
- 352 pagine
- Italian
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Informazioni su questo libro
Londra, 1997. Il New Labour è al potere, il Brit-pop è al suo apice e l'industria discografica non è mai stata cosí bene. Forse. Steven Stelfox è un discografico di successo, alla costante ricerca della prossima hit. E non si ferma mai, grazie a una dieta fatta di cinismo, sesso e quantità smodate di cocaina. Del resto, stordirsi è l'unico modo per resistere in un ambiente pieno di colleghi incompetenti e spietati, per i quali la musica è l'ultimo degli interessi. Un posto dove i sogni degli altri bruciano nelle fiamme dell'inferno. Ma via via che i successi si fanno piú rari, e la scena musicale inizia a sentire i venti della crisi che la cambierà per sempre, Stelfox capisce che è tempo di prendere sul serio - anzi, alla lettera - il motto alla base del mondo degli affari: mors tua vita mea.
«American Psycho incontra X Factor in un profluvio di cattiveria scintillante e gratuita. Probabilmente vi assorderà, ma sarete cosí impegnati a divertirvi che non ci farete caso».
The Guardian
«Dire che questo libro è una satira dell'industria musicale sarebbe un eufemismo. È un assalto durissimo, scabroso e sferzante a tutti gli aspetti di un sistema corrotto. E fa anche ridere».
The Independent
Domande frequenti
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Informazioni
Gennaio
I dischi dei Kula Shaker e dei Jamiroquai arrivano al doppio platino. La Warner Brothers detiene il 18,4 per cento del mercato discografico. In Inghilterra «Say What You Want» dei Texas è il singolo piú passato alla radio. Ci sono due nuove band, i Peccadilloes e gli Embrace, molto gettonate. L’anno prima, novità assoluta nella storia, l’industria discografica inglese ha fatturato oltre un miliardo di sterline. Il nuovo album dei Gene s’intitola «Drawn to the Deep End». Paul Adam, il talent scout della Polydor, dichiara: «Sono convinto che con questo disco sfonderanno».
Scouting: ramo dell’industria discografica che si occupa di trovare e migliorare nuovi talenti.
Sono in ufficio, mi sto fumando una sigaretta e sto guardando fuori dalla finestra mentre ascolto un tizio, un qualche manager, che spara cazzate in vivavoce. Cinque piani piú sotto un gruppo di neri – una band, credo – ciondola nel parcheggio. Il vetro è fumé, color miele, e loro non possono vedermi. Fuori è inverno, si gela e il loro respiro sale insieme al fumo della cannetta che si stanno passando, avvolgendoli in una nuvola grigiastra. Piú in là, lungo il Tamigi, all’altezza di Hammersmith Bridge, c’è un manifesto gigantesco di quel nuovo tizio laburista, Tony Blair. Dove avrebbero dovuto esserci le pupille, il poster è stato strappato e lí ardono un paio di occhietti rossi: occhi infernali, demoniaci.
Torno a guardare il parcheggio: adesso uno dei ragazzotti si è appoggiato alla mia macchina, se ne sta con le mani in tasca tutto stravaccato contro la mia Saab argentata, come se fosse il bancone del pub sotto casa sua. Lo tengo d’occhio mentre con la testa do nuovamente retta alla voce che blatera dal vivavoce. Dice cose tipo:
– Piú la Emi, la Virgin e la Chrysalis. La Warner/Chappell farà il lancio e, be’, questo non dovrei dirlo, ma…
Ma va’: è confermato un grosso investimento in pubblicità televisiva?
– È confermato un grosso investimento in pubblicità televisiva.
– Cavolo, – dico, come se fosse ’sta gran cosa.
– Ma tu sai che noi preferiamo te, – risponde il cretino.
– Va bene, manda pure.
– È ancora grezzo, eh. Vietato farlo girare.
– Chiaro.
– Ottimo. Ciao, Steven.
– Ciao… – Ci penso su un attimo. – Ciccio.
