1. Messaggio in bottiglia.
Cosmopolita.
Tornato dal mio viaggio piú lontano, l’indomani
Mi è chiaro che io del viaggiare non capisco nulla.
Rinchiuso nell’aereo, per ore immobile,
Sotto di me nuvole, che appaiono come deserti,
Deserti che appaiono come mari, e mari,
Simili a folate di neve, attraverso cui si vaga
Al risveglio dalla narcosi, capisco,
Cosa vuol dire errare lungo i meridiani.
Al corpo si ruba tempo, agli occhi la quiete.
La parola esatta perde il suo luogo. La vertigine
Sale con lo scambio fra aldilà e qui
In diverse religioni, in molteplici lingue.
Ovunque le piste sono ugualmente grigie e ugualmente
Chiare le stanze dei malati. Lí nello spazio di transito,
Dove tempo vuoto invano mantiene in stato di coscienza
Si avvera un proverbio dei bar di Atlantide.
Viaggiare è pregustare l’inferno1.
[Kosmopolit.
Von meiner weitesten Reise zurück, anderntags | Wird mir klar, ich verstehe vom Reisen nichts. | Im Flugzeug eingesperrt, stundenlang unbeweglich, | Unter mir Wolken, die aussehn wie Wüsten, | Wüsten, die aussehn wie Meere, und Meere, | Den Schneewehen gleich, durch die man streift | Beim Erwachen aus der Narkose, sehe ich ein, | Was es heißt, über die Längengrade zu irren. || Dem Körper ist Zeit gestohlen, den Augen Ruhe. | Das genaue Wort verliert seinen Ort. Der Schwindel | Fliegt auf mit dem Tausch von Jenseits und Hier | In verschiedenen Religionen, mehreren Sprachen. | Überall sind die Rollfelder gleich grau und gleich | Hell die Krankenzimmer. Dort im Transitraum, | Wo Leerzeit umsonst bei Bewußtsein hält, | Wird ein Sprichwort wahr aus den Bars von Atlantis. | Reisen ist ein Vorgeschmack auf die Hölle].
Basta che un poeta sia sulla breccia da abbastanza tempo e non gli viene risparmiato che i suoi versi s’impiglino nelle reti a strascico che si chiamano antologie e facciano ingresso nei libri di scuola. Al piú tardi a questo punto gliene capitano di belle. Si pretenderà da lui che spieghi chiaramente, che informi in modo esauriente e approfondito su questo o quel particolare punto della sua opera. Gli viene offerto di tenere lezioni di poetica, i supplementi domenicali dei giornali riservano determinate colonne alle sue autoesplorazioni. Lo investe una marea di domande cui deve rispondere, deve prendere posizione nei confronti di questa o quella formulazione azzardata che gli è sfuggita tanto tempo prima. In Germania sono principalmente gli insegnanti a esigere questo genere di rendiconto, poi quelli che vanno pazzi per l’arte, quella clientela fissa delle visite guidate che non salta una galleria e arriva perfino ad andare per conto proprio in archivi. Bussano alla sua porta professori universitari in pensione, cacciatori di postille, collezionisti di ritagli di giornale, bibliomani. E tutti hanno scovato subito, con la loro curiosità da detective, la pista giusta. Da quello che ho detto è chiaro che è capitato anche a me, perché nessuno che oggi scriva e pubblichi sfugge a un siffatto trattamento. E non da quando esistono media che 24 ore su 24 pungolano ciascuno a partecipare e condividere in una società che è libera dall’interattività solo in occasioni straordinarie, ad esempio in una sala da concerto durante un brano sinfonico (La mer di Debussy, op. 109) o un discorso commemorativo quando regna come stato d’eccezione il silenzio e l’ascolto.
Oggi vorrei soffermarmi con voi su un verso, uno solo dei miei versi, l’ultimo di Cosmopolita.
