Su di noi la Chiesa vigilava. Cosà dicevano tutti e ripetevamo a sfottò Jutta e io sulle sedie in paglia davanti alla baracca, alludendo alla libertà con cui ormai si sfuggiva alle regole, come l’odore della minestra sul fuoco non ce la faceva a restarsene in casa e ci raggiungeva fuori per venire a impregnarci le mantelle.
Il sole a spizzichi calava davanti ai nostri occhi che non vedevano piú lo Stretto, in mezzo c’erano cosà tante rovine che ormai mi ero scordata di vivere sul mare. Incipiente, aprile ci portava la Pasqua e sbriciolava i giorni di quaresima. Alla fine di marzo, il vento del Nord bussava alle ossa costringendoci ad annodare piú fitto lo scialle, Jutta insisteva: copriti, copriti. In verità io non sentivo mai freddo con la pancia, la creatura crescente era la mia stufa, sudavo e appestavo i vestiti sotto le ascelle, tanto che dovevo lavarli spesso e si assottigliavano con il sapone fino a sfilacciarsi all’altezza dei gomiti o delle clavicole.
– La Chiesa ha vigilato ancora, – rise Jutta, mentre ce ne stavamo davanti alla baracca a rubare l’ultima luce del pomeriggio. – Il terzo matrimonio in una settimana.
– Chi si sposa stavolta?
– La figlia di Rosa con Carlo, il panettiere.
– Un’altra focaccia nel forno –. Ero diventata piú sguaiata, non mi vergognavo di ridere forte, di parlare ad alta voce, di fare battute riguardo argomenti sui quali un tempo avrei sorvolato: l’ennesimo effetto della gravidanza, questa sintomatica dittatura del corpo che mi faceva vedere sotto una luce diversa i corpi degli altri, di tutti gli altri. E di tutte le altre.
Quasi le pareti delle baracche fossero trasparenti, io le attraversavo e spiavo le ragazze: la notte facevano l’amore, sfrecciavano come fulmini nel temporale, appiccavano fuochi nel buio. Disobbedire era il verbo in virtú del quale sopravvivevano; le madri sopportavano, e si affrettavano a celebrare i matrimoni delle figlie quando il peccato non era ancora evidente. A me quelle giovani stavano simpatiche: ciò che per il mio corpo era stato violenza loro sapevano prenderselo con gioia di ribellione; anche se dovevano chinare la testa come ladre, erano state coraggiose, ardite.
Grazie a loro, nel villaggio la mia creatura avrebbe avuto molti fratelli, molti cugini, finché fossimo rimaste lÃ, sarebbe giunto il tempo delle nascite, ma quanto sarebbe durato quello della ricostruzione? I sopravvissuti si accoppiavano tra loro, il futuro erano promesse dimenticate dai regnanti, promesse sfocate lasciate a prendere polvere assieme alla pila di riviste che ogni tanto Jutta e io ricordavamo di buttare: Messina rinascerà piú bella, Messina risorge, nuovo piano regolatore per Messina.
– Com’è andata oggi? – cambiò argomento Jutta. Si alzò per stringermi lo scialle sul petto che si faceva via via piú grosso, sotto il vestito i capezzoli si inscurivano e si allargavano.
Era stata una giornata difficile. Mimma, la piú indisciplinata e selvatica delle mie alunne, aveva rotto una finestra nel tentativo di uscire di nascosto dalla baracca, approfittando di un momento in cui mi ero allontanata per concordare con il prete la consegna di alcune sedie.
Era una bambina burrascosa, sapevo che durante il terremoto aveva perso il padre, come molti di loro. Ciascuno aveva una reazione diversa alle perdite, c’era chi parlava tantissimo e chi non parlava affatto, chi si faceva scudo studiando con diligenza e chi esorcizzava facendo lo sbruffone. Mimma aveva un’inclinazione da capopopolo, era molto sveglia e rifiutava di collaborare con i compagni, preferendo farsi notare con azioni eclatanti. Si era ferita cadendo dalla finestra e, dopo averla sgridata, le avevo detto che la mattina seguente si sarebbe dovuta presentare a scuola con la madre.
Jutta disse che lei non avrebbe saputo neppure da dove cominciare per tenere a bada quei ragazzini sconosciuti. Era uno sforzo continuo farli lavorare insieme, arrivavano in classe disallineati, delle stoviglie sparpagliate su un tavolo, era difficile fare il dettato a quelli piccoli mentre i piú grandi scrivevano i riassunti, non assegnare voti che accentuassero le disparità e far sà che avessero voglia di tornare l’indomani. Tenerli dentro una scuola, dopo che tutto quello che avevano imparato negli ultimi mesi era successo fuori da scuola, fuori dalle loro case e fuori anche da loro. Tenerli dentro, mentre ancora di quel fuori sentivano il richiamo. Stavo per chiederle anch’io della sua giornata, del corso di sartoria ormai avanzato, quando fummo interrotte.