Appena riaggancio, entra Rebecca. Sono quasi le undici, cioè l’alba da queste parti. – Buongiorno, – dice, piazzando una pila di lettere sul tavolino, accanto alla pila dei demo delle nuove band – i Cuff, i Fling, i Santa Cruz, i Magic!, i Drive, i Montrose Avenue – che Darren, uno dei talent scout, mi ha lasciato da supervisionare.
– Rebecca… – dico, senza smettere di guardare dalla finestra.
– Sí?
– Potresti interrompere qualsiasi cosa tu stia facendo, correre giú e ordinare alla security di andare a scrostare quel negretto del cazzo dalla mia macchina?
Lei uggiola, fingendosi disgustata, e si avvicina alla finestra.
– Oddio, e quelli chi sono? – dice, con un ciuffo dei lunghi capelli biondi in bocca.
– Cazzo ne so. Qualche mezza sega ingaggiata da Schneider. Quel rabbino usa i cioccolatini come un’arma. Contro di noi.
– Sei tremendo! – Mi dà una leggera gomitata poi va verso la porta, tutta giuliva perché sono di buon umore. – Lí c’è la posta. Non ti dimenticare che a mezzogiorno hai la riunione con il commerciale –. Rebecca è una stanga con due canotti al posto delle labbra. Belle gambe. Tette niente male. Però il viso sta perdendo smalto: lievi zampe di gallina intorno agli occhi, solchi sempre piú profondi agli angoli della bocca. Ha un paio d’anni piú di me – si avvicina pericolosamente ai trenta – ed è single da far spavento. Deve risolvere questa cosa e lo sa. Oggi porta una minigonna di tartan praticamente a pelo, scarpe da ginnastica e una T-shirt attillata nera dove campeggia la scritta TROIA formata da borchie di diamante. Come tutte le ragazze che lavorano qui – a parte Nicky, quella che fa l’estero, cosí cozza che mi irrita anche solo trovarmi nella stessa stanza con lei – Rebecca si veste come una mignotta d’alto bordo.
– Rebecca… – dico quando arriva alla porta.
– Sí? – dice, girandosi.
– Il mio albergo? – La settimana prossima devo andare a Cannes per il Midem e al momento, a seconda della persona a cui decido di credere, Rebecca e la nostra inservibile agenzia di viaggi non sono riuscite a trovarmi un albergo decente.
– Ci sto lavorando, Steven. Rilassati –. E fa per andarsene.
Io le credo perché Rebecca, come la maggior parte delle femmine, ama organizzare le cose per gli altri. Ciò che la rende piú felice è avere l’agenzia di viaggi su una linea, British Airways sull’altra e due o tre guide dei migliori alberghi al mondo squadernate sulla scrivania. Mi fa sempre strano che una persona ami organizzare dei viaggi per me anche se non mi accompagnerà mai, non si godrà mai nulla di questo. Non capisco che senso abbia progettare qualcosa da cui non otterrai mai una mazza. Sarà la mentalità femminile, forse: ricavare piacere dall’idea che il volo arriverà in orario, che ci sarà un tavolo prenotato al ristorante, che l’albergo sarà sfarzoso ed eccezionale.
– Ah, Rebecca… – Si gira di nuovo, sforzandosi di non sbuffare. – Ti trovo carina oggi –. (La carota e il bastone).
– Grazie, – risponde, con un sorriso timido. Be’, timido quanto può essere il sorriso di una che solo l’anno scorso avrà succhiato almeno una trentina di cazzi. – Anche tu.
E ha ragione. Ho appena passato un mese in vacanza – Thailandia, Vietnam, Australia – e ho un’abbronzatura da paura. Porto un maglione di cashmere a v, jeans neri e mocassini scamosciati neri, tutta roba nuova di pacca.
Lei se ne va e io do un’occhiata alla posta, quasi sempre buste imbottite e sigillate con dentro un demo. Mi prende la solita stizza perché spessissimo cannano il mio nome: c’è «Stalefox», «Stellfax» e un demente è riuscito perfino a scrivere «Stellarfix». Mi chiamo Stelfox. Steven Stelfox. Poi mi dedico al nuovo numero di «Music Week». Un tizio che lavora lí è morto. Infarto a trentadue anni. Brutta storia. Bruttissima storia, cazzo.
