Il fumo della falena
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Il fumo della falena

  1. 264 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il fumo della falena

Informazioni su questo libro

Daru Shezad è un giovane banchiere che cerca rifugio dalle proprie frustrazioni nel dolce intorpidimento dell'hashish. Quando però viene licenziato, dopo aver litigato con un cliente importante, la sua vita precipita agli inferi. Daru perde il suo posto già precario nella nuova élite di Lahore, e nel calore soffocante di un'estate al quale non può sfuggire s'innamora della bellissima e inquieta moglie del suo migliore amico. Una passione travolgente che lo porterà alla rovina. Pubblicato per la prima volta nel 2002 con il titolo Nero Pakistan, il romanzo d'esordio di Mohsin Hamid, Il fumo della falena, è il racconto che non lascia scampo di un mondo spietato, che nemmeno l'amore sembra in grado di redimere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806237370
eBook ISBN
9788858429549
Capitolo tredicesimo

Sette

Il mio bozzolo è troppo stretto. La carne e il sangue sgorgano dal mio corpo rotto, impastandosi al tessuto delle mie bende. Gli occhi, sigillati dal gonfiore, vedono solo una luce arancione, translucida.
Intorpidito dagli antidolorifici, aspetto nel mio involucro di cicatrici e lividi, simile a una larva che cresce lentamente.
Entra con le mani giunte, le punte delle dita che sfiorano le labbra, gli occhi spalancati.
– Che ti è successo?
– Non chiedermelo –. Le parole fischiano attraverso lo spazio tra i miei denti e solleticano il buco infiammato nella gengiva.
Prende la mia mano sana tra le sue e l’accarezza con la guancia, mi passa le dita sul viso, sui lividi, sui tagli, sui binari formati dai miei punti.
– Chi è stato?
Chiudo gli occhi e ripiombo nel vortice che ho in testa, come dopo aver bevuto due cocktail di troppo, troppo forti e troppo in fretta. Non riesco a vomitare. Ci ho provato. Riesco solo ad aggrapparmi a me stesso in quel vortice, a guardare in alto verso il padre di Shuja, piangendo, implorando. La canna del suo fucile, a un tratto acuminata, preme contro il mio addome come un ago. Boccheggio mentre la mia pelle si lacera, mentre l’ago penetra nel mio corpo, separando muscoli e tessuti, squarciandomi da parte a parte, spezzandomi la schiena, inchiodandomi al suolo, immobile come un insetto infilzato in una teca. E la nausea aumenta, mi trascina dentro di sé, mi contorce, mi strappa le budella, insopportabile.
Apro gli occhi. Voglio ucciderlo.
È seduta sul letto accanto a me.
Mi proteggo la cassa toracica con un braccio.
– Dov’è la tua famiglia?
– Non gliel’ho detto –. Non voglio spiegare, non voglio vederli prima di essere guarito, quando non ci sarà motivo di fare domande.
Ma non succederà, una vita non basta per guarire quando hai un dito morto, il naso schiacciato e il sorriso non riesce a nascondere il buio che si è formato nella tua testa.
– Come farai a pagarti le cure?
– Non lo so.
Mi circonda le spalle con un braccio e culla il mio viso contro il suo seno.
Respiriamo assieme. Lentamente.
Il tempo passa, scorre come un lungo sospiro, progressivamente meno doloroso. E chiudo gli occhi.
Ora il dolore è solo fisico.
La paura defluisce.
La rabbia dura un po’ piú a lungo, come il gas nei tubi dopo che la stufa è stata spenta.
Lei dice: – Mi occuperò di te.
E io sento crescere dentro di me la gratitudine e la felicità: vecchie amiche a lungo dimenticate, che mi sono mancate molto.
Quando il dottore dice che posso andarmene, Mumtaz mi accompagna a casa con la mia macchina. Hanno ridotto i finestrini in frantumi, anche i triangoli posteriori, ma quando il motore torna in vita sorrido, consapevole degli strani muscoli che si flettono sul mio viso.
