Viso arrossato, labbra screpolate. S’era guardata allo specchio anche quel giorno, entrando in casa. Aveva posato le chiavi, la borsa, e s’era tolta il cappotto. Gesti meccanici.
Metà novembre, il primo pomeriggio di un martedà di metà novembre. Le foglie secche stazionavano un po’ nel vento prima di cadere, poi cadevano. E un sole nemmeno tiepido cercava di scaldare il mondo, faceva finta.
Dicevano che l’inverno sarebbe stato duro. Freddissimo come non s’era mai visto. Lo dicevano perché l’estate era stata torrida, e c’è quella specie di regola: se d’estate ha fatto molto caldo, d’inverno farà molto freddo.
Katia aveva chiuso la cassa all’una precisa come tutti i martedÃ. Unico suo pomeriggio libero. C’era anche il sabato, ma era un’altra storia, il sabato è festa per tutti, non conta. Il martedà invece gli altri lavorano, e lei si sente strana a tornare a casa all’una, in pieno giorno, mangiarsi due avanzi in cucina, ciondolare tre ore e poi agghindarsi per andare a prendere Leone, agghindarsi si fa per dire. Strana e fortunata, ad avere quella libertà .
Anche se l’una doveva essere l’ora piú calda, si gelava. Dal supermercato a casa aveva fatto la strada di corsa, per limitare il fastidio di quel gelo, soprattutto alle mani. Dimenticava sempre i guanti. Ci pensò in quel momento in cucina, mise da parte il piatto, quel giorno erano polpette, e andò in ingresso, afferrò i guanti che trovò abbandonati sulla consolle e li ficcò nella tasca del cappotto. Fatto. Una cosa fatta. Cosà li aveva già in tasca e non poteva dimenticarseli. I vecchi guanti di sua madre, di finto camoscio, beige, sciupati sulle dita.
Quando tornò in cucina, non aveva piú voglia di mangiarsi le polpette. Buttò i resti nella pattumiera dell’organico e passò il piatto sotto l’acqua, con uno spruzzo di gel. Lo guardò per un attimo colare, verde, denso, sul bianco della ceramica. Sembrava quel gioco di Leone, un barattolo che conteneva gelatina colorata, lui ne prendeva un po’ e la sbatteva contro i muri, contro i mobili, per vederla colare a poco a poco, fino a terra; stava a guardare quella scia, quella bava, in che modo si faceva lunga e sottile e poi di colpo, come richiamata da qualcosa di misterioso, tornava a essere una palla compatta. Pronta a venire rilanciata. Strano gioco. Strano materiale, elastico. Chi glieli regalava quei barattoli, a suo figlio, la vicina del piano di sopra? Doveva dirle di smettere, che sporcava le pareti.
Il tempo di fare qualche lavoro in casa, e alle quattro uscÃ. Era solo un isolato, ma voleva arrivare prima, almeno un quarto d’ora in anticipo. Era un regalo che si faceva, a meno che qualcosa glielo impedisse, ma doveva essere qualcosa di veramente grave, perché ci teneva, a quel quarto d’ora. Le piaceva aspettare suo figlio che usciva da scuola, voleva non perdersi il momento, anzi, allungarlo. Se arrivava in orario si guastava il piacere.
Si metteva sul marciapiede di fronte, contro il muro della casa. Da là vedeva bene il cancello, ancora chiuso, e stava a guardare le altre mamme, che come lei aspettavano. Guardava com’erano vestite, cosa facevano. Molte le conosceva, quasi tutte, perché andavano al suo supermercato e spesso passavano da lei alla cassa. Difficile poi non conoscersi, al Bussolo, che era stato un paese a sé, una volta. Quando lei era piccola. Poi la strada provinciale era diventata un lungo viale alberato pieno di caseggiati nuovi, e il Bussolo adesso era tutt’uno con la città , uno dei tanti quartieri nella periferia nord, il piú estremo, che finiva nei prati perdendosi nel nulla. Conservava però quell’aria distaccata di paese, piccolo, raccolto, strade ordinate e costruzioni basse, giardinetti, la piazza con la chiesa, il campetto da calcio.
Katia era nata lÃ. La sua casa era proprio l’ultima, faceva angolo. Poi solo i prati, a cento metri. Una volta era un casolare di tre piani con la scala esterna, ma una volta, quando c’erano i nonni che facevano i contadini e la terra intorno la coltivavano a grano. Per entrare in casa si saliva da quella scala. Poi i nonni si erano ritrovati senza soldi e avevano venduto, e il nuovo proprietario aveva deciso di ristrutturare e frazionare. Ora c’erano tre appartamenti, una famiglia per piano, piú le soffitte affittate a studenti. Loro s’erano tenuti l’appartamento al primo piano. La scala esterna era rimasta, anzi, faceva da segnale: la chiamavano «la casa della scala», al Bussolo. Anche se era una scala inutile che non portava piú da nessuna parte, sbatteva contro la soletta del balcone e moriva lÃ. Per entrare si passava dal portoncino in vetro al pianterreno. C’era anche l’ascensore, era quasi un condominio.
