Vorrei parlare di Nishino.
Era un ragazzo strano. Non mi è mai successo, né prima di conoscerlo né dopo, di incontrare qualcuno come lui. A quel tempo credevo che di ragazzi come Nishino ce ne fossero un’infinità, ma mi sbagliavo. Mi aveva detto di pensare a me con nostalgia, e adesso è lui a mancarmi. Dov’è, cosa fa? È vivo? È morto? Sí, può darsi che sia morto. In ogni caso, la sua presenza è ancora forte nel mio cuore. Quindi, che sia al mondo o no, per me non fa molta differenza.
Nishino Yukihiko. All’epoca aveva diciott’anni. Non aveva colpe. E nemmeno particolari capacità. Era in buona salute. Il suo passatempo era fare il giro delle condotte di canalizzazione dell’acqua piovana.
«Sei mica Misono Nozomi?» sono le prime parole che mi ha detto.
Sentendo quella voce dall’alto, ho aperto leggermente gli occhi. La terza ora di lezione era stata annullata, cosí ero andata a distendermi nel prato del giardino sul retro, da sola. All’ombra dei gelsomini. In quella stagione erano carichi di fiorellini pallidi, e bastava mettersi lí di fianco per sentirne il profumo.
– Sí. Ma tu chi sei? – gli ho chiesto sollevandomi a metà.
– Mi chiamo Nishino Yukihiko. Sono al primo anno di economia.
– Ah sí? – ho detto fissandolo. I suoi capelli castani e lisci avevano un bel taglio. Indossava dei jeans, una maglietta bianca e sopra la maglietta una camicia jeans a maniche lunghe, della quale aveva lasciato aperti i primi tre bottoni.
Non ricordavo di averlo mai visto. Gli unici due studenti di economia che conoscevo frequentavano il terzo anno, come me.
– Tranquilla, non sono un individuo sospetto, – ha dichiarato Nishino sgranando gli occhi.
– Già presentarsi in questo modo è sospetto, – gli ho risposto ridendo. Ha riso anche lui.
– Vengo dal tuo stesso liceo.
Ah, ecco. Al liceo ero rappresentante di classe. Era raro che una ragazza fosse rappresentante di classe, e benché fossero già passati tre anni, quando tornavo a casa succedeva ancora che qualche ex compagno di istituto mi salutasse. Alcuni li conoscevo, altri no.
– E quindi?
A Tōkyō, dove ora vivevo per frequentare l’università, ero una studentessa come tante altre, anche se a casa ero una specie di star. Mi ero candidata a quella carica per curiosità, dicendomi che poteva essere un’esperienza interessante. Allo spoglio dei voti, quelli in mio favore erano in maggioranza schiacciante. A quel tempo e da quelle parti la parola «donna» aveva ancora un senso. Da allora ero diventata la celebrità della scuola.
Trasferendomi a Tōkyō, mi ero finalmente liberata di quella reputazione imbarazzante. D’altronde era proprio per questo che avevo scelto con cura un’università di medio livello, poco conosciuta nella mia zona. E come avevo sperato, da quando ero lí non avevo ancora incontrato nessuno del mio vecchio liceo.
– Scusa l’insolenza della domanda, ma è vero che vai a letto con chiunque? – mi ha chiesto Nishino sgranando di nuovo gli occhi. Non sapevo ancora che non era un suo vezzo, ma un suo tic quando parlava sul serio.
– La domanda è insolente, ma anche fissare la gente in quel modo è da maleducati. Non te l’ha insegnato tua madre? – ho ribattuto, dandogli sul polpaccio il dorso del quaderno ad anelli con gli appunti di termodinamica.
– Ahi! – ha fatto Nishino accovacciandosi. I rami del gelsomino, scossi, hanno sparso a terra alcuni fiori. Io mi sono alzata lentamente, mi sono scrollata i fili d’erba dai vestiti e me ne sono andata senza degnare Nishino di uno sguardo.
È stato circa un mese piú tardi che l’ho incontrato per la seconda volta.
Stava camminando insieme a una ragazza lungo il corridoio che porta alla facoltà di Lettere. Lei non mi sembrava una studentessa della nostra università.
Insomma, era una del genere «carino». Cioè, di tipe cosí ce n’erano parecchie anche da noi. Ma erano «mediamente carine», in sintonia con quell’università «di medio livello».
La ragazza che era con Nishino era molto piú che «mediamente carina». Era uno schianto. Carina all’ennesima potenza.
Doveva essere adorabile fin da piccola, quella lí, una veterana della seduzione. Al cento per cento sicura del proprio fascino.
– Ciao! – mi ha detto Nishino, con un cenno della mano.
– Ciao, – gli ho risposto. Non ero interessata a parlare con un villano come lui, ma mi incuriosiva l’abilità con cui aveva trascinato nella nostra università una ragazza cosí.
