Il Vesuvio universale
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Il Vesuvio universale

  1. 288 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Vesuvio universale

Informazioni su questo libro

Dalle coltivazioni della Terra dei fuochi alle fabbriche di Pomigliano, dai merluzzi di Somma Vesuviana alle strade della periferia di Ercolano, fino alla nuova Pompei nata duemila anni dopo l'eruzione del 79 d. C.: Il Vesuvio universale è il ritratto di una terra di prepotente bellezza, che brulica di vita e non ha intenzione di arrendersi, nemmeno alla minaccia del vulcano che la sovrasta. «Gli abitanti del Vesuvio sono abituati a tenere conto di una vita sotterranea ricca e piena di sorprese, indipendente dalla loro volontà, estranea all'universo concettuale umano, a sentirsi frantumi di lapilli, volute di fumo, impercettibili grumi di tempo nella vertigine millenaria in cui affonda l'esistenza del vulcano».

Nel 79 d. C. Ercolano e Pompei furono distrutte dall'esplosione improvvisa e devastante del Vesuvio. Investiti dalla lava, pietrificati in un'eterna fuga fallita, i corpi di Pompei attraggono ogni anno migliaia di turisti. L'ultima eruzione del vulcano è stata nel 1944. Oggi il Vesuvio è inerte, e la sua calma apparente, replicata all'infinito sullo sfondo delle foto scattate da Posillipo. Ma se con l'obiettivo si ingrandisse al massimo quella montagna di fuoco, piú che le rocce laviche e la cenere, sarebbero nitide le case, le strade, le macchine, le persone, ammassate in paesi piú o meno piccoli, abbarbicati sui suoi fianchi. Alle pendici del Vesuvio si sviluppa, infatti, non una città, non una periferia, ma una conurbazione, un territorio con decine e decine di centri abitati che ha una densità di popolazione piú alta di quella di Milano e Roma. Da sempre qui, immemori - o noncuranti - del pericolo, gli uomini hanno tenacemente coltivato, proliferato, costruito, distrutto, inquinato, pregato. Chi vive nei paesi vesuviani sembra davvero convinto che il vulcano non si risveglierà mai piú. «Sarebbe fuorviante e frustrante cercare spiegazioni solo nell'ostinazione pervicace e incosciente», dice Maria Pace Ottieri che per capire quella terra è andata ad ascoltare le voci e le storie di chi ci vive. E allora c'è la famiglia Fortunio, che a Somma Vesuviana ha costruito un impero sul pesce dei lontani mari del Nord; c'è Tonino 'O Stocco, che costruisce e suona tammorre che accompagnano i canti e i balli popolari; c'è Lucio Zurlo, che insegna boxe nella sua palestra in un quartiere difficile di Torre Annunziata; ci sono le voci di Radio Siani con il loro impegno per la legalità; ci sono i morti ammazzati, dal lavoro, dal terremoto, dalla povertà, o da chi nessuno osa accusare. In un'instancabile quête tra passato e presente, tra i fasti antichi delle ville romane e i roghi tossici della Terra dei fuochi, tra ricordi leopardiani e interi quartieri abusivi, al ritmo delle traballanti corse della Circumvesuviana, Maria Pace Ottieri intraprende un viaggio alla scoperta delle tante esistenze che resistono in bilico sul cratere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806239084
eBook ISBN
9788858429211
Categoria
Travel
Capitolo undicesimo

Due città

Ercolano vive in un tempo tutto suo, che si addice al Vesuvio, dalle cui pendici si allunga fino al mare, un tempo geologico misurabile in millenni: tre i millenni cui assommano gli ergastoli assegnati in anni recenti ai capi clan della camorra che hanno a lungo dominato la città, due i millenni passati dall’eruzione del 79 d. C. che inghiottí sotto una crosta di fango l’antica Herculaneum.
Due città speculari, la sommersa e la sovrastante, l’una composta in una serenità ritrovata, vicina, familiare, l’altra, disarticolata, impenetrabile, cresciutale sopra come una testa di Gorgone dai capelli di serpe, l’una il dispetto, il rimorso dell’altra.
