Attesi una settimana prima di parlarne con Berta. Non mi sentivo tenuto a farlo, data la scarsa vita in comune che ci univa, scarsa e tiepida, di puri e semplici incontri occasionali e rassegnati da parte mia, di visite a casa sua, la casa che era stata di entrambi in tempi antidiluviani, di telefonate di natura pratica relative a questioni economiche o ai figli già grandi e autonomi, anche se non emancipati; di qualche effusione sessuale, sempre piú rara, per quanto la parola «effusione» sia un eufemismo inadeguato. Ogni volta che ciò avveniva, immaginavo dipendesse da un suo momento di difficoltà, una delusione o un raffreddamento momentaneo con qualcun altro, ero sicuro che avesse una relazione, o forse ce n’erano state due consecutive, lei non mi raccontava nulla e io non facevo domande, ho già detto che non mi sentivo in diritto, sarebbe stata un’intromissione e un’impertinenza da parte mia, era già molto che non mi avesse voltato completamente le spalle, che volesse ancora vedermi. Avevo la sensazione che mi tollerasse per ostinazione o per una superstiziosa fedeltà al passato, come se non volesse tradire del tutto la donna che era stata da giovane e da non cosí giovane; e forse perché poteva tornarle utile nelle sue giornate piú solitarie o insoddisfatte, o quando sentiva di invecchiare e di sciuparsi (ai miei occhi senza motivo, io la vedevo attraente come sempre; ma ciascuno si fabbrica i propri motivi): ci si accontenta di quello che si ha a portata di mano e di quello che sopravvive – sí, di quel che resta –, via via che svaniscono le infinite possibilità, e che il futuro cessa di essere vasto e astratto, un mucchio di pagine bianche, per farsi sempre piú concreto e limitato, o piú delineato, o piú scritto, trasformandosi in passato e in presente, un po’ di piú ogni giorno che passa.
Era stato questo a spingermi ad accettare, in parte: la tentazione di scrivere un altro capitolo, l’idea di non avere ancora finito il mio piccolo libro, quando ormai lo avevo dato per concluso. E, soprattutto, ciò che ho spiegato prima: anche quando ci si sente stanchi e si decide di abbandonare tutto, anche quando si rimpiange la vita tranquilla che non si è vissuta (questa sí che è una fantasia: non ha senso rimpiangerla dopo che se ne è vissuta una molto diversa, fatta di tensioni, impostura e rischi), diventa insopportabile rimanere fuori una volta che si è stati dentro e lí si è creduto, ogni tanto, di poter far inarcare un sopracciglio all’universo. Non resistiamo all’idea di esercitare la nostra influenza, per minima che sia, di alterare il corso di qualche minuscola esistenza. In questo caso, si trattava di fare in modo che chi viveva tranquillamente la sua vita dopo aver preso parte a crimini orrendi, una donna che forse a suo tempo li aveva giustificati e li aveva cancellati dai suoi ricordi, pagasse per quello che aveva fatto quando ormai si considerava un’altra persona, e in salvo.
E cosí avevo guardato quelle tre foto, una volta a casa, con attenzione: avevo atteso l’impaziente telefonata di Tupra, che fu davvero impaziente, in quanto era arrivata la mattina del giorno dopo, martedí 7; avevamo improvvisato un incontro per quello stesso giorno, un pranzo leggero, con il suo amico o collega Jorge (be’, loro dovevano essere già d’accordo), il quale mi aveva fornito i dettagli e mi aveva consegnato il materiale e i miei documenti falsi, era sbalorditivo che fossero già pronti, dimostrava quanto fosse scontata per Tupra la mia risposta finale, mi diede da pensare che mi conoscesse cosí bene, avrei dovuto cambiare di piú da quando avevo lasciato l’organizzazione, il vecchio corpo; avrei dovuto rendermi piú inafferrabile e imprevedibile. È vero che Jorge o George si mostrò disposto a darmi un’altra identità, un’altra professione e un altro nome se quelli che aveva scelto non mi fossero sembrati adatti.