– Allora ho ragione, siete voi ’a maestra.
In piedi davanti a noi c’era Elvira, la vicina di casa di mia nonna che aveva perso le figlie la notte del terremoto. Ci fissava con una mano sul fianco, la testa di lato e l’aria di chi era proprio venuta a cercarci.
– Mimma vi ha descritta bene, dalle sue parole siete uscita precisa, le ho fatto ripetere il vostro nome due volte perché non mi combaciava. Quando vi conoscevo io non vi chiamavate vedova Cosentino.
– Che c’entra con voi Mimma?
– È mia figlia.
Quella ragazzina era una delle figlie di Elvira? Non le somigliava, e poi: com’era riuscita a sopravvivere? Sotto il crollo della nostra parte di palazzata non era rimasto vivo nessuno, lo avevo chiesto io stessa ripetutamente, lo avevo fatto chiedere a Jutta, per aver conferma sempre della stessa risposta: nessuno a parte noi. Né mia nonna né l’amica né la governante di Jutta. Nessuno.
– L’avete trovata? – chiesi comunque, confusa.
– Tutti abbiamo trovato qualcosa. Voi addirittura un marito…
Jutta si alzò. – Signora, se siete venuta a minacciarci, ve ne potete tornare da dove siete venuta.
– E che me ne importa di fare le minacce a voi? Io in questi mesi ho imparato a campare, che forse prima non ero capace.
Dietro l’espressione dura, di sfida, si svelò un volto provato. Elvira aveva voglia di piangere, vibrava il suo desiderio di crollare, perciò liberai una sedia dai ricami con cui Jutta si esercitava; lei però rifiutò di sedersi. Una folata di vento le fornà la scusa per coprirsi gli occhi con le mani.
– Se vi fermate, oltre alla minestra posso preparare tre frittate di uova con la groviera. Vi piace il formaggio del Nord? – Jutta doveva aver avuto la mia stessa sensazione, perché subito si era addolcita. – Purtroppo non possiamo fare carne, se vi accomodate con noi vi raccontiamo perché.
– Devo rientrare al villaggio americano.
– Vi tratteniamo poco, ma almeno non mangiate sola.
Pochi minuti dopo, avevamo trascinato le sedie in baracca e ce ne stavamo tutte e tre intorno a un tavolo. Jutta si alzava spesso per girare la minestra e friggere le uova secondo la sua ricetta.
– L’hanno fatto anche a me, – disse Elvira fissandomi il ventre. – E non sono stata fortunata, io.
– Cosa intendete?
– Non sono rimasta incinta, non mi è restato niente, soltanto lo schifo.
Ricordavo benissimo i due uomini in divisa che si erano avvicinati all’alba del disastro, quando ancora eravamo stordite. Ricordavo il modo in cui l’avevano puntata, e come avevo provato invano a portarla via, mentre lei era disposta a tutto nella folle speranza di riavere le figlie.
– Magari mi fosse venuto un picciriddu, invece non ho avuto niente, in compenso col nuovo anno si è presentato mio marito. La sua amante era morta, invece lui e una dei loro figli si erano salvati. Lui lo odiavo, ma la bimba aveva qualcosa negli occhi.
– Avete fatto bene, – dissi. Lo sguardo dei bambini: qualcosa che sottometteva anche me, uno spettro che conoscevo bene. Da quando ero scesa dalla torpediniera Morgana, continuavano a tormentarmi quegli occhi dalle ciglia lunghe. Allontanai l’ombra del mio fantasma e tornai alla realtà . Doveva essere orribile dividere il letto con un uomo cosÃ.
– Ho fatto bene, sÃ, perché lui è crepato dopo una settimana. Il terremoto gli aveva spaccato la testa da dentro, e il cervello sanguinava, anche se non si vedeva nulla. Emorragia cerebrale, ma in quei giorni, con tutti quelli che sanguinavano di fuori, a nessuno importava dei feriti senza ferite. Mi è morto davanti, e vi dico la verità : meno male che non ho avuto il tempo di chiamare il dottore perché non so se l’avrei fatto, e da morta brucerei all’inferno. Ma quello non se lo meritava.
– E Mimma?
– Lei ormai è figlia mia. Me l’ha mandata la Madonna. È pazza, l’avete vista, – rise. – Pazza completa, come quella che l’ha messa al mondo e come suo padre, ma la cresco io e non me la toglie nessuno. La raddrizzo a poco a poco. A scuola non voleva venire e invece si è convinta, la maestra Cosentino le piace.