Il 29 giugno del 2000 un professore di Filologia greca e latina dell’Università Ucla di Los Angeles visita Ercolano. Da qualche anno ha creato una fondazione per conservare in formato digitale alcuni tesori del mondo: i capolavori della letteratura latina, le iscrizioni della civiltà greca e i testi dei padri fondatori della repubblica americana. Sceglie a suo piacere quali conservare tra le meraviglie del mondo. A Ercolano vorrebbe salvare la grande biblioteca della Villa dei Papiri, una sontuosa dimora affacciata sul mare che si estende fino a Portici e conserva l’unica biblioteca dell’antichità ritrovata intatta. È ancora in gran parte sepolta venticinque metri sotto terra, ma si sono trovati i mille papiri carbonizzati che conservava, testi in greco e latino, una grande parte dei quali di Filodemo di Gàdara, maestro di cultura greca, filosofo epicureo venuto dalla Siria a Roma nel periodo in cui l’epicureismo andava di moda per il suo aspetto consolatorio, un po’ come ai nostri tempi le varie scuole di buddismo.
Lo accompagna il direttore della British School di Roma, l’amico e archeologo Andrew Wallace-Hadrill. La visita agli scavi è desolante, gran parte degli edifici sono chiusi o puntellati per rischio di crolli, gli intonaci e i muri corrosi dall’umidità, nella Villa dei Papiri hanno gettato delle lavatrici, Ercolano è stata segnalata in un convegno di archeologi come l’area archeologica nel peggior stato di conservazione tra quelle non interessate da una guerra civile. Il professore americano è David W. Packard, figlio dell’ingegnere elettronico David Packard che con Bill Hewlett fondò negli anni Quaranta a Palo Alto il colosso dell’elettronica americana Hewlett-Packard: è qui come mecenate attirato dalla possibilità di scavare la Villa dei Papiri, ma si rende conto che non ha senso ampliare gli scavi e che la sola cosa saggia da fare è fermare la distruzione di quello che è già emerso.
Nasce cosí nel 2001 l’Herculaneum Conservation Project, un inedito accordo tra privato e pubblico, il Packard Humanities Institute, la British School di Roma e la Soprintendenza archeologica, che ha permesso agli scavi, con un contratto di mecenatismo per sostegno finanziario, metodologico e operativo, di ricevere finora oltre venti milioni di euro.
La prima iniziativa di David W. Packard è creare un gruppo di lavoro agile e misto: un archeologo, un architetto, un restauratore e ingegneri, geologi, chimici, informatici come consulenti. L’intelligente organizzazione del gruppo può riparare a gran parte dei traumi dello scavo che contiene in sé una contraddizione drammatica e insolubile: lasciare sepolti e sconosciuti i resti di una civiltà o adoprarsi per farli emergere esponendoli al rischio di svanire per sempre?
A distanza di quindici anni, con un quarto dei soldi ricevuti da Pompei, sebbene non tutti i suoi problemi siano risolti, l’ottanta per cento degli edifici di Herculaneum è dotato di coperture, molte case sono visitabili, affreschi e mosaici al riparo dal guano dei piccioni, le acque piovane canalizzate, il sistema fognario originario ripristinato, l’intero patrimonio è stato messo in sicurezza e grandi passi si sono fatti nella conoscenza della storia del luogo e nella sperimentazione di strategie di lungo termine per la conservazione. David W. Packard riceve ogni quindici giorni una relazione tecnica sull’attività e almeno una volta all’anno viene agli scavi per un sopralluogo.
Non è il primo americano ad appassionarsi all’antica città di Ercolano. Nel 1904 l’archeologo Charles Waldstein, docente al King’s College di Cambridge, si fece promotore di una vana crociata per raccogliere fondi internazionali con cui riprendere gli scavi di Ercolano da tempo interrotti per mancanza di risorse economiche. Politici e studiosi dell’epoca la presero per una proposta offensiva e lesiva della dignità dell’Italia. Agli sforzi straordinari di Charles Waldstein si è ispirato David W. Packard: «Il patrimonio culturale dell’Italia è immenso e rappresenta un dono prezioso al mondo intero. Noi che non siamo italiani abbiamo il dovere di condividere il peso di conservarlo», scrive nella prefazione a un libro su Maiuri degli archeologi Domenico Camardo e Mario Notomista.