– Buongiorno, – mi ha salutata lei, facendo un piccolo inchino con la testa. Al suo fianco, Nishino era imperturbabile. Sembravano una coppia con diversi anni di matrimonio alle spalle.
– È la tua ragazza? – gli ho chiesto.
– Sí, – ha risposto lui senza alcun imbarazzo. – È Kanoko-chan.
– Niente «chan», per favore, – ha protestato vivacemente lei, mentre mi rivolgeva un sorriso garbato, al momento giusto.
«Ho sbagliato, – mi sono detta. – Avrei dovuto fare finta di niente e tirare dritto».
– Piacere, Misono. Be’, ciao –. Restituito il saluto, ho fatto per allontanarmi. Nishino aveva sempre la stessa espressione imperturbabile.
– Ma… – ha iniziato «Kanoko-chan», voltando solo gli occhi a guardarmi.
Era perplessa. Stranamente, si era resa conto che stare insieme a loro mi metteva a disagio. E, cosa ancora piú sorprendente, sembrava pensare che fosse imperdonabile da parte sua.
In questo caso, non potevo filarmela cosí. Sono rimasta ferma dov’ero, incerta.
– Lieta di averti conosciuta, – ha detto «Kanoko-chan» dopo qualche secondo di esitazione.
– Mh, – ho borbottato, già mezza girata.
«Kanoko-chan» mi è parsa rilassarsi un po’.
A volte mi chiedo cosa pensino i ragazzi dei rapporti di forza psicologici che si instaurano fra le ragazze: segreti, simili alle relazioni diplomatiche fra stati. È probabile che perlopiú non se ne accorgano nemmeno. Anzi, che neanche si immaginino che simili rapporti esistano.
Come previsto, Nishino si limitava a starsene lí con un sorriso innocente in faccia.
Questa volta ho dato loro le spalle. Ho sentito che Nishino diceva:
– Andiamo?
«Kanoko-chan» non ha risposto, ma dal rumore dei loro passi che prendevano lo stesso ritmo ho capito che si stavano allontanando beatamente insieme. Mi sono affrettata verso la facoltà di Scienze, dall’altra parte del campus.
Per molto tempo non mi è piú capitato di incontrare Nishino. Di quel passo, avrei finito per dimenticarlo.
Poi però è successa quella storia della condotta di canalizzazione. Se ho rivisto Nishino, è stata tutta colpa della condotta.
Quella settimana ero stata occupatissima. Il lunedí l’avevo passato con Minakawa. Il martedí, di giorno avevo visto Suzuki, verso sera Kaneko e dopo mezzanotte Munakata, che era venuto a trovarmi a casa. Mercoledí e giovedí non ero stata con nessuno perché gli esperimenti in laboratorio finivano tardi, ma venerdí e sabato avevo trascorso la notte da Nakajima.
Naturalmente ero andata a letto con tutti quanti.
Non so se fare sesso con cinque ragazzi diversi in una settimana sia una cosa fuori del comune oppure del tutto normale. In ogni caso, riguardo alla domanda che mi aveva fatto una volta Nishino – se andavo a letto con chiunque –, la risposta era «no».
Non mi succedeva mai di andare a letto con uno qualsiasi. Non facevo mai sesso con qualcuno che non suscitasse il mio interesse, assolutamente. Per me era pura e semplice curiosità. Come al liceo, quando mi ero candidata alla carica di rappresentante di classe.
Per questo motivo quella settimana avevo passato ore di intimità con quei cinque ragazzi. Perché fare sesso con qualcuno significa procurarsi momenti intimi. I ragazzi si abituavano a me e finivano col rivelarmi i loro lati nascosti. Diventavano piú spontanei. Piú semplici. E se le cose andavano per il verso giusto, magari si innamoravano di me.
La domenica l’avevo trascorsa da sola. Era il mio giorno di riposo, la domenica, me l’ero data come regola. Facevo il bucato, pulivo la stanza, preparavo da mangiare. Guardavo distrattamente la tele – una partita di baseball, una maratona, un incontro di sumo quando era stagione. La curiosità non mi abbandonava, ma passare tutto il tempo in compagnia era faticoso.
Quando calava il sole, andavo in un parco del quartiere. Un parco piuttosto grande. C’era un’area riservata ai bambini, coi giochi e quella roba lí, e un’altra lasciata allo stato di prato incolto.
Era in quel prato che andavo sempre a mettermi. In piedi in mezzo alle erbacce che mi pizzicavano le caviglie, guardavo le altalene e gli scivoli. A quell’ora nel parco non c’era nessuno. Le altalene oscillavano lentamente al vento. Cigolavano. L’erba ai miei piedi frusciava.
Mi succedeva, i...