Era un lungo pomeriggio d’estate. Nell’aria c’era odore di canfora.
La stanza era protetta dall’ombra del grosso albero di canfora cresciuto spontaneamente nel cortile, e lei stava usando i colori a olio diluiti nella trementina – riuscivo a distinguerne l’effluvio. Lo sguardo rivolto alla tela bianca, trasse un profondo sospiro e chiuse gli occhi.
In questo tranquillo quartiere residenziale, gli unici rumori provenivano dalla sua palazzina. Le note degli strumenti suonati dagli inquilini, le musiche delle pubblicità alla radio, il cigolio delle vecchie scale in ferro arrugginite. Senza contare che tutt’intorno si annusava uno strano olezzo: nel complesso, era un posto a cui un gatto normale non avrebbe mai cercato di avvicinarsi.
Noi gatti detestiamo sia gli odori strani o forti, sia i luoghi parecchio rumorosi.
Ecco perché qui mi sentivo al sicuro: ero certa che non avrei trovato altri felini pronti a bullizzarmi. Inoltre, non sentendoci bene, sopportavo senza problemi tutto il trambusto.
Ero appostata sull’albero, e la stavo osservando. Teneva lo sguardo fisso sulla tela.
Ero nata all’inizio dell’estate, e non capivo ancora bene che cosa facesse l’umana, perché continuasse a fissare immobile quel rettangolo bianco. Credevo che fosse pazza.
Dopo qualche minuto, scattò come in preda a un raptus e tracciò una spessa striscia nera proprio al centro della tela. Nel vederla mi sentii percorsa da un brivido. Il suo movimento fu cosà rapido ed energico che la coda mi tremò e si rizzò. Cavolo, quanta forza! Era bassa e di corporatura minuta, e aveva i capelli di uno strano colore. Però, cavolo, quanta forza!
Quel pomeriggio rimase assorta nella pittura finché il sole tramontò e le luci della città si accesero. Poco alla volta, sulla tela, prese forma un paesaggio che non avevo mai visto.
Tutt’a un tratto lei si voltò e mi guardò.
Aveva uno sguardo tagliente e affilato, mi sentii come trafitta da una freccia, e per tutta risposta mi paralizzai.
– Mimi! – mi chiamò.
Era la prima volta che un’umana mi dava un nome. Fino a quel momento mi ero solo sentita dire «sciò», «ladra» o «randagia». Lei invece non cercò di cacciarmi, al contrario, mi offrà addirittura da mangiare. Non sapevo davvero esprimere la gioia: nel giro di pochi secondi avevo potuto assaggiare una scatoletta di tonno sott’olio e mi ero sentita conferire il nome «Mimi».
Cosà decisi che quello sarebbe stato il mio nome e che mi sarei fatta chiamare cosà da tutti.
*
Era identica alla gattina che avevo quando andavo alle medie.
La piccola Mimi. Una gattina tutta bianca e dolce come il miele. Attendeva sempre il mio rientro alla finestra. Appena mi sedevo alla scrivania e dispiegavo il foglio bianco per disegnare, ci saltava sopra e si sdraiava proprio nel punto in cui il colore non era ancora asciutto, sporcando tutta la superficie.
Quand’era ora di mangiare miagolava dalla credenza e cercava di intromettersi nelle conversazioni di famiglia. A ben pensarci, quando c’era Mimi, mamma e papà vivevano ancora sotto lo stesso tetto. Facevamo colazione tutti insieme, poi, quando tornavo da scuola, gli raccontavo cos’avevo combinato e loro mi ascoltavano sempre con pazienza. Ridevano insieme a me per le cose che mi rallegravano, si arrabbiavano insieme a me per quelle che mi rendevano la giornata amara.
Adesso i miei genitori erano separati e abitavano coi rispettivi partner.
Dopo il diploma avevo deciso di andare a vivere da sola. Mamma e papà erano contrari, ma, se loro vivevano nel modo che avevano preferito, non vedo perché non dovessi farlo anch’io.
Abitavo in un monolocale vecchio e trasandato, ma almeno non pagavo l’affitto perché apparteneva a una zia da parte di madre. In fondo era meglio cosÃ: dipingendo, se fossi stata in un appartamento nuovo di zecca l’avrei senz’altro insozzato e messo a soqquadro.
Frequentavo un istituto professionale post-diploma a indirizzo artistico. Mi ero iscritta la primavera dopo il terzo anno di liceo, nella speranza di superare l’esame di ammissione per l’accademia di belle arti – al primo colpo mi era andata male. Ero un anno indietro, e cominciavo a pensare di rinunciare agli studi e cercarmi un lavoro.
La percentuale degli ammessi all’accademia di belle arti era sempre molto alta grazie all’elevato numero di studenti che decideva con largo anticipo di proseguire gli studi in quella direzione convinti che disegnare fosse piú semplice che spaccarsi la schiena sui libri. Ma per superare l’esame di ammissione servivano tattiche ben precise, e io me n’ero accorta troppo tardi. CosÃ, per colpa di gente che l’aveva tentato per togliersi dai libri, io e le altre persone veramente dotate di talento artistico eravamo state escluse. Per il semplice fatto di non aver saputo come preparare la prova: assurdo!