Dalla ringhiera da cui ci si affaccia sugli scavi, in fondo a un viale alberato e ordinato, il mio sguardo si impiglia su un gruppo di case sbocconcellate, di fronte a noi, a picco sulle case delle insulae settentrionali. Che è successo a quella casa? Sembra diroccata. Non è un meno, dice Luca, l’amico che mi accompagna, è un piú. Balconi, tende, verande, rialzi, tettoie, terrazzi, terrazzini, passaggi coperti e ponticelli in Plexiglas, balaustre, ringhiere, infissi d’alluminio lucenti come denti d’oro, rialzi, oblò, soprattetti, formano una lebbra che sfigura le facciate delle case di tutte le epoche per eccesso non per difetto, per progressive aggiunte, sfoghi purulenti, escrescenze di parabole, antenne, condizionatori, liane di cavi penzolanti e avviluppati.
Si può sempre aggiungere una torretta, una casupola sul tetto, un oblò, un timpano alla facciata. Certe volte le case si intrufolano tra le tombe a casetta del cimitero.
La luce arroventata del tramonto freddo decembrino si spande sul Vesuvio alle spalle, getta sul mare una striscia purpurea, le ville romane affacciate sull’acqua vedevano entrambi, la luce, la sola bellezza indelebile, doveva essere la stessa.
Sulla scarpata verticale a cui si affacciano le case poggia un altissimo muro che separa il lato a nord-ovest della città antica da via Mare, cuore della vecchia Resina, come si chiamava Ercolano fino al 1969, poco piú di un borgo fatto da corso Resina con il Miglio d’oro delle ville vesuviane, via Pugliano, la chiesa.
Quando la strada era ancora «vico ’e Mare» il muro era poco piú di un muretto intorno al piccolo scavo a cielo aperto ottocentesco. I suoi abitanti, pescatori, il 16 maggio 1927, giorno dell’inaugurazione dei nuovi scavi di Amedeo Maiuri dopo cinquant’anni di abbandono, si affacciarono in tripudio dai balconi e dalle finestre.
Solo piú tardi l’archeologo lo fece alzare a proteggere l’area emersa della città antica, da allora altri muri, recinzioni, barriere si sono innalzati. Via Mare è un vicolo, cieco e invisibile, che non vede e non è visto, un unico fronte di case che sembrano rovine e nelle vecchie fotografie in bianco e nero poco si distinguono dalle case romane sottostanti. L’impressione è che non ci abiti nessuno, i muri scrostati, i buchi nel selciato fanno pensare a un abbandono di lunga data. Ci vivono invece quattrocento persone, una densità abitativa tra le piú alte d’Europa, famiglie numerose e poverissime stipate in case fatiscenti di quaranta metri quadrati con il bagno all’esterno.
Amedeo Maiuri, soprintendente alle Antichità in Campania e direttore del Museo nazionale archeologico di Napoli, deve essersi sentito l’archeologo piú realizzato nella storia dell’archeologia italiana. Ciociaro di nascita, in trent’anni, dal 1927 al 1961, anno del pensionamento, scavò Pompei, Ercolano, Cuma, Baia, Villa Jovis e il Palazzo a mare di Capri. «Solo nei primi cinque anni», mi dice Paola Pesaresi, l’architetto del gruppo dell’Herculaneum, «riportò alla luce diecimila metri quadrati dell’antica città di Ercolano, la sua impresa piú ardita, un terzo del suo impianto urbano».
A differenza di Pompei sepolta da una coltre di cenere e lapilli, Ercolano, il giorno dopo l’eruzione del 79 d. C., fu investita da sei ondate di fango vulcanico, i cosiddetti lahar, che induritesi fino a raggiungere la consistenza del tufo, avvolsero la città sotto una coltre di venti metri. Il duro strato che sigillava la città, il «pappamonte», come lo chiamano gli archeologi, era assai piú arduo da penetrare della cenere di Pompei.
Per ottenere gli ingenti fondi necessari Maiuri si rivolse direttamente a Mussolini il quale in nome del fascino che la civiltà romana riverberava sui suoi moderni epigoni, acconsentí a finanziarlo.
Dalla roccia tufacea riaffiorarono muri, colonne, statue, affreschi, bronzi, «aggrumati, insozzati di scorie, spesso come illividiti e maculati di sangue o maciullati, pesti e frantumati», scrive Maiuri nella sua prosa densa e poetica, carbonizzati e intatti, gran parte degli edifici si erano conservati fino al terzo piano. Solo alla base i muri erano marci, erosi dal passaggio dell’acqua filtrata per duemila anni negli strati piú permeabili, quelli formati da lapilli. Come chi definisce il suo pensiero mentre lo esprime, Amedeo Maiuri restaurava le pareti degli edifici man mano che lo scavo scendeva e arrivava al pavimento.
