Da lontano poteva passare per spagnola, ma da vicino aveva semplicemente un’abbronzatura ridicola e i capelli tinti di nero. Il che poteva spiegare come mai la donna che la inseguiva trascinandosi per il parcheggio del supermercato insisteva a gridarle hola. Mona fece finta di non sentire e continuò a spingere il carrello verso il furgone.
– Por favor, per piacere, – gridò la donna con una voce stanca.
Por favor, per piacere, si ripeté Mona e sorrise. Si fermò e si voltò. Era la signora minuta con i capelli rossi che aveva notato prima, quella che strizzava le pesche nel reparto ortofrutta. Le era piaciuta quella sua espressione che pareva voler dire «Wow, quanto sono mature queste pesche» e allo stesso tempo «Peccato che a me le pesche non piacciano un granché».
Prima, chissà come, non aveva fatto caso all’abbigliamento della donna: golfino verde scollato in lana d’angora, leggings di velours leopardati, sneakers alte in pelle bianca. Il décolleté della donna era rovinato dal sole e di un rosso livido. Il rosso dei capelli era simile, ma di una tonalità piú accesa, ovviamente ravvivato da un cachet. Come molte rosse, probabilmente era convinta che il verde le donava.
– Gracias, – disse la donna raggiungendola. Era piú vecchia di quanto Mona avesse inizialmente pensato: sulla cinquantina, anno piú anno meno.
– Parlo inglese –. Le sue prime parole di quel giorno.
La donna si tolse gli enormi occhiali da sole e guardò Mona dritto in faccia. – Ah, bene.
I suoi occhi avevano qualcosa di innaturale che Mona non riusciva a inquadrare con esattezza.
– Tu fai le pulizie, giusto? – le chiese l’altra. – Ho notato il tuo… ehm, grembiule.
Lei annuà e le porse la mano. – Mona, – disse.
– Betty McKenzie, – disse la donna, stringendole solo le dita. Mona ebbe la sensazione che Betty fosse quel genere di persona che si presenta sempre con nome e cognome, anche se sta parlando con un bambino di tre anni.
Finalmente capà cosa avevano di strano gli occhi di quella donna: portava lenti a contatto azzurre nonostante i suoi occhi fossero già azzurrissimi, e questo li rendeva di un azzurro ostinato, un colore che a Mona ricordava il fato e le calamità naturali.
– Aspetta un attimo. Ho sentito parlare di te, – disse Betty. – Nel senso che mi sei stata consigliata.
– Da chi? Se posso chiederlo.
– Adrienne Payne, – rispose Betty.
Ah, Adrienne, la vegana rompicoglioni a cui Mona era stata raccomandata da Henry. Le aveva fatto una richiesta insolita: voleva che si astenesse dal portarle in casa prodotti di origine animale di qualunque tipo, perché la cosa avrebbe causato un «disturbo a livello energetico». Oltre alla roba ovvia, tipo carne e latticini, il divieto riguardava la cintura di cuoio e le scarpe di pelle che di solito Mona indossava per lavorare. A parte questo, Adrienne era relativamente poco impegnativa e quindi la richiesta non le era parsa esagerata. Mona pensava che se le fosse venuto appetito avrebbe sempre potuto mangiare carote. Ma in casa di Adrienne c’era qualcosa – l’«energia», forse – che le metteva una fame da lupi, e spesso sentiva una voglia irrefrenabile di pollo fritto, Frito pie, hamburger e milkshake. Ciononostante era riuscita a rispettare il desiderio di Adrienne e a non mangiare né carne né latticini in casa e neppure in giardino.
Le cose, però, erano finite male. Adrienne aveva chiamato Mona perché le pulisse casa in sua assenza, mentre era a far funghi in un qualche bosco nella zona del Pacifico nordoccidentale; Adrienne era una che si divertiva cosÃ. Giunta l’ora di pranzo, Mona si era andata a prendere un burrito a un chioschetto messicano là vicino e se l’era portato a casa. Che sarà mai, aveva pensato. Fuori c’erano mille gradi e il condizionatore del furgone era rotto.
Adrienne naturalmente era tornata prima del previsto ed era entrata senza preavviso. Aveva sorpreso Mona seduta in cucina, tutta concentrata a masticare un pezzo di maiale arrosto che aveva tirato fuori dal burrito ormai quasi completamente divorato. Mona in seguito ebbe il sospetto che sarebbe stata perdonata se non avesse dato qualche pezzettino di carne anche a Pookie-Ooh, quel poveraccio del gatto di Adrienne, vegano come lei sebbene ovviamente non per libera scelta. Pookie-Ooh era chiaramente felicissimo, forse per la prima volta in vita sua, tanto che quando Adrienne era entrata in cucina lui non se n’era nemmeno accorto, benché fosse stata via per piú di una settimana. Mona aveva ancora davanti agli occhi l’espressione scandalizzata di Adrienne, come se l’avesse beccata a fare sesso scatenato con un maiale vero sul pavimento della cucina o qualcosa di davvero spregevole a Pookie-Ooh, tipo tenerlo fermo per infilargli una matita nel sedere. Mona non aveva mai ricevuto un’occhiata tanto truce e si era sentita assolutamente giustificata a prendere le sue cose e ad andar via senza dire una parola per non tornare piú. Adrienne le aveva lasciato diversi messaggi in segreteria, ma Mona non l’aveva mai richiamata: una scelta coraggiosa, in realtà , dal momento che il suo giro d’affari si basava quasi esclusivamente sul passaparola.
