Quando una stella esplode in una supernova, una nube di gas incandescente viene scagliata attraverso lo spazio a una velocità di migliaia di chilometri al secondo. Nel 1940, Enrico Fermi teorizzò che il campo magnetico prodotto al confine dell’esplosione fosse in grado di accelerare i nuclei atomici espulsi dalla stella morente a velocità prossime alla velocità della luce. All’interno delle galassie, lo spazio è permeato da una miscela di gas, ioni e polveri conosciuto come mezzo interstellare; questa sostanza, la cui esistenza è responsabile della nascita di nuove stelle, è percorsa da campi magnetici la cui origine è ancora quasi del tutto sconosciuta. Quando raggiungono la terra, dopo aver viaggiato per migliaia di anni luce seguendo il cammino contorto dettato dai campi magnetici del mezzo interstellare, i nuclei accelerati dalle supernove collidono con gli atomi dell’atmosfera, generando una pioggia di particelle atomiche e subatomiche a energia decrescente. Per effetto di questi eventi remoti, il nostro pianeta è continuamente irraggiato da una cascata di particelle ionizzanti che conferiscono all’atmosfera una conducibilità elettrica di fondo. Nel 1912, Viktor Hess, un fisico dell’Istituto di ricerca sul radio di Vienna, intraprese una serie di esperimenti per determinare l’origine della conducibilità atmosferica, che a quel tempo era attribuita all’effetto della radioattività naturale della terra. Con una serie di viaggi in mongolfiera, che lo condussero a piú di cinque chilometri al di sopra della superficie terrestre, Hess osservò con il suo elettroscopio che la conducibilità dell’aria aumentava all’aumentare dell’altezza, verificando l’origine extraterrestre della radiazione e dimostrando per primo l’esistenza dei raggi cosmici.
Nell’estate del 1937, Hertha Wambacher, la piú stretta collaboratrice di Marietta Blau, stava investigando al microscopio le lastre fotografiche che lei e Marietta avevano esposto a 2300 metri di altitudine per cinque mesi consecutivi sul monte Hafelekar, a nord di Innsbruck, quando si imbatté in una traccia che non aveva mai visto. Prima della nascita degli acceleratori di particelle, soltanto i raggi cosmici potevano veicolare un’energia sufficiente per consentire l’osservazione del comportamento della materia al di fuori delle condizioni ordinarie, aprendo la possibilità di osservare le componenti piú fondamentali che la costituivano; ma la registrazione delle traiettorie delle particelle e la determinazione della loro natura era stata complicata dalla sporadicità degli impatti, che rendevano i metodi di rilevazione convenzionali, come la camera a nebbia, gravemente inadeguati. Il metodo fotografico di Marietta aveva permesso di condensare su un unico supporto materiale diversi mesi di esposizione, rendendo possibile la cattura di eventi rimasti prima di allora inosservati. La traccia che le due scienziate avevano scoperto era la testimonianza di uno di questi. «Da un singolo punto all’interno dell’emulsione si allontanano diverse tracce, alcune dotate di lunghezza considerevole», scrivevano Blau e Wambacher nella loro comunicazione alla rivista «Nature». «Crediamo che il processo in questione sia la disintegrazione di un atomo nell’emulsione (probabilmente Ag [argento] o Br [bromo]) per mezzo di un raggio cosmico. La sua caratteristica piú rilevante è l’emissione simultanea di cosí tante particelle pesanti con traiettorie cosí lunghe, che esclude ogni confusione con le “stelle” dovute alla contaminazione radioattiva. Una simile configurazione di traiettorie per effetto del caso è ugualmente fuori questione»1. Questi eventi furono ribattezzati Zertrummerungssterne, stelle di disintegrazione.
Nel suo testo La camera chiara, Roland Barthes riflette sul suo rapporto emotivo con la fotografia. La sua relazione sofferta con l’immagine fotografica lo costringe a rinunciare a trattarla come una semplice rappresentazione, proponendosi di «approfondirla non già come un problema […] ma come una ferita»2. La fotografia ha un rapporto privilegiato con il corpo che raffigura perché costituisce una testimonianza della sua presenza passata, ricordandoci allo stesso tempo della sua assenza presente. Nella fotografia, gli oggetti non sono semplicemente riflessi: attraverso una catena di effetti fisici, la superficie del corpo fotografato resta intrappolata per sempre nella matrice dell’immagine. È come se l’immagine fotografica riuscisse a catturare un’emanazione sottile dei corpi, una sostanza non del tutto materiale che li accompagna attraverso la loro esistenza nel mondo. Pur nella loro fondamentale distanza dall’idea convenzionale di fotografia, nel corso della mia vita le fotografie scientifiche hanno esercitato su di me un fascino che ho sempre faticato a spiegare, come se la loro natura spettrale fosse accresciuta dal fatto che tutto ciò che hanno di umano è rimasto confinato fuori dall’inquadratura.
Forse è la percezione che ho di tutto lo studio, la fatica e l’entusiasmo che hanno preceduto quel singolo istante cristallizzato nell’argento. Ma nella fotografia della stella di disintegrazione di Marietta mi colpisce un’altra forma di profondità. Le tracce che si dipartono dall’atomo frantumato solcano lo spazio dell’immagine in tutte le direzioni, rivelando la tridimensionalità nascosta del mezzo fotografico. Le impurezze scure dell’emulsione annebbiano il campo visivo mentre i raggi della disintegrazione atomica sembrano trascinarle verso lo spettatore come i detriti di un’esplosione. In modo quasi precosciente (la fotografia mi parla nella lingua di un messaggio apparso in sogno) intuisco che nell’immagine agisce una rete di simmetrie dolorose e irreversibili: tra un atomo d’argento infranto e un raggio cosmico emesso da una supergigante rossa disintegrata nello spazio profondo; tra quel singolo atomo d’argento e la stella che l’ha generato, spegnendosi in un incendio nucleare nel silenzio del cosmo; tra l’identità invisibile delle particelle e quella, diventata un destino inevitabile, della donna che le ha identificate per la prima volta.
Quando fu scoperto il fenomeno del decadimento radioattivo, Dmitrij Mendeleev, padre della tavola periodica, riteneva che la possibilità che gli atomi si trasformassero gli uni negli altri fosse una grave minaccia alla solidità della scienza chimica. Gli atomi di Mendeleev racchiudevano il nucleo della loro identità precisamente nella loro incapacità di trasformarsi: tutta la sua teoria della periodicità si articolava attorno alla natura invariante degli elementi chimici, che si organizzavano tra loro in composti diversi secondo una regolarità inviolabile. Nei confronti della nuova ricerca nell’ambito della radioattività, Mendeleev aveva sviluppato un rifiuto quasi oscurantista, opponendosi, per usare le sue stesse parole, allo «stato semi-spiritista in cui stanno cercando di avviluppare la nostra scienza»3. In effetti, la trasmutazione delle identità atomiche aveva un carattere quasi spettrale: era contraria a ogni idea sostenibile di natura. Se persino le componenti ultime dell’universo potevano spezzarsi, se anch’esse celavano al loro interno superfici nascoste, su quale profondità era possibile fondare un’immagine solida della realtà? Gli stessi fenomeni ...