Ecco, se devo trovare l’inizio di questa storia, è un sabato di maggio lungo una strada di campagna, una di quelle che costeggiano rotaie e canali d’irrigazione e dove ci si può fermare a mangiare le more e i mirtilli. Era pomeriggio – tardo pomeriggio, a essere precisi – e all’improvviso la mia esistenza prese una piega che non avevo considerato.
Accadde come a volte accadono le cose. Un attimo prima la vita procedeva lenta e costante: famiglia, amici, scuola. Poi sbam, fu come se il tempo si fosse risvegliato dal suo sonno cosmico e uno smottamento rimescolò tutto.
Ma insomma. Andiamo per ordine.
Mi chiamo Max. All’epoca del pomeriggio in questione avevo diciannove anni e stavo tornando a casa in bicicletta dopo una giornata trascorsa a lavorare nella rivendita all’ingrosso Carati e Rovelli Agricoltura e Bricolage. Carati siamo noi, la mia famiglia. Rovelli è il socio di mio padre. La rivendita è appena fuori Magnano, il paese in cui abito, a venti minuti di treno da Padova. Non credo abbiate mai sentito parlare di Magnano e se è successo è facile che sia per un delitto passionale avvenuto alla fine degli anni Settanta, quando un piccolo imprenditore aveva avvelenato la moglie con la stricnina e l’aveva sepolta in giardino. Il fatto era avvenuto in un vecchio edificio padronale che da allora giace in stato di abbandono. Frequentavo le medie quando avevo scoperto che l’omicidio ammantava la nostra squadra di basket di una inquietante autorevolezza.
– Voi siete quelli che state dove il tipo ha ammazzato la moglie e…
– Sí.
– Mai entrati nella casa?
– Certo. Un sacco di volte –. In effetti era una prova di coraggio cui nessun adolescente del paese poteva sottrarsi.
A quel punto, di solito, ci chiedevano di descriverla e noi partivamo di invenzioni: simboli satanici tracciati col sangue di maiale, presenze, respiri nell’ombra. Siamo sempre stati molto temuti, noi magnanesi, ai tornei interscolastici. E io avevo persino una carta in piú da giocarmi. La rivendita di mio padre è a cinquecento metri «dalla villa del terrore» e anche se la Carati e Rovelli Agricoltura e Bricolage è solo un magazzino che odora di mangimi e segatura, dove si possono acquistare concimi, vernici, piccole frese manuali e una quantità di altri attrezzi da lavoro, ecco, la sua vicinanza a quel luogo mi rendeva una specie di autorità in materia.
Comunque, quel sabato pomeriggio tornavo a casa dopo aver dato una mano al socio di mio padre perché lui, papà, si era dovuto assentare. Stavo pedalando lungo la strada che costeggia la ferrovia con il cellulare in tasca; Kendrick Lamar mi urlava nelle orecchie parole incomprensibili che mi facevano venire voglia di andare a vivere in un posto in cui invece avessero un senso. Ma non pensate a me come al solito giovane smanioso di fuggire dalla mediocrità della provincia. Tanto per dire: arrivavo dalla rivendita Carati, un posto che a me è sempre piaciuto. Quei prodotti per far crescere le piante, nutrire gli animali e trasformare la materia, non so perché ma mi hanno sempre fatto sentire bene. Prossimo all’essenziale. E mi piaceva, da ragazzino, stare lí con papà, rendermi utile, indicare a un cliente dove trovare un certo tipo di vanga o di concime. Ma allo stesso tempo, a venti giorni dalla fine della quinta liceo, a poche settimane dall’esame di maturità, percepivo fortissimo il richiamo della vita oltre il confine della galassia conosciuta.
Stavo pedalando, dicevo, quando una vibrazione mi suggerí che avevo ricevuto un messaggio; tenni stretto il manubrio con la sinistra e infilai in tasca la destra. Era mamma che chiedeva se mi fermavo per cena o se mi vedevo con Filippo e gli altri. Alzai lo sguardo. Pensai che non avevo programmi e che la seconda stagione di Mr. Robot mi aspettava sull’hard disk, cosí stavo per risponderle che rimanevo a casa quando sullo schermo apparve la notifica di una mail; d’istinto cliccai per aprirla, ma il riflesso del sole mi infastidiva e mi spostai a destra, in cerca di ombra.