Katia ci stava bene, in quell’appartamento al primo piano che da una parte affacciava sul viale trafficato e dall’altra guardava ancora il silenzio dei prati. Si sentiva un po’ al confine, tra città e campagna, tra il mondo com’era stato e il nuovo che cominciava. Ci stava bene, cosà a metà .
A volte chiacchierava con le altre mamme, il martedà pomeriggio. E a volte no, preferiva rimanere per conto suo, a osservare, finché il bidello non apriva e la fiumana dei bambini si riversava fuori, correndo e urlando, i berretti storti, gli zaini buttati su una spalla sola. Non ci poteva credere che Leone avesse già sei anni, che facesse la prima elementare. Non poteva credere nemmeno d’avere un figlio, d’averlo partorito lei, sei anni prima, e che ora andasse nella stessa scuola dov’era andata lei da piccola, e che a poco a poco le era diventata estranea. Adesso era una di quelle mamme che aspettano i figli davanti a scuola, com’era stato possibile? Era questo stupore che andava a godersi ogni volta, il martedÃ.
Lo vide uscire tra gli ultimi, correva piano, quasi al rallentatore. Guardava ovunque tranne che davanti, dove l’avrebbe vista. Sempre cosÃ. Spaesato, sperso. Un bambino che sembrava essersi perduto in mezzo a qualcosa, un bosco di notte nell’era dei dinosauri. O era solo la sua apprensione di madre? Si staccò dal muro, si sbracciò chiamandolo forte: – Leone! – Ma lui non la vedeva. O faceva finta. Allora gli andò incontro, gli sollevò lo zaino dalla spalla per portarlo lei, gli avvolse meglio la sciarpa intorno al collo e gli disse, piú o meno come tutti i martedÃ:
– Andiamo che fa freddo e la mamma ha fretta.
La mamma ha sempre fretta. Al mattino lo sveglia tirandogli giú le coperte e mandandogli un bacino al volo. Lui sente solo l’aria che si smuove intorno, e se fa svelto ad aprire almeno un occhio vede l’ultimo lembo della camicia da notte di sua madre svoltare oltre la porta. Poi la voce dal corridoio gli chiede:
– Sei sveglio o no?
Certo che è sveglio, se lo sveglia.
La colazione sono i due tazzoni gialli sul tavolo. Il suo è già strapieno di fiocchi di mais intrisi di latte. Deve dirlo, a sua madre, di metterglieli all’ultimo, cosà restano crocchi. Li deve mettere quando lui arriva, non prima, quando è ancora in bagno e chissà quanto ci mette, dipende dalla cacca se gli viene subito o no. Deve dirgliele, queste cose. Ma ogni volta si dimentica.
Il tazzone di sua madre invece è vuoto. Lo riempie di caffè all’ultimo e se lo beve in piedi, un sorso ogni tanto viaggiando, volando, dal frigo al gas e dal gas alla dispensa. In camicia da notte. Vola, sua madre. Mai che si sieda un attimo, già vestita, per esempio con i jeans e la felpa a righe da marinaio che piace a lui; mai che facciano colazione seduti e vestiti uno di fronte all’altra. Ha una madre volante. Coi capelli lunghi a riccioli e le maniche larghe. A volte gli sembra un angelo che è finito in quella loro cucina e cerca di svolazzare senza cielo. O anche un moscone quando rimane intrappolato dietro i vetri e non riesce a uscire.
Buffa questa storia dei mosconi. Ne capitano tantissimi in casa, soprattutto d’estate. Se ne stanno a ronzare dentro senza trovare un’uscita, ed è strano perché magari girano proprio ai bordi della finestra e la finestra è aperta, e se per caso è chiusa lui corre ad aprirla proprio perché possano andarsene. Invece rimangono a ronzare manco fosse una prigione. Ma che prigione, se è aperto? Non vedono che i vetri sono spalancati? Sono stupidi? Lui qualche volta li accompagna. Cerca di prenderli con la mano per accompagnarli fuori, ma gli scappano. Anche perché sono cosà neri e grossi che un po’ gli fanno schifo, e non sa se ha davvero voglia di tenerli in mano.
