Il passo veloce sembra essere una caratteristica diffusa a Manhattan. Persone che camminano col cellulare all’orecchio, stringendo le classiche coffee cup con la fascetta di cartone intorno per proteggere le mani dal calore. Cuffie colorate anni Ottanta che coprono le orecchie e circumnavigano la testa, e piccoli auricolari che quasi non si vedono. Centinaia di canzoni diverse che si mischiano nella testa di migliaia di pedoni silenti, costretti a continui stop and go dai semafori che diventano rossi, e pronti a conquistare il block successivo appena scatta il verde. Uno sciame ordinato che si mescola solo quando i sensi di marcia si scontrano. Quando si scontrano le storie, i pensieri. E le facce, perlopiú sconosciute tra loro.
Tra queste, quella di Napoleon. Uno dei tanti che camminano con un caffè in mano. Uno qualunque, apparentemente. Uno che non ha piú un ufficio, non ha piú una famiglia, i cui amici si contano ormai sulle dita di una mano. Quante persone ci sono simili a me, pensa. Eppure eccole, rassegnate, che corrono verso i loro affanni e i loro appuntamenti come se niente fosse.
Anche lui ne ha uno, di appuntamento, tra meno di settantadue ore.
Il semaforo è verde, Napoleon attraversa insieme agli altri.
È andato dall’hotel fino alla Ventitreesima, una di quelle lunghe camminate che era solito fare in vita e che lo mettevano in pace con i propri demoni. Anche se l’ultima si era risolta con il suicidio. Anzi, visto che si trova ancora a Manhattan in carne e ossa, col tentato suicidio.
Un suicidio in differita. Ti ammazzi e hai sette giorni per confermare. Quasi gli viene da ridere.
Imbocca le scalette della metro e scende sottoterra, mentre un ragazzo coi capelli rasta sta eseguendo una versione reggae di Fields of Gold di Sting. Napoleon gli rifila un’occhiata e ha come un lampo, un flash di un vecchio ricordo: quel ragazzo è stato uno dei prescelti durante uno dei suoi show motivazionali. Ne è sicuro. A dispetto dei tanti nomi che ha dimenticato negli ultimi tempi, sa di essere davanti a Nicholas. Rammenta i suoi occhi pieni di speranza e di paura quando gli ha afferrato la testa tra le mani e gli ha chiesto: «Da dove vieni, Nicholas?»
«Dal Kentucky».
«E cosa ti ha spinto a venire a New York dal Kentucky?»
«Se fossi rimasto lí, sarei morto».
«Perché? Cosa c’era che non andava lí?»
«Il posto. La gente».
«La gente… – gli ha domandato Napoleon, – o forse tu?»
Aveva gli stessi capelli di adesso, lunghi fino al culo.
«Io?»
«Tu, Nicholas. Te ne sei andato dal Kentucky perché soffrivi. Perché non ti sentivi accettato. E sei venuto a New York. Ottima scelta. Questa città ti prende per come sei, non importa quanto siano lunghi i tuoi capelli. Solo che non è facile affrontarla. Per affrontarla devi prima perdonarti».
«Aiutami a farlo».
«Cos’è che ti fa stare bene? Dimmi la prima cosa che ti viene in mente».
«La musica».
«La musica? E allora sarà la musica a salvarti. Fidati di me».
Napoleon ricorda il lungo abbraccio, poi quell’ultima frase sussurrata all’orecchio: «Insieme troveremo le note giuste».
E ora eccolo lí, felice e spensierato mentre canta sotto la metropolitana. Ha un’altra luce nello sguardo e il Kentucky è solo un ricordo lontano. Sembra uno che ha trovato la sua strada.
Sottoterra?, riflette Napoleon.
Attorno al ragazzo si è radunato un piccolo gruppo di curiosi. Nella custodia della chitarra elettrica, posata a terra, ci sono alcune banconote e molte monete. Napoleon è in prima fila e a un certo punto i suoi occhi incrociano quelli di Nicholas: il ragazzo canta e sorride, ma non sembra fare caso a lui.
Come hai fatto a salvarti? Insegnalo pure a me, vorrebbe dirgli Napoleon, invece si allontana tra gli applausi per la fine della canzone che introducono Losin’ My Religion dei R.E.M.
Napoleon ha degli spiccioli in tasca, acquista un biglietto, passa il tornello.
Beve un sorso di caffè: è ancora caldo. Due fari bucano il buio del tunnel: la metropolitana è in arrivo.
Andrà a nord o sud?, si chiede Napoleon, poi sorride: non gli interessa.
È al centro della banchina.
I passeggeri si dispongono dove sperano si fermerà una porta d’ingresso.
Lui invece rimane fermo, vede il muso del convoglio arrivare, fa un passo avanti, calcola l’attimo giusto, e si lancia sui binari.
Bam.
La giornata precedente sembra essere stata appagante per tutti, una di quelle uscite che racconti anche dopo anni, quando ti ritrovi in un pub con le stesse persone.
Aretha scende nella sala della colazione e si stupisce di non trovare nessuno. Le tende sono chiuse, le sedie composte attorno ai tavoli.
Di chi sarà questo hotel?, pensa, e ripone il quesito nella scatola delle domande che probabilmente non avranno mai una risposta. Tra meno di tre giorni tutto questo sarà finito. Che cosa vorresti scoprire prima di allora?, si chiede.
Ciò che le interessa davvero è sapere dove sta la sua Olivia. Lei sperava di raggiungerla, invece qui Olivia non c’è.
Ma allora perché sono ancora qui?, si domanda accendendo il fornetto per scaldare i croissant e apparecchiando la tavola per sé e il resto del gruppo. Poi va a preparare i pancake.