Mi sdraia sul letto della mia camera, chiude le tende e mi spoglia.
Poi rimedia un secchio d’acqua fredda, un panno morbido e un pezzo di sapone Pears. E mi lava.
Comincia con gli occhi, chiudendomeli con una carezza. Poi la gola, la clavicola, l’interno del braccio, la pelle tra le dita. Il petto, evitando la costola rotta, lo stomaco, le ossa del bacino. I piedi, gli stinchi. Le cosce.
Poi sento la sua bocca e sospiro, lentamente.
Dopodiché si spoglia anche lei e si lava. Si tocca. Quindi si sdraia accanto a me e mi guarda dormire.
Quando va via sono solo. Completamente solo. Speravo che riapparisse Manucci, ma non è piú tornato. Guardarmi mi spaventa, e ancora di piú mi spaventa passare la mano sana lungo la costola rotta, che si piega intorno alle parti molli, un buco nella protezione del corpo che mi traumatizza piú del buco tra i denti.
Quella notte vado a letto con la racchetta da volano, cercando di colpire le falene inutilmente, perché muovermi velocemente fa troppo male.
Quando sono solo mi è piú difficile sopportare il dolore. So che è un buon segno, il segno della vita che riprende possesso di me dopo il danno che ho subito, ma è faticoso da sopportare quando non c’è nessuno che mi guarda, nessun punto di riferimento, nessun indicatore che la lotta porterà da qualche parte. Puoi sorridere mentre un dottore ti cuce i punti o mentre un’infermiera ti infila una siringa nel posteriore, ma chi riesce a sorridere di fronte a un mal di testa che lo costringe a letto in una casa vuota? Io no. Non sono abbastanza forte.
Durante la notte il dolore aumenta. Gli analgesici aiutano, anche le canne aiutano, ma ciò che aiuta piú di tutto è l’eroina.
Trovo la roba nel cassetto del comodino, accanto al letto, dove è rimasta dalla sera in cui l’ho provata per la prima volta, e nel momento stesso in cui la vedo so che la voglio. È fantastica. Non elimina il dolore, ma dopo un solo tiro il dolore non ha piú importanza. È dolore senza male, come se non capissi ciò che i miei nervi mi dicono. Come se non credessi a quello che dicono.
Dico a me stesso che non la userò piú, a meno che non abbia davvero bisogno di sollievo. Non si scherza con l’«erotica». Non vorrei prendere il vizio.
Mumtaz arriva la mattina portando halva puri per colazione. Mangio dalle sue mani l’halva ancora calda. Bacia via le briciole dalle mie labbra. E mi porta pranzo e cena: omelettes e paratha, avvolti in carta di giornale unta. Anche candele. Fiammiferi. Manghi. Dentifricio.
Non le dico dell’«erotica».
Quando mi guardo allo specchio e vedo quello che mi hanno fatto, la rabbia distorce la mia immagine. Nutro la mia rabbia, trovo il mio centro in lei, ne traggo forza per la guarigione. Perché guarirò. Allora toccherà a me battere. E non sarò delicato con la mia mazza.
Lei capisce come mi sento. Sa come calmarmi.
Quando le racconto il modo in cui il mio corpo è stato fatto a pezzi, vengo preso dalla furia e grido fino a che, spossato, respiro a fatica per il dolore alle costole. Lei mi pulisce la saliva dal mento, mi culla la testa, e in qualche modo tappa la mia rabbia, la imbottiglia. Poco dopo comincio a sentirmi meglio. Imbottigliata, sotto vuoto, nemmeno la rabbia può esplodere.
Piú tempo resta con me, piú odio il momento in cui se ne va.
Una sera mi dice: – Ogni giorno il tuo aspetto si fa meno mostruoso.
– Lo stesso vale per te.
– Come ti senti?
– Piú forte.
– Bene, perché Ozi è tornato. Non riuscirò a venire cosí spesso.
Taccio.
– Sembri deluso, – dice.
– Lo sono.
– Be’, non posso darti torto. Neanche a me dispiacerebbe essere nutrita e lavata da te ogni giorno.
– Non è questo. Voglio vederti.
– Sono qui.
– Voglio vederti quanto ti vede Ozi.
– Sono meglio a piccole dosi, credimi.
Ho una fitta alla costola, ma lei fa scivolare una mano sotto la camicia fino al petto, e riesco a respirare piú tranquillamente, finché smetto di sentire il dolore.