Evidentemente Adrienne le aveva fatto pubblicità prima del Disastro del Burrito di Maiale.
– E come la conosci Adrienne? – le chiese Mona con disinvoltura.
– Era una mia cliente, – rispose Betty.
– Cos’è che fai?
– Ah, un sacco di cose –. Una risposta tipica degli esemplari della classe media di Taos, una specie in pericolo destinata a una rapida estinzione. – Aspetta un secondo che ti do un biglietto da visita –. E, svelta svelta, andò verso l’unico modello di automobile americana d’epoca che Mona fosse in grado di riconoscere a prima vista: una Cadillac decappottabile del 1960. L’auto era infilata in mezzo a due pick-up tutti schizzati di fango e aveva la carrozzeria della tonalità di blu piú bella che Mona avesse mai visto.
Mona immaginò che Betty fosse nel programma protezione testimoni. Il suo vero nome era Denise e per vent’anni era stata sposata con un mafioso. Per evitarsi la galera, aveva deciso di pentirsi e dal Queens o dal New Jersey l’Fbi l’aveva mandata nel New Mexico. Questo spiegava il suo accento e il suo gusto in fatto di macchine. E anche di vestiti, a pensarci bene.
Poi notò la targa:
SENSITIVA, tutto maiuscolo.
Betty non si limitò a darle un biglietto da visita: gliene diede una manciata. Mona li guardò velocemente per educazione. Il nome di Betty era scritto in un corpo un po’ troppo grande, con sotto la lista dei servizi offerti: veggenza, channeling, quadri astrali, lavoro energetico, pulizia dell’aura… bla, bla, bla. Sorrise e se li mise nella tasca posteriore dei pantaloni.
– Complimenti per la macchina, – disse Mona.
– Oh, grazie. Si chiama «divorzio».
– Wow –. Qualche secondo di silenzio. – Be’, ora dovrei andare, – disse Mona. – Mi si sta squagliando il gelato.
– Posso avere anch’io un tuo biglietto da visita? – chiese Betty.
– Ma certo, – rispose Mona. – Naturalmente –. Frugò nella borsa, fingendo di cercarli. Non ne aveva piú da mesi. – Mi sa che li ho finiti, – disse imbarazzata. – Va bene se ti do il mio numero?
Betty le telefonò due ore dopo e Mona le fece il solito discorsetto: venti dollari all’ora, solo in contanti, con un minimo di cinque ore per il primo giorno e di tre per le volte successive.
– Cosà poco? – disse Betty. – Dovresti chiedere di piú. Non ce la puoi fare in questa città con cosà pochi soldi.
– Ci stai per caso provando con me? – scherzò Mona.
Betty scoppiò a ridere. – Dico sul serio.
– Be’, questa ancora non mi era capitata, – disse Mona. – Facciamo venticinque all’ora.
– Affare fatto, – disse Betty.
– Ma se stai cercando di farmi alzare la tariffa, vuol dire che casa tua è pulitissima o spaventosissima. Scommetto che sei sommersa di peli di gatto.
– No, ma ho diversi gatti in effetti, – disse Betty un po’ preoccupata. Mona si chiese se «diversi gatti» non fosse un’espressione in codice per «decine di randagi».
– Amo i gatti, – mentà Mona. I gatti le piacevano, ma l’amore era un’altra cosa. Per quanto gliene fregava, comunque, Betty poteva anche vivere in una vaschetta con la lettiera dentro.
Le chiese l’indirizzo, ma Betty disse che non c’era. – Vivo persa nella mesa. Da queste parti le vie non hanno nomi. Prendi la statale 64 in direzione sud e supera il Gorge Bridge. Dopo quattordici chilometri, sulla destra c’è una strada sterrata. Seguila per due chilometri e duecento metri esatti. E sulla sinistra troverai casa mia.
Mona faceva fatica a capire perché una persona potesse decidere volontariamente di vivere nella mesa, ma in fondo non era mai stata una grande fan degli spazi aperti. L’ampia casa mobile di Betty sembrava caduta da un camion in corsa e rotolata giú per un burrone, ma era dipinta di un rosa accesissimo e piena di enormi pezzi d’antiquariato, neanche fosse una reggia. Su un lato aveva un posto auto con una tettoia arrangiaticcia, dove Betty teneva la sua Cadillac. Nelle immediate vicinanze non c’erano case, ma un po’ piú avanti c’era un gruppetto di costruzioni recenti, dalla facciata giallina, tutte raggruppate di schiena come se stessero complottando contro di lei.
L’interno della casa mobile sembrava un mercato delle pulci dopo una tempesta di polvere. Betty collezionava mobili in noce, portagioie, chiavi antiche, boccette di profumo d’epoca, scatole di fiammiferi decorate, vecchie foto di gente sconosciuta e sfere con la neve finta; e ogni cosa era coperta di una friabile polvere rossa. La polvere probabilmente entrava dalle zanzarie...