Mentre sfoglio sento il pavimento tremare, la superficie del caffè nero si increspa e alzo gli occhi appena in tempo per notare Waters che transita con passo pachidermico lungo la parete di vetro che separa il mio ufficio dal resto del piano. Dovete vederlo, Waters. Sull’uno e novanta, centodieci chili. Stringe un foglietto e cerca di sembrare concentrato nel risibile tentativo di nascondere un hangover megagalattico. Ha il viso paonazzo e gli occhi infossati, la fronte costellata di gocce di sudore. (Fare qualsiasi cosa, alzare la cornetta, comporre un numero di telefono, porta Waters a sudare come il porco disgustoso che è). Mi fa un gesto di scherno, allungando l’indice e il mignolo della sua gigantesca zampa sinistra. A ruota lo segue quella nutria di cane, un piccolo Jack Russell. Pensa che portare quel topo merdoso in ufficio lo renda eccentrico, interessante. E invece sembra un vero coglione. Come nel brontosauro, la sua colossale struttura è mossa da un cervello grande quanto un acino, e questo cervello-acino, di per sé non molto dinamico, è stato ulteriormente strapazzato da anni di abuso cronico di bamba. Gli faccio un inutile cenno professionale, giusto per fargli notare che è in ritardo, e prendo il telecomando.
Guardo VH1 per un po’ – i Blur, i Radiohead, gli Oasis e i Brand New Heavies – e sto per spegnere quando appare un breve trailer sugli imminenti Brit Awards. Ci sono i Dodgy, i Chemical Brothers, i Prodigy, i Longpigs, i Mansun. Mi accendo un’altra sigaretta e guardo un’intervista con Ellie Crush. «Cioè, – dice, – lo so che c’è gente che pensa che una donna non ci riesce a fare tutto quello che faccio io. Che è una marionetta, no? No? Cioè, invece no, sono qui, mi scrivo i testi da sola e mi faccio gli arrangiamenti e faccio anche il resto. No? Le mie canzoni vengono da qua». Si porta una mano aperta all’altezza del cuore.
Ellie Crush, candidata come Migliore Promessa, è una ragazza di ventun anni cresciuta a Londra est e scoperta da Parker-Hall, un tizio della Emi. Il suo disco d’esordio, acclamato dalla critica, è uscito la scorsa primavera e non è andato oltre il numero 63 della classifica. E, grazie al cielo, sembrava morta lí. Game over. Adios, sfigata. Invece, lentamente, orribilmente, il disco ha cominciato a vendere. Il passaparola. All’improvviso hanno imbroccato un singolo che è andato forte in radio e l’album ha beccato il disco d’oro. Non voglio nemmeno pensare a cosa potrebbe diventare quel disco di merda, a dove potrebbe arrivare Parker-Hall, se Ellie Crush vince il premio. Mi segno di fare una telefonata amichevole a quel coglione.
«Perché è di questo che si parla, no? – sta dicendo Ellie Crush all’intervistatore, – l’integrittà. No?» Abbasso il volume mentre lei si mette a sproloquiare qualcosa sulla pace nel mondo o altre scemenze del genere.
Interessante, ricordo di essere stato alla festicciola per la firma del contratto un anno fa e qualcuno ha usato quell’espressione, «integrità artistica», davanti a lei. Lei è cascata dal pero e ha chiesto al suo manager, e non era una domanda retorica: «Che cos’è l’“integrittà”?» Insomma, una mezza analfabeta. Una che, solo un annetto fa, avrebbe succhiato la formaggia dallo scroto avvizzito di un barbone pur di ottenere un contratto ed ecco che adesso sproloquia di «integrità» e chissà quali altre stronzate. Quando non vendono niente, è un dramma. Quando vendono tanto, è anche peggio. Perché allora tutto a un tratto questi idioti, questi ignoranti che hanno finito a fatica la scuola media, questi disperati con due neuroni in croce, visto che qualche centinaio di migliaio di persone appartenenti al Grande Pubblico Inglese (sí, le bestie) gradisce le loro quisquilie e risponde a livello primitivo ai loro versicoli, credono di avere qualcosa di rilevante da dire su qualsiasi cosa, dall’indice di Borsa al processo di pace in Medio Oriente. Quindi la prossima volta che vedete qualche stellina candidata a un Brit Award o a un Grammy che parte con il fervorino tipo «Sono una donna forte e indipendente con delle idee interessanti», ricordatevi di questo, che è solo per un caso insignificante, un brivido sconvolto di serendipità, il piú improbabile dei miracoli, che tutti quei discorsoni non finiscono con le parole: «Mi scusi, signore, ma questa cassa sta chiudendo» o «Per il culo fanno altre venti sterline, cocco».