I colpi metallici della frusta contro la ciotola sono l’unica nota che Daniel sente nel silenzio della sala. Si ferma sulla soglia della cucina e osserva la poliziotta armeggiare con uova e farina. Pensa a sua madre, e alle centinaia di dolci che gli preparava, sempre preoccupata che lui potesse perdere qualche chilo, che lo sostituissero col nuovo cicciottello di turno nello spot dell’aranciata.
Aretha lo intravede con la coda dell’occhio, sussulta: era convinta di essere sola.
– Mi hai spaventata, – dice.
Sentono un rumore che ormai hanno imparato a conoscere: le ruote della carrozzina di Emily. Anche la ragazza è di buonumore.
Il forno trilla: i croissant sono pronti. Pochi minuti e la tavola è imbandita: pancake, marmellata, burro d’arachidi, succo d’arancia, caffè, latte, biscotti.
E loro tre. Manca Napoleon.
Si guardano come fossero alla cena di Natale in attesa dello zio ritardatario.
– Forse dovremmo svegliarlo, – suggerisce Daniel, e intanto infilza un pancake con la forchetta e se lo mette nel piatto.
Emily agguanta un croissant. – Mangiamo. Arriverà.
– Ma ci andiamo a Coney Island? – chiede Daniel masticando.
– Certo, te lo abbiamo promesso, – risponde Aretha.
Su questa frase compare l’uomo senza nome. Ha lo sguardo serio ed è vestito di tutto punto, molto meglio rispetto ai giorni precedenti. È come se avesse stirato i propri abiti prima di indossarli.
– Buongiorno, – bofonchia, sembra un capoufficio quando al mattino non gli girano per il verso giusto.
Si versa del caffè e ingoia due pillole di Advil.
– Dov’è Napoleon? – gli domanda Emily.
– Non lo so. Ho bussato, ma non risponde, – replica lui, e uno sguardo allarmato serpeggia negli occhi degli altri tre.
– Si fa tardi per Coney Island, – dice Daniel, e nella sua voce c’è tutta l’impazienza di un bambino di dodici anni.
Un fracasso di ferraglia annuncia l’arrivo al piano del montacarichi: è Napoleon.
Apre il cancello senza preoccuparsi del trambusto; il suo incedere fa capire subito che anche il suo umore non è dei migliori.
I compagni continuano a mangiare in attesa di ciò che sta per accadere, perché è chiaro che di lí a poco qualcosa accadrà.
– Cos’è questa storia? Mi spieghi? – urla il motivatore all’uomo che, con tutta la calma del mondo, gli risponde: – Ci siamo accordati per una settimana…
– Be’, ci ho ripensato, – sbraita Napoleon.
Gli altri si scambiano occhiate sorprese.
– Non puoi, – ribatte l’uomo, e finisce di bere il suo caffè.
Napoleon gli si avvicina con fare intimidatorio.
– Non voglio aspettare, hai capito?
La sua sembra piú una minaccia che un’affermazione. Negli sguardi dei tre seduti al tavolo la sorpresa si trasforma in confusione, subito dopo in ansia.
– Che è successo? – chiede Aretha.
L’uomo fronteggia Napoleon, urla anche lui.
– Hai accettato… non ti ha costretto nessuno.
– Tu lo sai perché ho accettato, e sai benissimo che certi trucchetti fanno colpo… – risponde Napoleon. Ha un tono accusatorio e la consapevolezza di chi per una vita ha usato determinati espedienti per convincere la gente.
L’uomo però non ci sta a passare per un imbonitore, e perde le staffe.
– Non ho usato nessun trucco!
Daniel si alza, come se lo scontro fisico tra i due uomini potesse arginarlo lui, un ragazzino di un metro e cinquanta.
– Invece sí! – insiste Napoleon.
– No! – ribatte l’uomo.
I due sono faccia a faccia, ma dopo un istante Napoleon si tira indietro: il buon senso di chi sa usare le parole come arma.
– Lo sai che certi giochini in circostanze del genere funzionano sempre… – la voce è bassa, quasi di rimprovero; ha ancora impressa nella memoria l’immagine dell’uomo che cammina nell’aria. – Su, quanta gente vedendoti volteggiare come un piccione ti ha detto di no? Dài, forza, dillo.
Gli altri tre restano interdetti: con loro il vecchio non ha usato niente di simile.
– Chi cazzo ti dà il diritto di entrare nella vita di una persona in un momento delicato come quello? Sai quanto coraggio ci vuole per arrivare fino a lí? Lo sai?
Si ferma, prende fiato, continua.
– In quel momento hai una paura fottuta, ma ormai hai deciso che lo vuoi fare. Invece arrivi tu e credi di sapere cosa sia meglio per ciascuno. Hai mai pensato che alcune persone non hanno nessuna voglia di essere salvate? Quelli come me li devi lasciar andare e basta. A meno che tu non lo faccia solo per te stesso, perché l’idea di perdere qualcuno ti farebbe dubitare delle tue capacità.
Nella stanza si è instaurata un’atmosfera scomoda. Il clima disteso di amicizia del giorno precedente è solo un ricordo.
– Si può sapere che è successo?
A dirlo è Emily, gli occhi lucidi di chi ha sperato in un mondo migliore e ha poi scoperto che neanche la morte cambia le persone.
Napoleon le si avvicina a pochi centimetri e le sussurra rabbioso: – Ci ho riprovato, va bene?
La prima immagine che passa per la mente della ragazza è lei che si lascia andare e cade giú, lei che non ce la fa p...