Era un uomo sulla cinquantina con un’aria da diplomatico spagnolo di carriera, piú che da agente ufficiale o ufficioso dei servizi, anche se noi non abbiamo agenti fissi e li cambiamo di continuo. Ma era troppo ben vestito, e come se lo fosse stato da sempre, con un abito doppiopetto di ottima lana pettinata e un cappotto di pelo di cammello che mi infastidirono, mi ricordavano gli innumerevoli figli di papà che durante la dittatura avevo visto vivere negli agi, credersi i padroni della nazione, e di fatto lo erano, li avevo sempre disprezzati. Portava addirittura dei gemelli di madreperla e una spilla fermacravatte, accessorio insolito negli anni Novanta, con sopra il ritratto smaltato di qualcuno. Era pettinato all’indietro, per fortuna senza brillantina (sarei scappato di corsa, altrimenti), con una sottile riga a destra, e i bei capelli argentati scintillavano come le copertine di certi libri rilegati per l’infanzia. I lineamenti erano molto regolari, benché il naso fosse un po’ troppo grande e le labbra piú sottili di quanto lui stesso avrebbe preferito, era evidente la sua vanità. Aveva occhi vivi color passito, di taglio allungato, talmente allungato che in certi momenti era difficile incontrarli, sembrava che non guardassero mai di fronte, come se dovessero spartirsi un’estensione orizzontale troppo grande. L’unica cosa fuori posto nel suo aspetto da ambasciatore o ciambellano o console era un paio di baffi piú scuri dei capelli, né poco né troppo folti e senza punte all’insú, quindi tutto sommato discreti, e tuttavia incongrui (incongrui in quel tipo di volto quasi senatoriale o patrizio).
Come ci si poteva aspettare da un individuo di un certo rango, reale o simulato, si era presentato con nome e cognome, Jorge Machimbarrena, un cognome che mi parve inventato o preso in prestito, ebbi l’immediata certezza che non fosse quello vero. Guardai il nome che mi aveva assegnato su una carta d’identità e un passaporto ancora privi di foto, me li aveva messi in mano con un gesto soddisfatto, in uno sfoggio di efficienza.
– Miguel Centurión Aguilera? Centurión? Non è un cognome che dà un po’ nell’occhio? – gli chiesi. – Non l’ho mai sentito.
Ricordai a Tupra, caso mai lo avesse dimenticato, che in Spagna è il primo cognome quello che conta, quello con cui la gente solitamente si conosce, il secondo è quello della madre e in linea di massima lo si usa solo nelle occasioni ufficiali. O cosí era fino a poco tempo fa.
– Se ha lo stesso significato che in inglese, – disse lui, riferendosi alla parola centurion, – per noi sarebbe assurdo, inverosimile.
Parlavamo nella sua lingua per cortesia nei suoi confronti, o forse per dovere. L’inglese di Machimbarrena era disinvolto, nonostante qualche errore e un accento irrimediabilmente marcato, di quelli che non migliorano mai. Almeno lo si capiva.
– Qui è infrequente ma esiste, a Madrid ce ne saranno sei o sette, – rispose il falso Machimbarrena. – Ed è bene che lo si ricordi al primo colpo. I nomi troppo comuni non aiutano, e in realtà destano piú sospetti, quando quello che si vuole è proprio il contrario. I nomi rari suonano piú credibili, ho conosciuto un Gómez-Antigüedad, che gliene pare? Gestisce un albergo importante. A chi verrebbe in mente di inventarselo? Guardi quanti scrittori hanno abbandonato i loro Martínez, Fernández e Pérez per chiamarsi Azorín o Clarín o Fígaro, e addirittura Savater e Guelbenzu.
Non volli interromperlo per fargli notare che Clarín e Fígaro erano semplici pseudonimi, di Alas e di Larra, cognomi assai poco frequenti. Ne dedussi che in fatto di letteratura era un ignorante con una certa facilità nel tenere a mente i nomi, tipica di molti diplomatici.