– È scaltra, però ho paura che mi scappi dalla finestra per quanto è imbizzarrita. Fate bene a mandarmela in classe, gli altri alunni le vogliono bene, – esagerai per rassicurarla.
– Le mie tre erano tre angeli, questa qui è proprio diversa, ma comunque mia è.
– Hanno aperto il nuovo ufficio anagrafe, potete registrarla col vostro cognome.
– La tengo con il cognome di mio marito, cosà mi dà nno la pensione e la casa. Non ve lo devo spiegare io.
Abbassai lo sguardo.
Jutta portò le frittate in tavola e la minestra rimase ad aspettare, il formaggio caldo filava, prima di raggiungere le nostre bocche si allungava e stirava, dovevamo spezzarlo con le dita, accantonammo le posate e cominciammo a mangiare con le mani, appollaiandoci comode con i piedi scalzi sotto le gonne, mentre la notte scendeva su di noi.
La sera successiva alla prima volta, Elvira tornò a trovarci con Mimma. Insieme vennero anche il giorno dopo. Quello dopo ancora, Jutta e io avevamo già preparato il letto per entrambe, perché era meglio non rientrassero col buio, ed era comodo che Mimma venisse a scuola con me al mattino, stavamo vicine e lei poteva dormire un poco di piú. Dormire piú a lungo la tranquillizzò, la mattina era meno scalmanata, inoltre non era piú sola: c’ero io, c’era Jutta, c’era questa creatura nella pancia con cui la bambina fantasticava di giocare.
Non passò neanche una settimana che Mimma ed Elvira si trasferirono da noi. Dove stavamo in due saremmo state in quattro e poi in cinque, a meno che non ci avessero dato le case prima, ma ormai avevamo smesso di crederci, il futuro presto o tardi sarebbe arrivato come la morte, nel frattempo però bisognava vivere. Prima di lasciare il villaggio americano, Elvira cedette la sua baracca a un’altra donna, una che la burocrazia aveva tagliato fuori e che dormiva dove capitava, tenne per sé solo la richiesta di un’abitazione per le nuove case popolari. Chissà dove, chissà quando.
Intanto, ci facevamo compagnia tra noi. Jutta migliorava in cucina e io avevo meno nausee, cominciavo a risentire qualche sapore, ma la mia bocca restava metallica e dopo ogni pasto il cibo mi risaliva inacidito, però di solito riuscivo a trattenerlo, non vomitavo piú ogni giorno. Una mattina mi svegliai con la pancia che sporgeva tutta in fuori, raddoppiata nella notte. Jutta ed Elvira mi chiedevano: scalcia? Io non sentivo niente, solo gorgoglii, e avevo paura che la creatura morisse o non fosse robusta abbastanza da vivere e muoversi.
– Finché vomitate non c’è da preoccuparsi, – diceva Elvira, – poi smetterete e cominceranno i calci.
La guardavo perplessa, e lei: – Fidatevi, di figlie ne ho fatte tre.
– Quattro, – aggiungevo io indicando Mimma, e trasformavo la perdita in futuro.
Un pomeriggio Jutta tornò dal corso piena di allegria: all’uscita, alcune signore l’avevano fermata per commissionarle dei rammendi. Rimase sveglia fino a tardi e li consegnò la mattina seguente, ricevendo in cambio i primi soldi guadagnati con quel lavoro e, soprattutto, alcune ordinazioni di abiti da uomo e da donna. Pochi, tra i baraccati, potevano permettersi un sarto vero, però tutti erano stufi di indossare i vestiti rubati ai morti, sempre gli stessi e impregnati di puzza della catastrofe, sempre troppo corti o troppo grandi, appartenuti alle anime sepolte sotto i nostri piedi.
«Li sentite, – mi sussurrava Jutta di notte. – Non ci perdoneranno mai di vivere sopra di loro».
Allora anche lei, di consueto cosà solida, si concedeva di piangere piano, avvinghiata alla mia spalla, ed ero io ad accarezzarle i capelli e dirle che sarebbe andato tutto bene, a confortarla, come di giorno faceva lei con me. Le portavo la mano sulla mia pancia e a poco a poco si calmava, entravamo nel sonno insieme, strette sotto le coperte, mentre Mimma ed Elvira dormivano nell’altro letto, abbracciate pure loro.
Quella notte, però, Jutta non pianse. Si mise a lavorare alla sua prima giacca da uomo, ricavata da una tenda.
– Non avete mai voglia di tornarvene a casa vostra?
La domanda uscà spontanea il giovedà di Pasqua...