
- 320 pagine
- Italian
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eBook - ePub
In fondo alla palude
Informazioni su questo libro
Harry ha undici anni e passa gran parte delle giornate, come tutti i ragazzini di quell'età, a pescare sulle rive del fiume Sabine e a scorrazzare per i boschi insieme all'amato cane Toby e la sorella Tom. Sono tempi duri, c'è la Depressione, ma a lui non serve molto altro per essere felice. La sua vita però cambia quando scopre il cadavere martoriato di una donna nera nelle acque della palude. Inizia cosí la grande avventura che lo porterà a varcare per sempre il confine che segna la fine di ogni infanzia, quel punto oltre il quale il mondo smette di essere abitato dai mostri e inizia a riempirsi dei fantasmi che tormentano le esistenze degli adulti.
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Informazioni
Print ISBN
9788806240455eBook ISBN
9788858430187Parte prima
1.
Ci sarà pure stata gente coi soldi, ma noi non eravamo tra quelli. C’era la Depressione. E anche a essere stati di quelli coi soldi, non si poteva comprare un granché a parte maiali, galline, ortaggi, e visto che ai primi tre ci pensavamo da soli, non restava che procurarsi quel poco altro di necessario, spesso barattandolo.
Papà coltivava un po’ di terra, e dove vivevamo noi la roba non veniva su male. Il vento si era portato via quasi tutto il Nordovest del Texas, insieme all’Oklahoma, ma la parte orientale era di un verde lussureggiante, la terra era fertile e c’era abbastanza pioggia da far crescere le piante alla svelta e belle robuste. Anche nei periodi secchi il terreno tendeva a trattenere l’umidità, e se un raccolto non era buono quanto avrebbe potuto ce la cavavamo lo stesso. Infatti quando il resto del Texas era rinsecchito e ridotto in polvere, a est ogni tanto si scatenavano degli incredibili temporali, a volte addirittura delle inondazioni. Capitava piú spesso di perdere un raccolto per la troppa pioggia che non per la siccità.
Papà aveva anche una bottega di barbiere, aperta tutti i giorni tranne la domenica e il lunedí, e si occupava di far rispettare la legge, perché nessun altro voleva fare quel lavoro. Per un certo periodo era stato persino giudice di pace, ma poi aveva deciso che era piú di quel che desiderava; l’incarico era passato a Jim Jack Formosa, e papà non faceva che dire quanto Jim Jack fosse maledettamente piú bravo di lui a celebrare matrimoni e certificare che uno era morto stecchito.
Abitavamo in mezzo al bosco vicino al fiume Sabine, in una casa bianca con tre stanze che papà aveva costruito prima che nascessimo. Avevamo un buco nel tetto, nessuna corrente elettrica, una stufa a legna che faceva fumo, un fienile pericolante, una veranda dove poter dormire con una zanzariera rattoppata e un gabinetto esterno amatissimo dai serpenti.
Usavamo le lampade a cherosene, tiravamo su l’acqua dal pozzo, ed eravamo sempre a caccia e a pesca per riempire un po’ di piú la dispensa. Possedevamo quattro acri di terreno disboscato, e altri venticinque acri di boschi di pino e latifoglie. Coltivavamo i quattro acri di terreno sabbioso con l’aiuto di una mula di nome Sally Redback. Avevamo una macchina, ma papà la usava piú che altro per le sue faccende da tutore dell’ordine e per la chiesa la domenica. Le altre volte si andava a piedi, oppure, io e mia sorella, in groppa a Sally Redback.
I nostri boschi, cosí come le centinaia di acri di bosco che circondavano la proprietà, erano pieni di selvaggina, pulci e zecche. A quei tempi il Texas orientale non era ancora stato disboscato per il legname e non c’era bisogno di un dipartimento di polizia forestale per spiegarci cosa servisse alla foresta per sopravvivere. Piú o meno c’immaginavamo che se aveva tirato avanti per secoli poteva continuare a cavarsela bene da sola. E i boschi allora non erano tutti di proprietà di qualcuno, anche se quella del legno era già una grossa industria che cresceva ogni giorno di piú.
Ma c’erano ancora alberi maestosi e posti sperduti nei boschi e lungo le rive fresche e ombreggiate del fiume; posti in cui nessuno aveva mai messo piede, a parte gli animali.