Sapevo di eccellere nel disegno, ma chissà perché i docenti dell’istituto professionale mi facevano ripetere in continuazione gli stessi esercizietti senza mai lodarmi. Un branco di artisti mancati che dopo la laurea in belle arti si era buttato sull’insegnamento, ecco cos’erano. Non capivano un bel niente, persino un gatto ne capiva piú di loro! Devo proprio essere sincera? Non c’era nessun altro all’infuori di me veramente capace di disegnare. A ogni modo, ero nata con un talento speciale, e per questa ragione ero disposta ad accettare di buon grado le altre sfortune. L’essere bassa, il tingermi sempre male i capelli, l’aver fallito l’esame di ammissione all’accademia. Fortuna e sfortuna dipendono molto dal modo in cui la si pensa. Io, per esempio, avevo avuto la sfortuna che i miei si erano separati dopo essersi traditi a vicenda, sÃ, ma a livello economico mi ritenevo fortunata perché potevo vivere senza pagare l’affitto. Non avevo superato l’esame di ammissione all’accademia, tuttavia potevo dirmi felice perché avevo capito quello che volevo fare nella vita.
Avevo intenzione di guadagnarmi da vivere con i miei quadri.
Appena muovevo le mani, nella mia mente si affastellavano idee che prendevano forma e scomparivano, e quando mi concentravo su una facevo nascere un quadro. Quel giorno, forse grazie alla gatta bianca che mi fece da pubblico, riuscii a far scorrere il pennello in maniera fluida.
Per ringraziarla del supporto volli omaggiarla con una scatoletta di tonno sott’olio per cena. Era cosà assorta, mentre la mangiava, che mi ricordò la mia Mimi. Anche lei andava matta per il tonno sott’olio.
Per un attimo fui attraversata dall’idea di tenerla in casa con me, ma mi trattenni. Nessuna regola vietava di tenere cani o gatti in questa catapecchia, ma a dire il vero nessun inquilino aveva un animale domestico. Del resto, qui abitavano solo persone sciatte e squattrinate, non mi pareva che ci fosse qualcuno in grado di occuparsi di un cucciolo con la cura che richiedeva. A dirla tutta, poi, gli strumenti per dipingere costavano un occhio della testa, e io che ero sempre al verde non avevo la possibilità di mantenere anche una gattina.
*
Si chiamava Reina. Fu lei a presentarsi.
Non avevo mai incontrato un’umana che desse un nome a un gatto.
Reina emanava uno strano odore. Un misto tra alcol etilico, olio di lino, trementina, acqua di colonia, spezie esotiche e, delle volte, pure tabacco – sebbene lei non fumasse. Era una che faceva sempre di testa sua, alcuni giorni mi dava da mangiare e altri no. Quando non me lo dava, era perché era assorta nella pittura: in quei casi, non avendo altra scelta, mi toccava tentare la fortuna dagli altri inquilini o elemosinare un po’ di pappa altrove; dietro la palazzina c’era un praticello incolto e un rubinetto da cui usciva acqua pulita, cosà almeno potevo bere. Quando me lo dava, si trattava nella maggior parte dei casi dei suoi avanzi: delle volte erano pietanze squisite, altre invece robacce che spero di non dover assaggiare mai piú in vita mia! E nei giorni in cui era particolarmente di buon umore mi serviva addirittura delle vere delizie in scatola per gatti.
A ogni modo, Reina mi dava da mangiare, ma non era la mia padrona. Su questo era stata chiara sin dall’inizio.
– Scusami, piccolina, non posso tenerti. Poi, sai, i gatti muoiono.
Come darle torto: noi gatti ce ne andiamo in fretta.
Ero tutta bianca ed ero la piú piccola della cucciolata, e come se non bastasse avevo problemi di udito. Rischiavo sempre di finire sotto una macchina e mi accorgevo in ritardo della presenza di altri gatti: insomma, capitava di frequente che me la vedessi parecchio brutta.
– Fa parte del nostro essere gatti morire! – avevo ribadito, e lei aveva sorriso.
Credo che Mimi fosse il nome della sua vecchia gatta. Dunque, io ero Mimi II. Come ho già detto, Reina era una che faceva di testa sua, in base a come le girava.
– Ti darò da mangiare, ma a mia discrezione, d’accordo?
Un giorno stavo dormendo tranquilla all’ombra sull’asfalto quando tutt’a un tratto lei mi afferrò da dietro al collo e mi immerse in una tinozza per lavarmi contro la mia volontà .
– Oh, ma guarda come sei bianca! Che bella signorina!
Per me fu un’esperienza traumatica e vicinissima alla morte, ma quando mi chiamò «bella signorina» tornai di buon umore. Quel complimento mi rese felice.
Reina aveva una personalità forte e tutta sua, ma mi piaceva.
Il cielo del tardo pomeriggio si rifletteva sulle grandi pozzanghere formatesi dopo il temporale.
Sulla via del ritorno dall’istituto professionale stavo pensando a quello che avrei preparato per cena, quando mi sentii chiamare da un ragazzo che camminava alle mie spalle. Era Masato, della mia stessa classe di pittura.
– Che c’è?
– Sai, con gli altri compagni stavamo pensando di andare in piscina durante le vacanze estive… Se ti va…
Masato si esprimeva sempre con discrezione, quasi bofonchiando.
– Non vengo, – gli risposi su due piedi.
– Come immaginavo… – rispose lui dispiaciuto. Poi, col suo solito fare riservato, si portò accanto a me.
– È vero che vuoi lasciare gli studi?
– SÃ, – annuii, – voglio cercare un lavoro –. Ai miei genitori non ne avevo ancora parlato, ma ormai avevo deciso.
– Capisco… Ma se è per la questione degli esami di ammissione all’accademia, puoi frequentare la classe di design se pittura non…
– No, non è per quello.
– Cominciavo a innervosirmi.
– E allora perché?
– Voglio dipingere, ma farlo per un esame di ammissione mi sembra una perdita di tempo.
Lo credevo veramente.
– Be’, certo, non serve a niente. Anch’io la penso cosÃ.
...