– La gente si abitua subito ai cognomi piú singolari e li ricorda meglio. Centurión si imprime nella memoria e si presta alla curiosità, potranno farle delle domande e aspettarsi delle storie gloriose; cosí attaccherà discorso senza fatica, non le toccherà fare il moscone né cercare pretesti. Avrà a che fare con delle donne, dovrà guadagnarsi la loro fiducia, non lo dimentichi –. Mi osservò per qualche secondo con i suoi occhi vaganti. – Ma se non le piace lo cambiamo. Preferirebbe García García?
C’era un fondo di sarcasmo nel suo tono. Mi dissi che era un autentico figlio di papà, di quelli dei tempi di Franco. La parola «moscone» non la sentivo dagli anni Settanta, credo. Mi chiesi per chi lavorasse, probabilmente per il Cesid, dall’interno o come esterno, dipendeva dal ministero della Difesa dove c’erano molti franchisti convinti, non per questo meno leali alla democrazia, si erano tutti convertiti con disinvoltura e senza problemi di coscienza. Un altro discorso era che certi nostalgici potessero organizzare una spedizione per conto loro, o con l’appoggio di figure intransigenti di destra o di sinistra, ce n’erano da una parte come dall’altra.
Mi resi conto che, accettato l’incarico, nulla di tutto ciò mi interessava né lo ritenevo affar mio. Quel lavoro mi veniva da Tupra, come tutti quelli che avevo svolto in passato, e mi ero fatto l’idea che avrei avuto a che fare con lui o con qualcuno designato da lui, un nuovo Molyneux, magari. Questa volta lui non era agli ordini dei suoi superiori, ma chi poteva assicurarmi che lo fosse sempre stato? E l’obiettivo non sembrava riservare particolari complicazioni, da chiunque venisse l’incarico. In fin dei conti si trattava di smascherare un’assassina e di condurla davanti alla giustizia, se possibile. O almeno cosí credevo in quel momento.
– No, no, non si preoccupi. Se lei trova che Centurión presenti dei vantaggi, non intendo discutere. Sarò Centurión fino a nuovo avviso. In realtà lo trovo bello.
– Lo vede? – puntualizzò Machimbarrena compiaciuto. – Si è subito abituato e ne ha visto gli aspetti positivi.
– E le foto? Bertie deve averne qualcuna. Di tre o quattro anni fa, ma immagino vadano bene. Non credo di essere invecchiato tanto.
Machimbarrena e Tupra mi fissarono attentamente tutti e due, come se fossi un insetto. Il primo non poteva avere un’opinione sul mio invecchiamento; il secondo sí, e sperai non mi paragonasse al giovincello che aveva conosciuto alla libreria Blackwell’s secoli prima, con quello io non avevo niente da spartire, di sicuro. Lui era cambiato infinitamente meno di me da quella mattina di un’altra vita, forse perché era sempre stato lo stesso fin da bambino, o cosí mi figuravo. Era anche piú vanitoso, si curava e si ritoccava.
– Quando avrà deciso come sarà Miguel Centurión e sarà diventato piú o meno lui, faremo le foto e le inseriremo. Prima non ha senso, – rispose Machimbarrena. – Scelga l’aspetto che la soddisfa. Se vuole essere biondo o bruno o brizzolato, con i baffi o con la barba o senza, con i capelli piú lunghi o piú corti, pettinati con la riga o a spazzola. La riga fa piú ordinato, piú elegante –. Indicò la sua senza modestia. – Be’, per la barba non c’è tempo, dovrà cominciare il prima possibile. Se lo desidera se la lascerà crescere poi, una volta arrivato a destinazione. Insomma, la parte dell’aspetto fisico la decide lei, sarà lei a doverlo esibire, e poi so che ha molta esperienza, me ne ha parlato Bertram. Tenga conto che le conviene essere il piú possibile attraente, non si sa mai. A volte l’unico modo di guadagnarsi la fiducia di una donna è conquistarla. Farla innamorare, intendo, lo dica come le pare. Andarci a letto, insomma –. E qui passò allo spagnolo, come se avesse bisogno della sua lingua per lasciarsi andare alla crudezza: – Appiccicarla al muro, scoparsela davanti e dietro, una o venticinque volte. Ficcarglielo fino all’elsa, spingendoglielo bene in fondo…
Lo fermai prima che tirasse fuori di peggio, o che si eccitasse davvero. Era un figlio di papà grossolano sotto le sue maniere felpate, come tanti.
– Sí, sí, ho capito. In linea di principio non ho intenzione di muovermi in quella direzione. Complica solo le cose, le intorbida, le infanga. Ci sono altri sistemi. E poi le ricordo che Bertram non sa lo spagnolo.
– È vero, perdonami, Bertram; quando si parla una stessa lingua ci si lascia andare senza volerlo, – si scusò in inglese. – Stavo dicendo a Nevinson che forse dovrà scoparsene qualcuna.
– Questo lo sa già, – rispose Tupra. – E non gli veniva male ai suoi tempi. Di attività, intendo.
– Dice che ci sono altri sistemi e che li preferisce. Quali, Nevinson? Io non ne conosco nessuno.
Non gli risposi. Se non gli venivano in mente, non valeva la pena di spiegarglieli.
– Cercherò di farmi bello, – dissi, per chiudere la questione. – Anche se alla mia età non si può fare granché. Non è piú come prima, Bertie.
I due tornarono a scrutarmi in un modo che trovai imbarazzante. Valutavano il mio potenziale di seduzione su quelle tre donne, come se non fossi presente e mi stessero osservando su uno schermo. Mi lasciai guardare, infastidito.
– Io la vedo abbastanza bene, lineamenti regolari, – osservò Machimbarrena. – È piú giovane di me e io non posso lamentarmi, mi va da favola in questo campo. Con un’attrice, l’altro giorno, non fatemi dire –. Nessuno lo incoraggiò, e per fortuna lui colse il messaggio. – Un’aggiustatina aiuterebbe, questo sí. Posso mandarle Sigfrido.
– Sigfrido? – chiesi, allarmato da quel nome.
– Il mio parrucchiere personale, è esperto anche di trucco maschile. Non si spaventi, è della zona di Córdoba, di Pozoblanco, non è tedesco né wagneriano né niente.
– Non so, – mormorò Tupra esaminandomi. – Dovresti tingerti le basette e i capelli ai lati, un po’ piú su. È dove li hai piú grigi, ti invecchiano. Ma non tutti di un colore, meglio a ciocche. Nella parte superiore non c’è problema, capelli bianchi non ne hai. La stempiatura ti rende interessante e affidabile, le fronti sgombre piacciono, lí non occorre intervenire, non sei mica calvo. Ma è meglio che tu non ti faccia crescere la barba, devi averla quasi bianca e non è il caso che tu ti aggiunga degli anni. Non si sa mai, come dice George.
– Tingermi le basette? Come fai tu da anni con i tuoi riccioli? Devo imitare le tue vanità?
A Tupra il commento non piacque, malgrado il mio tono fosse stato scherzoso e inoffensivo: forse credeva che la sua chioma voluminosa potesse ingannare l’occhio di chiunque. Mi lanciò un’occhiata severa, poi agitò la mano in un gesto come se dicesse: «Che sciocchezza, è tutta invidia».
Io aggiunsi: – Del resto, non credo di dover cambiare molto il mio aspetto. Non ho mai lavorato in Spagna, quindi non c’è nessun rischio che qualcuno mi riconosca.
Tupra mi riprese puntando il dito. «Ecco che stai già sbagliando, attenzione», diceva quel dito. E anche: «Ah, Tom, si vede che sei fuori allenamento, povero te».
– Non dimenticare quello che ti ho detto. La donna che cerchiamo è mezzo nordirlandese, anche se vive qui da una vita, o da mezza vita, e tu da quelle parti ci sei stato. Le cose lentamente si stanno sistemando, lí, c’è speranza, a differenza di quanto avviene nei Paesi Baschi. Ma nulla è sicuro e tutto è fragile, vedremo col tempo. Tranne quei disgustosi evangelici e presbiteriani del Dup e quegli asini del Pup, la gente non ce la fa piú, anche se non si è risolto niente –. Si riferiva a due partiti unionisti, il Democratic Unionist Party e il Progressive Unionist Party, il primo di un’estrema destra cretina e il secondo di una sinistra cretina. – Tremilaquattrocento morti sono troppi per un posto cosí piccolo. Quanti sono quelli dell’Eta?