Ma che…?
Lessi le prime righe e frenai di colpo. Troppo di colpo. La ruota anteriore centrò una radice che aveva increspato l’asfalto. Persi il controllo della bici. Mi sentii sbalzare. Nel tempo che impiegai a toccare terra pensai a come evitare di spaccare il cellulare; che mi spaccassi io aveva di gran lunga meno importanza. Lo strinsi nella mano sollevando il braccio, ma nel momento stesso in cui atterravo sulla spalla sinistra, avvolto da un clangore di ferraglia, il telefono mi sfuggí. Lo vidi rimbalzare e scivolare. Strisciai a prenderlo, fregandomene del dolore al ginocchio. Smanettai sullo schermo senza neppure alzarmi e ripresi a leggere dal punto esatto in cui mi ero interrotto.
Strinsi i denti per il male, lessi e di nuovo pensai: Ma che…?
Il sole filtrava tra le foglie di un castagno disegnando coriandoli di luce tutt’intorno e la brezza mi solleticava i capelli.
Appena entrato in casa mamma sbucò dalla cucina per salutarmi, e il suo sorriso mutò in una smorfia: si portò la mano alla bocca, sgranò gli occhi. – Oddiomio! – disse. – Che ti è successo?
Mi guardai allo specchio: i jeans erano stracciati in diversi punti e dallo squarcio sul ginocchio sbucava un lembo di pelle sanguinolento; mano e avambraccio erano graffiati; la maglietta bianca era sporca del sangue della mano e il dolore alla spalla mi costringeva a stare chino in una posizione da sciancato.
– Niente.
– Come niente?
– Niente. Caduto in bici.
– Ti hanno investito?
– No. Tranquilla. Sono io che…
Sentimmo grattare nella serratura della porta e un istante dopo apparve mio padre.
– Ehilà! – disse, vedendoci lí riuniti.
– Che ci fai già qui? – chiesi. – Non eri a Padova a chiudere l’affare con quel tipo degli impianti di depurazione?
Papà scosse la testa. – Mi sa che è l’affare che ha chiuso con me.
– Guarda tuo figlio… – mormorò mamma, indicandomi con la mano aperta.
– Ehi! Che ti è successo?
– Caduto in bici.
– Ti hanno investito?
Ruotai gli occhi nelle orbite. – No… sentite, datemi un secondo… – Girai sui tacchi.
– Aspetta. Ti disinfetto, – disse mamma. – Dove vai?
– In camera… un secondo…
– Non sporcare il letto di sangue, – gridò ancora lei.
Presi il computer tappezzato di adesivi: il negozio di videogiochi vicino a casa, l’esperimento sociale di Bea, il logo di due band punk viste con gli amici. Lo accesi. Aprii la mail con il cuore suonato da un percussionista pazzo. Il ginocchio faceva un male cane. Rilessi la mail. Rullo. La rilessi ancora. Piatti. E ancora. Grancassa. E poi.
Ora devo fare un passo indietro e spiegarvi alcune cose su di me, la mia famiglia, i miei amici, giusto per fare chiarezza e permettervi di sistemare ogni tessera del mosaico al suo posto, se no finisce che non ci capite niente.
Sono figlio unico. Nato dall’amore di due persone deliziose e meravigliosamente simili a milioni di altre persone deliziose nate e vissute per tutta la vita in un luogo simile a milioni di altri luoghi, retto da regole semplici e sincere non prive di una certa ottusità. Daniele Carati, mio padre, è figlio unico: entrambi i suoi genitori, i miei nonni, sono di Magnano. Sonia Armanino, mia madre, è figlia unica: un genitore è di Magnano, l’altro è un immigrato di Castelrosso, a venti chilometri da qui. Mia mamma lavora in uno studio dentistico, fa la segretaria. Mio padre, come detto, possiede il quarantanove per cento della Carati e Rovelli Agricoltura e Bricolage. L’appartamento in cui viviamo l’hanno acquistato con l’eredità di una vecchia zia e per ristrutturarlo hanno fatto un mutuo. Mia madre mette da parte lenzuola e piatti per quando mi sposerò e in cantina abbiamo sei scatole piene di vestiti e giochi di quando ero piccolo che vorrebbe tramandare ai miei figli di cui non vede l’ora di occuparsi.