C’erano cinghiali, scoiattoli, conigli, procioni, opossum, qualche armadillo, ogni specie di uccello e un mucchio di serpenti. Capitava di vedere i mocassini d’acqua scendere il fiume a branchi, le loro teste malvagie che affioravano come bozzi sui tronchi di legno. Che brutto guaio per quelli che ci sono cascati in mezzo; e benedetti i poveri scemi che credevano di essere al sicuro nuotando sott’acqua, credendo che cosí i mocassini non potessero morderli. Non solo possono, ma lo faranno di sicuro.
Nel bosco c’erano anche cervi. Magari meno di quanti ce ne sono adesso che li fanno crescere come ortaggi, per poi raccoglierli nella stagione di caccia: tre giorni di sbornie appostati dietro un’altana con un fucile di precisione. Cervi tirati su a granturco e docili come animali domestici, per togliersi il gusto di sparare a colpo sicuro e provare la sensazione di aver cacciato sul serio. Gli costa di piú sparare al cervo, portarselo via col pick-up, far montare la testa a trofeo, di quanto gli costerebbe andare dal macellaio e comprarsi l’equivalente in bistecche. E poi ci sono quelli a cui piace spargersi in faccia il sangue dopo averli abbattuti e farsi fare le foto, come se li rendesse in qualche modo dei guerrieri. Ti viene da pensare che quei dannati di cervi fossero armati e pericolosi.
Ma sono passato dalle chiacchiere alle prediche. Stavo dicendo di come ce la passavamo. E parlavo di tutta quella selvaggina. Poi c’era l’Uomo Capra. Mezzo capra e mezzo umano, bazzicava dalle parti del ponte che tutti chiamavano Swinging Bridge. Prima dei tempi di cui vi sto raccontando non l’avevo mai visto, ma a volte di notte, fuori a caccia di opossum, mi era sembrato di sentirlo ululare e piagnucolare, giú vicino a quel ponte sospeso a mezz’aria sopra al fiume che ondeggiava nel vento al chiarore della luna, con i raggi pallidi che giocavano con i cavi come fate su un filo.
Si diceva che quella creatura rapisse le bestie e i bambini, e anche se non conoscevo nessuno dei bambini che erano stati divorati, qualche contadino sosteneva che l’Uomo Capra gli avesse rubato le bestie, e alcuni bambini si vantavano di avere cugini rapiti dal mostro e mai piú tornati. Si diceva che non si avvicinasse mai alla strada principale perché di lí ci passavano regolarmente i predicatori battisti, a piedi e in auto, per fare i loro giri, e quindi la strada era benedetta. La chiamavamo la Preacher’s Road, la strada dei predicatori.
Si diceva anche che l’Uomo Capra non usciva mai dai boschi che riempivano la bassa lungo il corso del fiume Sabine. Non sopportava le terre piú in su. Doveva sentire la poltiglia di foglie marce sotto i piedi, che poi erano zoccoli.
Papà diceva che non c’era nessun Uomo Capra. Che si trattava solo di un pettegolezzo da signore che girava per tutto il Sud. Diceva che quello che sentivo non era altro che il rumore dell’acqua e degli animali, ma credetemi, quei suoni facevano accapponare la pelle e non potevano non sembrare quelli di una capra in agonia. Cecil Chambers, che lavorava con papà nella bottega di barbiere, diceva che probabilmente si trattava di un giaguaro: ogni tanto capitava di vederne alcuni in mezzo al bosco, e potevano strillare come una donna, diceva Cecil.
Io e mia sorella Tom – be’ di nome faceva Thomasina, ma la chiamavamo tutti Tom perché era piú facile da ricordare e perché era un maschiaccio – gironzolavamo per quei boschi dalla mattina fino a quando non calava il buio. Non era strano per i bambini di allora. Quei boschi ci facevano quasi da seconda casa.
Avevamo un cane di nome Toby, un po’ segugio, un po’ terrier e un po’ quel che da noi si chiamava feist. Toby era un vero bastardo da caccia. Ma, nell’estate del 1933, aveva preso d’assalto un albero per abbaiare a uno scoiattolo che stava inseguendo, e un ramo marcio della quercia sotto cui si trovava gli era caduto addosso, colpendolo cosí forte da non fargli piú muovere né le zampe posteriori né la coda. L’avevo riportato a casa in braccio. Lui guaiva e io e Tom eravamo in lacrime.