Appartiene a quel genere di passi intricati dell’opera di un autore che – è garantito – gli procurano lettere da parte dei lettori e, qualche volta, una conversazione a quattr’occhi al termine di una lettura in pubblico. Sono momenti in cui non di rado l’autore si trova nel massimo imbarazzo. Ad esempio quando confessa che alcune delle cose che ha scritto un giorno sono diventate un enigma per lui stesso; che esistono passi che, riletti ad anni di distanza, provocano anche a lui un certo senso di disagio e ad ogni modo esigono un’interpretazione. Non c’è nulla da rivedere, nulla da attenuare, di colpo però sa cosa s’intendeva con il paragone tra la poesia e un messaggio nella bottiglia (che sembra cosí logoro ma che ha la sua giustificazione). Per lunghissimo tempo è stata sballottata dalle onde nell’alto mare del mondo dei libri, in quel mare delle parole stampate divenute mute, e ora rieccola ai suoi piedi, gettata a riva dalla risacca. A message in a bottle, come si dice nella lingua della classica nazione di navigatori: un brandello di testo sigillato, che non ha destinatario, salvo chi per caso passeggia sulla battigia, che lo ripesca e inizia, stupito, a leggerlo. Di questo genere è anche la poesia alla base delle riflessioni che seguono.
Un solo verso, dicevo, ma di quelli che sollevano molta polvere. Ed è questo effetto di ritorno, conseguenza di tutto il non detto e dell’implicito che tracima da ogni parte, a costringere chi voglia sondare questo verso a prendere le cose un po’ alla lontana. Può darsi che mi porti oltre i confini del paese, anche oltre i confini della lirica contemporanea, non si può garantire una via diretta. Sarà inevitabile qualche escapade in letterature straniere, in culture antiche. Il tema è tale che forse, alla fine, tutto potrebbe apparire come l’odissea di una coscienza esposta all’oceano dei simboli. Non è da escludere nemmeno un naufragio. Perché senza rischio non si riesce ad avere la smisurata esagerazione insita in quello che asserisce questo verso: «Viaggiare è pregustare l’inferno».
2. Poesia come navigazione.
Odissea? Oceano? Naufragio? Non sono solo metafore, similitudini inconsistenti? E cos’hanno ancora da dirci nel mondo di oggi, cosí progredito nella tecnica dei trasporti, cosí terribilmente acceleratosi? Perfino tenendo presente con il massimo scrupolo che similitudine e metafora, paragone e analogia sono procedimenti dell’arte espressiva quanto mai differenti, che per ragioni di chiarezza concettuale occorrerebbe tenere nettamente distinti, rimane però il dilemma del loro legame con la tradizione. E poiché sono per lo piú di antica data, viene da chiedersi quali delle buone locuzioni antiche funzionino ancora nel quotidiano di un’epoca che è al di là delle tradizioni. O, forse, si deve pensare che le immagini poetiche siano storicamente piú resistenti delle tesi e delle teorie? Alla fine, pur con tutta la modernizzazione, dinamizzazione e, in definitiva, globalizzazione, i fondamenti e i tratti profondi dell’immaginazione umana non sono sempre gli stessi? E non è forse questa una delle ragioni della sorprendente capacità della poesia di resistere al tempo? Ho notato che sono occasioni ben determinate quelle in cui anche oggi (o oggi piú che mai) gli uomini confidano nella forza di resistenza che ha la parola stampata. Sono i grandi momenti, i momenti unici, i momenti di tragedia o di festa – la proposta di matrimonio, il funerale, la ricorrenza civile – nei quali si getta l’ancora della citazione poetica nella corrente vorticosa del tempo. Sembra un discorso molto astratto, ecco quindi un esempio.
Una delle similitudini piú antiche è quella della poesia con la navigazione. Conosciamo dalla filosofia il topos della nave come modello dell’anima umana da un lato e dello Stato politico dall’altro; sono stati però i poeti, memori delle qualità dinamiche di questo veicolo-metafora, a ricavare dall’immagine il massimo della forza drammatica. Come simbolo del distacco, del rischio della vita, la nave, dall’Odissea a Moby Dick, l’epos melvilliano della caccia alla balena, è stata tra le immagini che piú hanno ispirato gli autori e ha avuto corso finché la civiltà occidentale si è fondata sull’espansione. E non solo quella occidentale, anche la letteratura cinese, persiana, araba sono piene di esempi di imprese marittime eroiche nello stile delle avventure di Sindbad il marinaio. Orazio, in una delle prime odi, dove prega il mare di non recar danno a Virgilio, l’amico poeta in viaggio verso Atene, trova ovvio celebrare la navigazione in chiave di segreto trionfo sugli dèi. Come se il Mediterraneo del suo tempo non fosse stato tutto un cimitero di navi, scrive con la piú grande disinvoltura, schernendo il vecchio Nettuno:
Nequiquam deus abscidit
prudens Oceano dissociabili
terras, si tamen impiae
non tangenda rates transiliunt vada2.