Il lavoro avanzava a una velocità impressionante, l’archeologo scavava, restaurava e apriva al pubblico anche le case piú grandi in tempi oggi impensabili grazie a un efficiente sistema di catena di montaggio.
Per trent’anni Amedeo Maiuri ha lavorato nello stesso luogo, con le stesse tecniche e la stessa squadra di muratori locali e officine di fabbri, marmisti, falegnami che sotto la sua guida acquisirono l’abilità e la sensibilità dei Romani.
Fin dal primo giorno degli scavi decise che avrebbe tenuto gli affreschi, le statue, gli oggetti, i mobili al loro posto. Nei registri della sua epoca si legge che aveva riallestito all’interno delle case piú di millecinquecento oggetti e nei trent’anni di lavoro ne accumulò quasi cinquemila, un’inversione di tendenza radicale rispetto all’abitudine invalsa fin dagli esordi borbonici degli scavi a Ercolano.
L’inizio dell’archeologia moderna si fa risalire a Carlo di Borbone, il giovane re di Napoli che amava la caccia sopra ogni cosa, fece costruire la reggia di Capodimonte per via dell’abbondanza di beccafichi nel bosco sulla collina, e si dimostrò capace di grandi intuizioni. Fu lui, spinto dalla moglie Maria Amalia, quattordici anni lei, ventidue lui, ad affidare all’ingegnere militare spagnolo don Roque Joaquín de Alcubierre, nel 1738, la prima campagna sistematica di indagine archeologica, dopo che, anni prima, un contadino scavando un pozzo alla ricerca di acqua aveva ritrovato marmi e statue antichi. Il solo modo che si conosceva allora di penetrare nella spessa crosta di fango indurito era scavare dei pozzi, calarvi con corde di canapa una manovalanza occasionale composta da scavatori, i cavamonti di Resina, ergastolani di Portici e schiavi tunisini e algerini, che nel buio fradicio aprivano alla cieca a picconate una fitta rete di cunicoli al solo scopo di svuotare case e edifici delle opere d’arte ma anche di affreschi e mosaici.
Lo scavo si rivelò subito fruttuoso con la scoperta di uno stupefacente teatro da duemilacinquecento posti, intatti le gradinate, l’orchestra, il palcoscenico, il frontescena alto due piani, rivestito di marmi policromi e diviso da colonne e nicchie con le statue.
Una volta depredato il luogo dei suoi pezzi migliori, statue, affreschi, gioielli e oggetti preziosi portati nella Reggia di Portici ad arricchire la collezione di opere d’arte del re che doveva rivaleggiare con quella del papa, i cunicoli venivano riempiti e richiusi per evitare pericolosi crolli sotto l’abitato di Resina. Ma prima tutto ciò che non passava era distrutto a colpi di piccone.
Per quanto Amedeo Maiuri si fosse dimostrato audace negli interventi di integrazione − l’aggiunta di putrelle e pilastri, ferro e cemento, la scelta di non ricostruire in molti casi muri esterni, pavimenti e balconate tra un piano e l’altro per meglio mostrare gli interni delle case −, il suo lavoro ha segnato una svolta irreversibile nell’archeologia, un salto decisivo dallo scavo puramente predatorio all’interesse per la conservazione e il restauro.
Il sogno di Maiuri, fare di Ercolano una città viva ricostruendone gli interni, è trasmigrato nella mente di David W. Packard che vorrebbe mostrare al mondo la sua unicità aprendo un Museo della vita quotidiana. Esiste già lo studio preliminare commissionato a Renzo Piano in cui il grande architetto immagina una costruzione in parte interrata e coperta di verde che ospiterebbe con il museo anche i preziosi depositi aperti al pubblico e un centro di ricerca.