Io sono sempre stato un tipo tranquillo.
Per tranquillo intendo che ho sempre fatto ciò che gli altri si aspettavano facessi, senza eccellere, senza arrancare: scuola, sport, parrocchia, i lavoretti presso la rivendita di papà ricompensati da paghette da spendere in fumetti prima e da mettere da parte per pagarmi i concerti poi. Sono cresciuto con Filippo, Andrea, Beatrice e Anna. Filippo e Anna li ho conosciuti all’asilo, Beatrice in prima media e Andrea in terza. Il mio unico scarto rispetto a chiunque mi circondi a Magnano è sempre stata la passione per l’informatica. Nessuno in casa ha mai avuto questo genere di interesse. Mia mamma è una tipa da Nokia 3310 e mio papà ha comprato uno smartphone alcuni mesi fa ma non lo ha ancora usato perché ha paura, nel trasferimento dei dati, di perdere la rubrica; neanche avesse i numeri di chissà chi. Filippo suona la chitarra acustica. Andrea a quindici anni lavorava già in nero con lo zio che si occupa di escavazioni e tensostrutture. Il rapporto piú intenso che i miei amici avevano con l’informatica si risolveva nell’uso dei social: Anna su Instagram, ma giusto una foto ogni tanto; Beatrice su Facebook, per ricevere le notizie del mondo Lgbt.
Io, invece, dei social me n’ero sempre fregato, mentre poco piú che bambino avevo cominciato a programmare seguendo dei tutorial su YouTube, passione che mi aveva fatto perdere qualche serata al pub e qualche festa, ma non tante, e comunque non le occasioni piú importanti. A quattordici anni ho creato il sito Internet della squadra di basket, poi quello dell’Estate ragazzi e infine quello della Carati e Rovelli Agricoltura e Bricolage, su cui era possibile effettuare ordini e prenotazioni. A sedici arrotondavo facendo lavoretti di informatica per tutto il paese e a diciotto, riflettendo sull’università e indeciso sulla facoltà da scegliere, ho iniziato a pensare che ci sarebbe voluta un’applicazione che facesse esattamente questo: aiutare gli studenti a decidere, incrociando gusti, carattere e obiettivi con corsi e indirizzi e quant’altro. Cosí ho iniziato a lavorarci. E due mesi prima del pomeriggio in cui mi schiantai in bici avevo caricato l’applicazione su una piattaforma. Poi era arrivata quella mail da un certo Lorenzo Mutti, fondatore di un incubatore di start-up, alla quale avevo risposto dando il numero di telefono; telefono che era squillato nemmeno mezz’ora dopo, giusto il tempo di disinfettare ginocchio, mano e avambraccio.
– Pronto?
– Massimo Carati?
– Sono io.
– Sono Lorenzo Mutti dell’ePark.
– Sí… – Avevo la lingua gonfia e la mascella rigida come per una paralisi; alla batteria che mi era stata installata al posto del cuore il percussionista pazzo aveva lasciato posto al solo e unico John Bonham, batterista dei Led Zeppelin. – Mi dica…
– Massimo, ti chiamo per la tua applicazione, quella per l’orientamento. Be’, volevo farti i complimenti. Hai avuto una magnifica idea e l’hai realizzata bene, davvero bene.
– Grazie.
– Sai come ci sono inciampato?
– …
– Nel modo migliore. Grazie a mio figlio. Tu quanti anni hai?
– Diciannove.
– Diciannove? Oh! – La voce era quella di uno che si è portato la mano alla fronte...