Sarebbe possibile oggi recitare un inno simile per un aereo? O abbiamo forse smorzato, nel complesso, i toni celebrativi nei confronti dei nostri moderni mezzi di trasporto? Viene da chiedersi perché non si scrivono odi per tutti questi Airbus, Boeing ed elicotteri, neanche una minuscola elegia per il Concorde, che è l’unico aereo supersonico ad aver trovato impiego nel trasporto passeggeri, appena finito nel Museo della Tecnica.
Può darsi che questa generale stanchezza nei confronti della tecnica, anzi questa avversione per la tecnica da parte dei poeti, trovi le sue ragioni in un’ambivalenza di fondo, già insita nell’antichissima immagine della nave. I rischi eroici, l’incredibile arditezza dei dominatori del mare in «epoca talassica» si sono trasformati nelle attuali catastrofi della nostra «civiltà oceanica» (per richiamare concetti messi in circolazione dal geofilosofo tedesco Ernst Kapp nel 1845). Chi, all’idea di un piroscafo lussuoso e di una traversata atlantica, non pensa subito anche al Titanic e all’iceberg? E questo piú di cent’anni dopo l’evento, superato ormai innumerevoli volte quanto a numero di vittime, non però in intensità narrativa. Le fantasie delle traversate marittime e della circumnavigazione del globo si sono capovolte tutte in negativo. Sono finite anche le ondate di entusiasmo suscitate fino a ieri dalle macchine tecnicamente piú avanzate nell’evoluzione dei trasporti: aerei a reazione e missili, space shuttles e treni a levitazione magnetica. Questo crollo d’euforia era stato però preceduto da tempo da un’altra fantasia dei poeti in cui la tecnica dei sommergibili e la science fiction marittima davano vita, mescolandosi, a una forma estrema di fuga dal mondo: quella di chi gli volge completamente le spalle. Il Capitano Nemo nel suo Nautilus, l’eroe del romanzo Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, è il prototipo di questo tipo di evoluzione. Deluso da un’umanità che ha totalmente sottomesso e colonizzato la terra, diventa uno scalatore alla rovescia, uno spregiatore della terraferma. Anche il mare tuttavia – il mare che, da Odisseo al capitano Achab, il cupo macellatore di balene, è stato depredato e conquistato dai pirati e dagli Stati, venendo infine rinchiuso in una rete di trasporti tesa tutt’attorno al mondo – non fa piú per lui. Il misantropo radicale si vede costretto a scomparire – letteralmente scomparire – sott’acqua. Al critico della civiltà industriale non resta altro rifugio che il fondo del mare. Laggiú, però, tra le piovre giganti e una fauna degli abissi per sua natura ostile all’uomo, sottratta alla vita nella luce e nella libido, tace ben presto anche il cantico dei cantici della poesia come navigazione. Laggiú sono senza valore, definitivamente fuori corso, tutte le locuzioni a noi intimamente care e familiari raccolte da uno studioso come Ernst Robert Curtius: la vacillante barca dello spirito, un topos già nella tarda antichità, le vele dell’interpretazione di cui parla san Girolamo, il navigante solitario in mezzo al mare, l’approdo finale al porto della salvezza. Laggiú non ha piú senso alcuno la nave come «metafora dell’esistenza», tematizzata in tutte le sue sfumature nel grande studio di Hans Blumenberg Naufragio con spettatore. Anche il naufragio stesso, una volta che siano varcati tutti i confini, si rivela un mero episodio, e poco importa quanto spesso si ripeta anche ai giorni nostri. Non siamo piú in riva al mare, nella posizione classica del filosofo che, secondo Lucrezio, osserva con piena tranquillità d’animo gli altri che stanno per naufragare. Ma anche l’Allegria di naufragi di Ungaretti, composta nel caos dell’Europa del 1917, non basta piú da quando la televisione ci ha abituato a vedere catastrofi ogni giorno. È la fine della dimensione metaforica e di ogni euforia del linguaggio, vale a dire la fine dei mezzi atti a stimolare e generare estasi, che si basano da tempo immemorabile sulla tecnica dei trasporti. Intendo dire che a questo punto ogni letteratura si trova in un’impasse, inizia a giocare con l’idea della rottura, mette in forse se stessa senza prospettive di risposta. Guardando alla fossa delle Filippine e alle fosse atlantiche, antichità e modernità collassano in una comune finitezza di prospettive. Contemplate da laggiú, la tradizione e l’immanenza di ogni presente sono in egual misura senza luogo e obsolete. Ormai si sente solo il Capitano Nemo e il suo disgusto per gli orrori terrestri, il balbettio dell’escapismo: «Il mare non è dei despoti… Il mare è veicolo d’una vita prodigiosa: è amore e moto, è, come un vostro poeta ha detto, l’infinito vivente… Ah, vivete, vivete nel mare! Solo là si è indipendenti! Solo là non ho padroni! Solo là mi sento libero!»3.