Siamo a letto, nudi, una tortina al cioccolato con una candelina bianca e rossa accesa in equilibrio tra i miei capezzoli, bevendo spumante e fumando allegramente. Due settimane fuori dall’ospedale. Due mesi senza elettricità. Tre mesi da quando ho perso il lavoro. Ventinove anni dal primo schiaffo sul culo, dalla prima volta che ho pianto.
Oggi è il mio compleanno. La mia famiglia è già passata, strombazzando davanti al cancello finché i vicini non hanno cominciato a gridare e loro se ne sono dovuti andare. Non sono ancora pronto per affrontarli. E volevo stare solo con Mumtaz. Mi dice di esprimere un desiderio. Vorrei un lavoro, soldi, l’aria condizionata, la costola a posto, denti nuovi, dieci dita sane e la moglie del mio ex migliore amico. Poi soffio sulla candela. Il primo tentativo fallisce, ci riprovo, fremente per lo sforzo.
– Non dirmi i tuoi desideri, – dice lei.
– Sarebbe troppo lungo, – rispondo. E sorrido, perché in questo momento, con lei al mio fianco e la prospettiva di un pomeriggio indisturbato, sono quasi felice.
Prende il piatto dal mio petto e mi accarezza i capelli.
Chiudo gli occhi. – E tu cosa desideri? – chiedo.
Ci pensa. – Il dono della preveggenza, un po’ di coraggio e una macchina del tempo.
Sorrido. Mi piace il lento raschiare della sua voce, il modo in cui trascina le parole. – Perché?
– Cosí potrei tornare indietro di quattro anni, sapere in anticipo cosa mi aspetta se sposo Ozi e dirgli di no quando me lo chiede.
La mia testa comincia a pulsare, piena del sangue pompato freneticamente dal cuore. Apro gli occhi. – Quindi è stato uno sbaglio?
Si gira sul fianco. I suoi seni mi sfiorano le spalle. – Sono senza vestiti. Sto con te. Non sei mio marito. È chiaro che ho sbagliato da qualche parte.
– Lo hai mai amato?
Annuisce. – Lo amavo. E tu?
– Credo di sí.
– Che cos’è successo?
Qualcosa mi è rimasto incastrato tra i denti. Lo tiro fuori: un pelo. Forse una ciglia. – Non lo so. Un milione di cose. C’erano problemi fra noi anche quando eravamo piccoli. Era dispettoso, pieno di sé. Quando è partito ci siamo allontanati. Forse ho semplicemente capito chi era: non una brava persona. Un bastardo, anzi. Un egocentrico, falso, viziato piccolo bastardo…
– Smettila.
Il suo tono perentorio mi fa capire che ho esagerato, e mi mordo la lingua. Ma mi sento soffocare per tutto quello che non ho detto.
– Non farlo, – dice lei. – Non voglio parlar male di Ozi mentre sono qui. Non è giusto.
– Hai detto che sposarlo è stato uno sbaglio.
– Per me sí. Ma chi dei due è il problema, Ozi o io? Ozi è un buon padre. È dolce. È generoso. È intelligente…
Sento contrarsi i muscoli del petto. – È ricco. Ha tutto quello che vuole. È perfetto.
Si ritrae. – Perché sei tanto acido?
– È un bastardo.
– Non hai motivo di essere geloso.
Ho la bocca piena di sal...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il fumo della falena
  4. Capitolo primo. Uno
  5. Capitolo secondo. Giudizio (prima dell’intervallo)
  6. Capitolo terzo. Due
  7. Capitolo quarto. Aprendo la scatola purpurea. Un’intervista con il profes sor Julius Superb
  8. Capitolo quinto. Tre
  9. Capitolo sesto. Un uomo di peso
  10. Capitolo settimo. Quattro
  11. Capitolo ottavo. Che clima delizioso (o l’importanza dell’aria condizionata)
  12. Capitolo nono. Cinque
  13. Capitolo decimo. Moglie e madre (prima parte)
  14. Capitolo undicesimo. Sei
  15. Capitolo dodicesimo. Il migliore amico
  16. Capitolo tredicesimo. Sette
  17. Capitolo quattordicesimo. Giudizio (dopo l’intervallo)
  18. Capitolo quindicesimo. Otto
  19. Capitolo sedicesimo. Moglie e madre (seconda parte)
  20. Capitolo diciassettesimo. Nove
  21. Il libro
  22. L’autore
  23. Dello stesso autore
  24. Copyright