– Un quarto di quella cifra, anche meno, – rispose Machimbarrena. – Ma considera che qui è stata solo una parte a uccidere, l’altra ha porto il collo docilmente, senza farla pagare occhio per occhio né reclamare vendetta, una cosa abbastanza straordinaria, se ci si pensa. In Irlanda del Nord entrambe le parti si sono sparate addosso, con il contributo del vostro esercito. E questo, piú che raddoppiare le perdite, le moltiplica.
– Solo una parte, fatte salve alcune eccezioni, – precisai, alludendo ai Gal degli anni Ottanta.
– Pochissime, pochissime in confronto all’Irlanda del Nord, – puntualizzò Jorge, forse perché aveva partecipato ai fatti di quel decennio, chi poteva saperlo.
Non travisava la realtà, in ogni caso. I crimini dell’Eta non avevano confronti e duravano da trent’anni, piú o meno quanto le reciproche uccisioni nell’Ulster. Con l’instaurarsi del regime democratico i suoi membri avevano goduto di un’amnistia, indipendentemente dal fatto che si fossero macchiati di delitti di sangue, e avevano dimostrato la loro riconoscenza combattendo ancora piú brutalmente proprio quella democrazia, odiandola piú della dittatura stessa e assassinando in modo indiscriminato.
– Per questo è probabile, – continuò Tupra, – che nessuno boicotterà i negoziati, o gli abboccamenti, facendo fuori uno dei nostri, e tu sei uno dei nostri, Tom. Non solo perché torni in attività. Noi stiamo ancora mantenendo la tua famiglia. Le tue due famiglie, immagino, lo sai tu quello che fai del tuo stipendio.
Non mi piacque che sentisse il bisogno di ricordarmelo. Avevo già detto di sí, non aveva senso la minaccia di togliermi il sostegno finanziario. Forse temeva che mi tirassi indietro, che tagliassi la corda prima di cominciare o a metà dell’opera. A Londra, l’ultima volta che ci eravamo visti, mi aveva congedato con questo avvertimento: «Noi non abbandoniamo chi ha difeso il Regno, sia chiaro. Ma ci disinteressiamo di chi viene meno al dovere, di chi parla troppo e rivela quello che non deve. Tienilo presente, se non vuoi che ti ritiriamo il mantenimento, ogni copertura economica. E potremmo mandarti a processo».
Io non avevo parlato, nemmeno con Berta, ricordavo perfettamente di essere vincolato vita natural durante dall’Official Secrets Act, quello del 1911 e quello riformato del 1989.
Mi chiesi se quelle non fossero solo chiacchiere e se ci fossero ulteriori obblighi, se uno fosse tenuto a servire ogni volta che glielo chiedevano, correndo il rischio di subire rappresaglie o di finire su una strada quando ormai era inservibile. Se in realtà non fosse possibile uscirne, esattamente come dalle organizzazioni mafiose, che accordano falsi permessi cui fa seguito l’eliminazione fisica di chi si allontana. L’unico modo era diventare un incapace, un elemento da escludere. Credevo di essermi tirato fuori e adesso venivo richiamato alle armi, anche se per vie poco chiare. Per fortuna non ero un incapace.
– Ma nell’Ulster, – continuò Tupra, – ci sarà qualcuno che ha ancora la tua foto al centro del bersaglio e ci tira le freccette, e quelle foto girano e vengono distribuite. Magari adesso non piú, quasi nessuno si ricorderà di te, e chi se ne ricorda ti crede morto, ma in passato sí. È difficile, quasi impossibile, che il tuo volto dica qualcosa a quella donna, ma conviene prendere tutte le precauzioni, perché non possiamo mai sapere chi ci fa l’identikit. Può darsi che ci abbia disegnato un tizio con una buona mano e un’ottima memoria. Di quella donna non abbiamo una descrizione affidabile e nemmeno fotografie, è semp...