Anche quando viene a riprenderlo da Miranda, sua madre ha fretta. A volte non sale neanche, suona al citofono e glielo dice da lÃ: «Mandami giú Leone». Lui allora si sente un cestino. Un cestino come quello che ha visto in un paese con le strade strette e le case appiccicate, una volta, in vacanza. C’era una donna dal balcone che mandava giú un cestino vuoto e una ragazzina in strada che glielo riempiva di sacchetti della spesa e poi urlava: «Alza!»
Oppure sua madre quando sale si trattiene poco, giusto il tempo di ringraziare. Gli infila la giacchetta, gli pulisce la bocca col fazzoletto se ha i baffi di cioccolata.
Sempre quella storia dei baffi. Anche quando non li ha, lo strattona e gli dice: – Vieni che ti pulisco i baffi.
Poi c’è il martedÃ.
Leone aspetta il martedà pomeriggio tutta la settimana. Comincia ad aspettarlo appena finisce: sei giorni e mezzo di attesa.
Il meglio è la mattina del martedÃ. Non assomiglia a nessuna delle altre mattine, è speciale. Come fare colazione a casa o essere portati al bar a mangiare il cornetto. Il martedà mattina è il cornetto. Un cornetto farcito, non di quelli vuoti. Il martedà pomeriggio viene la mamma a prenderlo a scuola. Quindi il martedà mattina gli comincia il pensiero. Marmellata pura. Densa, sugosa.
Alle quattro e mezza suona la campanella. E lui fa lento il piú possibile. Cerca di metterci secoli. Ripone nello zaino i quaderni ma non a mucchio tutti insieme, uno per uno. Poi il diario, i libri anch’essi uno per uno, con cura; le matite, i pennarelli e la gomma nel portapenne. Va in corridoio a infilarsi la giacca a vento, ci mette una vita a tirar su la cerniera lampo, mai capito perché si chiama lampo visto che s’incastra tutte le volte, e scende le scale con gli altri, ma piano, rallentando i passi. Finisce che esce sempre per ultimo, per forza. Lo fa apposta, cosà dura di piú. Fa apposta anche a non vederla, sua madre, appoggiata al muro della casa di fronte che lo cerca cogli occhi, lo chiama, gli fa cenno con la mano e infine gli corre incontro. Invece la vede benissimo. Conosce il punto esatto del muro dove si appoggia, potrebbe disegnarci sopra la sagoma. Ma è troppo bello come lo cerca, e come poi corre ad abbracciarlo, manco fosse la prima volta al mondo.
Naturalmente sua madre ha fretta. Ha sempre fretta, ma il martedà pomeriggio di piú. Non vanno subito a casa, lei deve fare sempre un centinaio di cose tutte di corsa una dopo l’altra. Sono le cose che non riesce a fare nel resto della settimana, quando può? Ha solo quel pomeriggio libero, gli dice, deve farci entrare tutto in quel pugno di ore. Davanti al cancello della scuola gli ficca in mano una tortina confezionata e un succo di frutta. È la sua merenda. «Mangia camminando che facciamo prima», gli dice aprendogli lei la confezione, con i denti. Quando ha finito la tortina, gli riprende il cartoccio del succo di frutta per forarglielo con la cannuccia, e glielo restituisce forato, pronto da bere. Come se lui non fosse capace di forarselo da solo. Poi gli dice: «Dà i che è martedà e dobbiamo fare un sacco di commissioni». Lo piglia per mano e lo trascina, costringendolo a passi cosà lunghi che a un certo punto gli sembra di volare, diventa uno di quei cestelli pieni d’acqua che stanno appesi agli aerei spegni incendi.
La cosa che proprio non capisce è perché, se sua madre ha tutta quella fretta, si fermi di continuo davanti alle vetrine. Volano come aerei e poi di colpo, d’improvviso, fermi. Fermi come i pali della luce. Anche un bel po’ di minuti. Lui la tira, le scuote la manica ma niente, non si muove. Piantata come un tronco. Allora prova ad avere pazienza. Sua madre gli dice sempre che deve avere pazienza, e lui ci prova. Ha imparato che l’unico modo è mettersi a contare. Contare lo distrae, e allora gli viene anche la pazienza, insieme alla distrazione. Conta fino a ottanta novanta, certe volte. Cosà è un tempo abbastanza lungo e sua madre è contenta.
Ma comunque non capisce cos’hanno quelle vetrine, con quale colla la tengono incollata.
Leone non capiva, perché un bambino di sei anni non può capire che sua madre lavora al Gi Kappa, è la cassiera della cassa n. 19, e nella sua vita non c’è tempo, e nemmeno soldi. Ma le vetrine sÃ, ci sono.