Per tornare al discorso astratto: cos’è il momento d’azione di una metafora? È, come ritengono alcuni filosofi, il suo genuino autismo? L’autismo che la rende cosí enigmatica e proprio per questo seducente? Le metafore come meri prodotti linguistici sono raffigurazioni riferite completamente a se stesse, immagini volte in se stesse con un riferimento comunque debole al mondo esteriore? Sappiamo cosa significa questo concetto, prendere una cosa per un’altra. In base al principio del quid pro quo una raffigurazione viene sostituita da un’altra per mezzo di uno stratagemma, quasi un trucco da prestigiatore, che si chiama «traduzione». È questo, sappiamo, il significato originario del termine greco metaphoros. E quanto piú lontano è il rapporto delle due parti di una metafora, quanto piú lungo il salto dal quid al quo, tanto piú forte è l’effetto di sorpresa. Una volta ad Atene ho visto in una strada laterale un camion di mobili che aveva la scritta Metaphora. Era fermo con il piano di carico aperto e sul marciapiede erano accatastate le masserizie del trasloco. Da allora non mi esce piú di mente il significato pratico della parola. Una metafora è dunque una vettura per il trasloco, trasferisce carichi di significato da qua a là e in cabina ci sono i poeti, che chiacchierano e guidano. A mettere in moto la metafora è però l’immagine ideale sopita in tutti noi e venuta da chissà dove. Partendo da una di tali immagini ideali o immagini iniziali (Platone avrebbe detto una idea innata) vorrei ora iniziare un piccolo giro poetologico: alcune brevi passeggiate sott’acqua con cui cercherò di trovare, accerchiandolo via via, un luogo che in effetti è stato indicato per la prima volta da Platone e che da lui ci viene tramandato. Si parlerà del mito di Atlantide, quell’Ur-topos che collega il tramonto di civiltà, la loro scomparsa per vie naturali, con la paura suscitata dall’indifferenza del mare; poi della fuga dal mondo come segreto momento narrativo della poesia moderna, testimoniato dalla vistosa frequenza di invenzioni fantastiche che hanno per oggetto gli abissi marini: si pensi, solo per fare alcuni nomi, a Jules Verne, a Lautréamont, a Baudelaire, a T. S. Eliot. Mi soffermerò inoltre su Dante, severo capostipite di tutti loro, e sui suoi sorprendenti viaggi per mare, sempre collocati in punti cruciali della Divina Commedia. A integrazione alla Poetica dello spazio di Bachelard sosterò brevemente sull’immagine isolata dei bar, il modello dell’estensione del tempo nello spazio piú ristretto, in ossequio al motto secondo cui la poesia è rara. Sarà poi la volta della figura del cosmopolita, dell’uomo ipermobile dei nostri giorni, preso nel vortice delle tecniche di trasporto piú avanzate. Concluderò con il sogno di un museo sott’acqua, l’ultimo luogo ideale in cui possono raccogliersi i poeti dopo che tutto è stato vissuto, tutto è stato detto. Andrà messa in conto una certa desultorietà, ma ognuno dei brevi excursus, snodandosi secondo modalità proprie, contribuisce a quella escursione complessiva catalizzata dai versi finali ricordati all’inizio.
Chi parla in questa poesia si trova in un aeroporto internazionale, nel momento dello scalo, del nuovo check-in, e riflette sul viaggio appena portato a termine. Una situazione standard, familiare a chiunque, tale da destare sensazioni condivise di impotenza, dato che probabilmente la comunità di coloro che vengono sballottati qua e là per il mondo costituisce ormai una maggioranza: quella delle persone de facto sospese ovunque nell’aria, smaltite con la tecnica dei trasporti, neutralizzate sociologicamente. In altr...