Papà era nel campo ad arare con Sally Redback. Gli toccava sempre girare con l’aratro intorno a un ceppo rimasto nel mezzo: ogni tanto provava a prenderlo ad accettate alla base e poi a dargli fuoco, ma il ceppo era ostinato e rimaneva sempre lí.
Quando ci vide smise di fare quel che stava facendo, si tolse le briglie dalle spalle lanciandole a terra e lasciò Sally Redback nel campo legata all’aratro. Fece un pezzo di strada per venirci incontro mentre noi andavamo verso di lui per portargli Toby; lo adagiammo sul soffice terreno appena arato e papà gli diede un’occhiata.
A differenza della maggior parte dei contadini, papà non portava mai la salopette. Indossava sempre pantaloni kaki, camicia e scarpe da lavoro, e un cappello di feltro marrone. Per lui essere elegante voleva dire mettersi una camicia bianca pulita con una sottile cravatta nera, e per il resto portare i soliti pantaloni kaki, le scarpe da lavoro e un cappello meno malandato.
Quella volta si tolse il cappello cerchiato di sudore e si accovacciò, appoggiandolo su un ginocchio. Aveva i capelli castani che alla luce del sole lasciavano intravedere sfumature grigie. Il suo viso era affilato e gli occhi erano d’un verde tanto luminoso che, malgrado la loro dolcezza, sembravano passarti attraverso.
Fece ruotare le zampe di Toby e tentò di raddrizzargli la schiena, ma mentre lo stava facendo lui non smise di guaire nemmeno per un attimo.
Dopo un po’, come se avesse passato in rassegna tutte le possibilità, disse a me e a Tom di andare a prendere il fucile e di portare il povero Toby nei boschi e mettere fine alle sue sofferenze.
– Non vorrei costringervi a farlo, – disse papà. – Ma è quel che va fatto.
– Sissignore, – dissi, ma le parole mi uscirono di bocca strisciando, quasi avessero la schiena a pezzi, come Toby.
Al giorno d’oggi sembrerà crudele, ma a quei tempi non avevamo molti veterinari, e anche se fosse stato possibile non avremmo avuto abbastanza soldi per portarci il cane.
Un’altra differenza era che allora imparavi a conoscere cose come la morte già da piccolo. Non c’era niente da fare. Si allevavano e si ammazzavano galline e maiali, si andava a caccia e a pesca, e cosí ti ritrovavi sempre a farci i conti. Tutto sommato, forse avevamo piú rispetto per la vita noi di certa gente adesso, e non erano ammesse sofferenze inutili.
In casi come quello di Toby, dovevi sbrigartela da solo, senza scaricare a qualcuno la tua responsabilità. Non se n’era mai parlato, ma era chiaro che Toby fosse mio e di Tom, e che quindi toccasse a noi. E nello specifico, essendo io il maggiore, era compito mio e non di Tom.
Pensai per un attimo di rivolgermi anche a mamma, che era nel pollaio a far su le uova della sera, ma sapevo che non sarebbe stato di nessun aiuto. Su certe cose la vedeva proprio come papà.
Io e Tom piangemmo per un po’, poi prendemmo una carriola e ci caricammo sopra Toby. Avevo con me la calibro 22 per gli scoiattoli, ma per l’occasione andai in casa e la scambiai con il fucile da caccia calibro 16 a colpo singolo, in modo da evitargli ogni sofferenza. I ragazzini allora crescevano a contatto con le armi e imparavano a rispettarle e a usarle per ciò a cui servivano. Erano parte della vita di ogni giorno come la zappa, l’aratro o la zangola.
Responsabilità nostra o no, io non avevo ancora dodici anni e Tom solo nove. L’idea di sparare a Toby alla nuca, facendogli schizzare le cervella dappertutto, non era certo una prospettiva allettante. Dissi a Tom di restare a casa, ma lei non voleva. Disse che sarebbe venuta con me. Sapeva che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a essere forte. Non m’impegnai troppo per farle cambiare idea.
Tom prese la pala per seppellirlo, se la mise in spalla, e ci avviammo portandoci dietro il vecchio Toby che non faceva che guaire, ma dopo un po’ smise di lamentarsi. Rimase dentro la carriola in silenzio mentre lo spingevamo lungo il sentiero: la schiena un...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- In fondo alla palude
- Prologo
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Parte quinta
- Epilogo
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright