuoter l’altalena.
[…]
Io soffro dondolando
– in su, in giú –
– in su, in giú –
m’afferro spasimando,
e tento a quando a quando
di non guardarlo piú.
La cupola serena
mi guarda e dice a me:
tu sei sull’altalena
e il diavolo è con te.
Un’immagine degna di un film dell’orrore, o di una diagnosi di disturbo bipolare.
Fëdor Kuzmič Tetèrnikov, che prese lo pseudonimo di Sologub, era nato il 17 febbraio, tre giorni dopo di me e due prima di Gabriele Münter – la pittrice tedesca compagna di Kandinskij del mio romanzo Oggi faccio azzurro – ma quattordici anni prima di lei, a San Pietroburgo, nel 1863.
Suo padre, figlio illegittimo di una serva della gleba e di un proprietario terriero, sparí quando lui aveva quattro anni. La madre faceva la domestica ed era molto autoritaria. Lo picchiava, gli vietava di portare le scarpe, chiese addirittura al direttore della scuola dove Sologub era maestro elementare che potesse far lezione a piedi scalzi. Questo dettaglio non sono riuscita ad approfondirlo – non so se si trattasse di una faccenda religiosa, qualcosa che aveva a che fare col sentire sotto i piedi la Madre Terra, o di una punizione, ma fa comunque pensare.
Come puoi stare se tua mamma, quando hai venticinque anni, va a chiedere al tuo capo il permesso di farti andare al lavoro senza scarpe?
La disgraziata morí quando Fëdor aveva appena pubblicato Il demone meschino. Era il 1907.
Lo spirito dell’opera e Peredònov rispecchiavano cosí tanto i tempi – evidentemente orribili – che Il demone meschino ebbe un grande successo e la critica russa dell’epoca inventò il termine di «peredonovismo».
Nel 1908 Sologub sposò la scrittrice e traduttrice Anastasija Čebotarevskaja, che aveva conosciuto mentre curava un’antologia critica dedicata a lui. In un certo senso Anastasija era una sua fan, come la seconda moglie di Dostoevskij, anche se era piú colta di Anna Grigor’evna Snitkina, che incontrò il quarantacinquenne Fëdor Dostoevskij a vent’anni, facendogli da stenografa.
Tredici anni dopo il matrimonio con Sologub, Anastasija si suicidò gettandosi in un affluente della Neva.
Il corpo fu ripescato solo in primavera, col disgelo.
Sologub, che oltre alla madre aveva perso anche l’amata sorella Olga, si chiuse in un silenzio assoluto. Sei anni dopo, nel 1927, l’Agenzia Tass diffuse la notizia della sua morte in quella che allora era Leningrado.
Aveva sessantaquattro anni e una delle poche cose che sappiamo della sua vita in quegli anni di isolamento è che, fino a quando il corpo della moglie non venne ripescato, la sera continuò ad apparecchiare la tavola anche per lei.
Anche Djuna Barnes, come Fëdor Sologub, a un certo punto della vita si ritirò dal mondo.
Lei che negli anni Venti e Trenta aveva animato i salotti letterari d’avanguardia, adorata da artisti e mecenati sia a New York, la sua città, che a Berlino e a Parigi, lei che fu una protagonista di quella generazione perduta di cui facevano parte Hemingway – che mise in esergo a Fiesta la dichiarazione: «Siete tutti una generazione perduta» di Gertrude Stein – e Fitzgerald, Eliot, Pound, Henry Miller, a un certo punto si isolò.
Era stata la piú brillante, la piú mondana, la piú eclettica delle intellettuali.
L’intervista-ritratto che fece a Parigi per «Vanity Fair» al suo amico James Joyce, qualche mese dopo la pubblicazione dell’Ulisse, è straordinaria.
Si incontrarono al caffè Le Deux Magots. Lui portava un panciotto viola con teste di cane e di cervo, fatto da sua nonna, lei una cascata di perle. Joyce le disse: «Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro… non c’è una sola riga seria lí dentro», e le regalò la copia originale, con le sue note.
Una quindicina di anni dopo (e due dopo la pubblicazione della Foresta della notte) Djuna Barnes torna per sempre a New York, si stabilisce al Greenwich Village e vive chiusa in una bolla di mistero e solitudine per quarant’anni.
Quaranta lunghi anni in cui scrive poesie, pubblica qualche raro racconto sulle riviste letterarie, incontra pochi amici e lavora a un’opera stranissima, sperimentale – un misto di tragedia greca e dramma elisabettiano – che intitolerà The Antiphon.
La foresta della notte oggi è considerato da molti un capolavoro minore della letteratura americana del Novecento, da altri un capolavoro assoluto della letteratura queer, e da qualcuno, come Alberto Arbasino, una mezza schifezza.
Dylan Thomas lo definí «uno dei tre grandi libri di prosa scritti da una donna», T. S. Eliot scrisse di «una qualità di orrore e di fato strettamente imparentata con quella della tragedia elisabettiana». Piacque a Truman Capote, a Elémire Zolla che lo portò in Italia, a Cristina Campo, che chiamava Djuna Barnes «genio famelico» e la tradusse, persino a David Foster Wallace.
Mentre il nostro Eugenio Montale la considerava «una spugna di acido prussico».
Infine Alberto Arbasino, che in America amore la distrugge.
La definisce «una manicure del surrealismo» e la sua prosa «un manufatto artefatto». Scrive che Djuna Barnes «crede di lavorare con lapislazzuli e malachiti, mentre ha in mano soltanto fondant con la mentina e un mezzo bicchiere di Cointreau».
Quando l’ho letto mi sono sentita vendicata.
Cosa accadde nella vita di Djuna Barnes? Perché, dopo una giovinezza sfrenata e cosmopolita, si chiuse in casa a quarantasette anni, come una Greta Garbo della letteratura?
Tra le sue foto di quando faceva vita di società, elegantissima, truccatissima, con in testa piccoli cappelli a cloche e avvolta in giacche maschili sopra sontuose camicie bianche e una cascata di giri di perle al collo, ce n’è una che mi ha colpito.
È del 1922, l’anno dell’intervista a Joyce. Lei ha trent’anni, ed è ritratta sul ponte del transatlantico SS La Lorraine in una delle sue frequenti traversate dall’Europa a New York. Sul tailleur indossa un mantello scuro con un collo di pelliccia, in una mano tiene una borsa da sera e nell’altra un lungo bastone bianco da passeggio. È l’immagine degli anni Venti, degli artisti dediti all’alcol, ai viaggi, ai tradimenti e all’avventura. Sembra un personaggio di Tenera è la notte di Fitzgerald, o di Midnight in Paris di Woody Allen, dove infatti compare, a una festa, mentre balla il charleston scatenata insieme a Owen Wilson.
Quando le scattarono quella fotografia sul ponte del transatlantico (tra l’altro era l’ultimo viaggio della La Lorraine prima che venisse rottamata: se si ha a che fare con Djuna Barnes non c’è fine al pathos) aveva da poco incontrato Thelma Wood.
Dopo tante relazioni «effimere e sublimi» – a diciotto anni aveva sposato il fratello cinquantenne dell’amante di suo padre, a ventuno si era messa con una baronessa che faceva performance dadaiste, poi altro ma...