Per realizzare quello che per ora resta un sogno bisognerebbe demolire l’edificio che attualmente li ospita insieme agli uffici della Soprintendenza, bianco, petulante, tutto spigoli, linee aggettanti e angoli morti che fagocita soldi da decenni per gli impianti deteriorati e le pareti lesionate da infiltrazioni d’acqua. L’Italia della tutela lo protegge considerandolo a sua volta un reperto, un esempio sia pure minore della corrente architettonica del brutalismo che dagli anni Cinquanta per una ventina di anni ha inteso superare il manierismo del razionalismo, privilegiando la rudezza del cemento a vista. Demolire il Brutto non è nel nostro Paese meno difficile che costruire il Bello e nell’attesa David W. Packard ha acquistato quattro ettari di terreno contigui agli scavi, sotto i quali sono acquattati i muri dei piani alti degli edifici dell’antica città trascinata dalla violenza dell’alluvione verso il mare.
I bambini di via Mare crescono per la strada, i padri sono in carcere o ammazzati, le madri si arrangiano per campare. Lasciati a loro stessi, manovrano armi e droga a otto anni, spesso non vanno a scuola, capita che non vengano nemmeno iscritti o ne siano allontanati perché violenti. Si racconta che i bocciati irrompono a scuola, minacciano le insegnanti con la pistola. Crescono isolati, non sanno che Ercolano si affaccia sul mare, non sanno dov’è Napoli, non sono mai stati agli scavi.
Qui non abita la camorra ricca delle ville di lusso di Sandokan e dei Casalesi, ma una criminalità povera che stenta a mettere il piatto a tavola e che si organizza, se i figli sono sette si divideranno il lavoro: ci sarà chi ruba, chi fa l’usura, chi spaccia coca, chi erba, chi lavora nelle pezze per darsi una parvenza di pulizia e guadagna quaranta euro a settimana, ma se cala il «panàro» dalla finestra con qualche bustina ne guadagna cento a volta. Alla povertà si aggiunge l’impoverimento, l’aspirazione a una vita di consumi che non si possono permettere, le rate per il Bimby, il Folletto, il frigorifero grande come un armadio.
Nelle case di via Mare si possono trovare armi, centinaia di chili d’erba da impacchettare, sacchi di cocaina e pezzi di rame.
A una certa ora del giorno un camion si ferma all’imbocco della strada e una fila di bambini consegna pezzi di rame rubati agli scavi in pieno giorno in cambio di un euro o due.
Francesca Del Duca e Paola Pesaresi conoscono bene via Mare. Da qualche anno, per conto della fondazione Packard il cui desiderio è riavvicinare la città antica e la città moderna, hanno costretto le istituzioni e gli enti locali a firmare un accordo per il futuro della strada. Il progetto a cui lavorano punta a coinvolgere i bambini, a indurli a riappropriarsi di spazi del loro quartiere finora negati. Uno dei primi passi è stato trasformare un’area abbandonata in un campo da gioco dipinto a strisce colorate, ispirato alla Favela Painting, la street art che ha cambiato le piú torve favelas di Rio in comunità aperte.
Una decina di famiglie ha dovuto abbandonare le proprie case, espropriate e demolite per fare spazio alla riqualificazione che prevede l’abbattimento del muro e la nascita di un parco. Nella divisione dei compiti, con la fondazione americana e ben due ministeri, è il Comune, aiutato all’inizio da un fondo europeo e poi con risorse proprie, a doversene occupare.
Gli abitanti di via Mare sono sfiduciati e arrabbiati, non hanno ancora visto nessun risultato. La camorra è in agguato, pronta a cavalcare la delusione.
In nessun altro scavo archeologico del mondo sono stati trovati tanti manufatti e materiali deperibili che raccontano la vita di una città come a Ercolano: la forma di pane col sigillo del panettiere, l’argano montato su un pozzo con la sua corda, la vasca da bagno in bronzo, la matrice per i gettoni che si usavano come bigli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Vesuvio universale
  4. I. Dormiveglia
  5. II. En quête
  6. III. La tradizione si inventa
  7. IV. La fabbrica colonia
  8. V. Tre volte fuoco
  9. VI. Terra dei fuochi incrociati
  10. VII. ‘N coppa
  11. VIII. Vulcanologie
  12. IX. Il vulcano armadietto
  13. X. Terra dei fuochi d’artificio
  14. XI. Due città
  15. XII. Pugni
  16. XIII. Tre cognati capitani
  17. XIV. Salaam Pompei
  18. XV. Granhattan
  19. XVI. Una casa è una casa è una casa
  20. XVII. Fuggire sí ma dove
  21. Ringraziamenti
  22. Riferimenti bibliografici
  23. Il libro
  24. L’autrice
  25. Della stessa autrice
  26. Copyright