Gira voce che Ellie Crush stia cominciando ad andare forte negli Stati Uniti. Se dovesse accadere è possibile che venda milioni di copie invece delle poche centinaia di migliaia necessarie a fare di un disco un successo ragionevole qui da noi. So che Parker-Hall ha una bella percentuale perché ho fatto sbronzare il suo avvocato alla festa di Natale. Se il disco decolla sul serio negli Stati Uniti, Parker-Hall potrebbe diventare milionario. Ha venticinque anni. Due meno di me. Ammettere la possibilità del suo successo mi fa venire le vertigini. Mi viene da svenire. Da vomitare. Cerco di non pensarci, mi accendo un’altra sigaretta e faccio qualche acquistino, accorgendomi con una certa meraviglia che lo scorso dicembre sono riuscito a spendere quasi duemila sterline in «entertainment».
A dire il vero non è proprio corretto dire che la mia mente sia in grado di pensare a una cosa, a una qualsiasi cosa, a lungo. Ecco come funziona l’interno del mio cranio: immaginate un’enorme parete piena di schermi fino al soffitto, decine di schermi, come si vede tipo nel quartier generale della Nasa. Per tutto il tempo diversi di questi schermi mandano solo pornografia: schermate e schermate di primi piani – alcuni cosí ravvicinati che si sgranano tanto da perdere senso – di cazzi spaventosamente grossi che pompano dentro e fuori dalle fiche, vibratori sgargianti che spanano buchi del culo, nerchie che scivolano dure e imperiose in mezzo a tette lubrificate. Altri schermi mandano roba finanziaria: grafici con i prezzi immobiliari di Londra, broker della City che sbraitano nei loro blazer a righine, grafici a torta sulle quote di mercato dell’industria discografica, mazzette che vengono impilate, bilanci, cifre in rosso, cifre in nero, operazioni in attivo, operazioni in perdita. Qualche schermo manda video di band e cantanti: artisti che ho messo sotto contratto in passato, nuovi artisti che stiamo pensando di mettere sotto contratto, artisti di successo che avrei voluto mettere sotto contratto e non ci sono riuscito (queste sono le immagini piú fastidiose). Una breve fila di monitor distanti, accatastati lassú in un angolo polveroso, manda filmati random di colleghi e rivali che subiscono torture medievali.
In testa ho anche degli omini. Sono dei tecnici con le camicie a maniche corte, le penne nel taschino, le cuffie in testa, una tazza di polistirolo piena di caffè. Se ne stanno lí con la faccia da bambascioni davanti ai monitor. Non sono contenti di niente. Loro lo sanno che c’è un guasto. Ma pare che non riescano a farci niente. Si aggirano qui e là e gridano di tutto. Si raggruppano preoccupati intorno a computer impazziti. Scuotono il capo leggendo stampate assurde e borbottano: «Non può essere, che cazzo». Ma i monitor continuano a mostrare quella roba.
Ecco come ci si sente, lí dentro: come se ci fosse una missione spaziale in corso, ma ormai fuori controllo.
Prima di scendere per andare in riunione prendo il mio tascabile di Scatena il mostro che è in te, scritto da un guru americano del self-help, tale dottor David S. Hauptman, e lo apro a caso: «In ogni epoca nascono uomini che, nel profondo dell’anima, sanno di essere dei guerrieri. Ma non sono rimaste piú guerre da combattere. Che cosa devono fare, allora, questi uomini?»
Mentre esco dall’ufficio sento arrivare, dall’angolo della contabilità, l’eco di un festeggiamento, schiamazzi e bottiglie che vengo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
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- Aprile
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