Le vetrine. Guardarle era gratis e le dava un gran piacere. Quindi, non appena riusciva a scovare un brandello di tempo, oppure quando non trovandolo decideva comunque di prenderselo, Katia si concedeva di guardarle. C’erano vetrine che la attiravano con una calamita piú potente. Per esempio quelle di scarpe, di vestiti, o di roba per la casa, tovaglie, padelle. Anche occhiali da sole. Aveva, per quelle vetrine, una passione speciale. Una passione – come dire – oculare, perché erano cose che poteva solo desiderare e possedere con gli occhi; lo stipendio bastava a malapena a tirare avanti. Ma le andava bene lo stesso, non varcava la soglia di nessun negozio e si riempiva gli occhi di cose.
Il problema era che, se si fermava a guardar vetrine, non ce la faceva a far tutto e alla fine le veniva un senso di colpa. Per fortuna Leone era un bambino buono. L’aveva capito subito, appena l’aveva messo al mondo. Era in camera con altre quattro donne che avevano appena partorito come lei, le infermiere passavano a portare a ognuna il suo bambino da allattare e succedeva questo: che tutti i bambini piangevano, avidi di latte, tranne il suo. Glielo depositavano accanto, impacchettato nella tutina troppo larga, uno scriccioletto di poche decine di centimetri che la guardava con due occhi scuri e non diceva niente. Non strillava. Se gli dava il latte bene, se no pazienza, lui non chiedeva. Buono. Era un bambino buono.
Leone era nato troppo piccolo, sottile come un giunco. Katia si diceva che forse non aveva ancora la forza di prendersi il latte, ecco perché non succhiava come gli altri: doveva crescere un po’, rinforzarsi, prima di diventarne capace, era per questo. Quanto a crescere poi era cresciuto, ma non molto, a sei anni era alto come la ruota di una bici e suo padre lo chiamava Nano.
Il padre di Leone era Oscar Fenz, un uomo grosso e barbuto. Guidava un furgone bianco con su scritto LATTE DELLA CENTRALE, e il suo lavoro era scaricare casse di bottiglie e cartoni nei negozi e nei supermercati. Uno scaricatore. Massiccio come una montagna, non pensava di meritarsi uno scricciolo di figlio. Quando glielo avevano mostrato dai vetri della sala neonati, aveva detto: «Ma non è un po’ ragnetto?»
Katia avrebbe voluto chiamarlo Enrico, s’era accarezzata quel nome per nove mesi. Ma il giorno in cui dovevano fare il certificato Oscar aveva preso una sedia, si era seduto accanto al letto là in ospedale e le aveva detto che era meglio chiamarlo Leone, che tutto dipende dal nome che ti porti addosso, come diventi e cosa fai nella vita, e che il nome Leone gli avrebbe fatto bene di sicuro. Sapeva solo lui cosa intendeva, Katia era molto stanca e non ci aveva nemmeno provato, a capire. Aveva fatto di sà col capo.
Leone non divenne un leone, e suo padre le poche volte che stava con lui lo chiamava Nano, mai Leone. Lo vedeva due volte al mese, secondo quanto pattuito dagli avvocati. Il venerdÃ. Arrivava verso le sette col furgone del latte, a fine turno, e se ne andavano un po’ a spasso anche se ormai la giornata era finita e faceva già buio, a volte a piedi a volte sul furgone. Leone preferiva sul furgone.
A cena lo portava sempre al McDonald’s di via Piacenza, dove conosceva la Maria. Chiedevano due Big Mac e due patatine col ketchup e Maria li serviva meglio che gli altri. Questo lo diceva suo padre, gonfiava il petto e gli diceva: «Hai visto? Ci ha messo tre sacchettini di ketchup, non due». A volte suo padre gli sembrava un bambino.
Si sedevano a un tavolo e cominciava l’incubo dell’hamburger, perché il Big era sempre troppo grosso per lui ma non osava dirlo. Suo padre gli faceva: «Mangialo tutto», e lui dava tre o quattro morsi, ma il panino era cosà alto che non riusciva a schiacciarlo bene con i denti, e il ketchup schizzava da tutte le parti e gli colava fin nel collo. Dopo pochi tentativi andati a buca, lo cedeva a suo padre, che lo finiva di malavoglia brontolando.
Le patatine invece Leone se le mangiava tutte, una dopo l’altra, mentre suo padre gongolava e gli chiedeva della scuola, della maestra, del minibasket, e se coi compagni si faceva valere. «Mi raccomando, Nano».
Leone non sapeva cosa voleva dire, quali cose dovesse fare, ma rispondeva di sÃ, che si faceva valere. Allora si davano un bel cinque col palmo della mano aperto, poi si alzavano dalle sedie, portavano i vassoi nel raccoglitore e uscivano.
Nel viaggio di ritorno non dicevano niente, Leone faceva finta di morire di sonno. Di solito erano le dieci quando suo padre lo riportava a casa, suonava al citofono dicendo «Siamo noi», saliva con lui ...