Comincio questa lettera che il cielo è un fondo azzurro di cartone. Sembra che le sagome delle case siano state ritagliate da un bambino: tutte nette e sicure. Esattamente come dovrebbero essere e non sono mai.
Ma oggi sí. Oggi che comincio questa lettera, sembra che tutto sia al posto giusto. I comignoli, le antenne, le padelle satellitari, i rami degli alberi. Oggi c’è la luce giusta e i rumori sono appena percettibili da dietro i vetri chiusi. Un giorno sereno d’autunno.
Scrivo questa lettera con la speranza di riuscire a dirti delle cose. Con la speranza che un po’ di quell’ordine azzurro e verde che vedo dalla mia finestra, entri dentro le frasi e le renda leggibili: le lettere, sono sempre cosí intime che si fa fatica a capire di cosa parlino davvero.
Vorrei scriverti una lunga lettera che ti tenesse compagnia per molti giorni, una lettera da chiudere e da riaprire come un carillon e che continuasse a suonare a lungo. E ogni volta in un modo diverso.
Ci saranno dentro i giorni e le notti che abbiamo passato insieme, tutti i posti in cui siamo stati, le emozioni che ho sentito. Come se ti stessi parlando, ma senza dirti niente di preciso. Non ho paura che tu possa perdertici dentro.
Voglio ricordare. E aiutare te a entrare dentro i miei ricordi perché diventino anche tuoi. Perché tu possa avvolgerteli attorno e scaldarti al loro fuoco.
È cosí che è successo: bocca aperta, e muta. Aperta sul tuo sesso. Aperta sulle tue labbra. Acqua che scivola dalla tua lingua alla mia bocca. Acqua che dalla mia bocca scivola sulla tua pelle. Gocce leggere che si allargano in chiazze a forma di nuvole. Si sciolgono tra pieghe sottili. Si asciugano. La luce dentro la stanza era livida. Riusciva a scovare tutte le ombre, a indurirle. Non hai detto niente.
Nemmeno una parola.
Sto in silenzio. Assomiglia a una preghiera, ma dentro, le parole continuano a combattere, a confondersi, ad accavallarsi. Oggi pomeriggio, alle tre in punto, ho guardato il cielo sopra la mia testa. Il tuo aereo era lí. È stato lí per qualche secondo, poi è sparito dentro l’azzurro limpido. È rimasto soltanto l’azzurro. Sono rimaste solo le parole che non ti ho detto. Cielo e parole che continuano a stare sopra di me, a muoversi solidi, a fare rumore. Tutte le cose che non ti ho detto, e quelle che tu non hai detto a me. Un peso che mi schiaccia come un macigno trasportato sulla schiena.
Guardo fuori dalla finestra e vedo linee blu e bianche oltre il vetro. Riesco a ricordare solo inquadrature, frammenti di sogni, come spezzoni di film e vecchi superotto restaurati e incollati assieme senza alcun nesso. Sarà che quando si è soli, i pensieri si sentono liberi di assalirti, di costringerti a pensarli anche quando non ne avresti voglia. Corrono tutti assieme, ti si buttano contro, cercano di scavalcarti.
C’è un ragazzino di dodici anni davanti a me. Ha i capelli biondi e gli occhi chiari, come te. È un ragazzino di dodici anni, ma basta un movimento impercettibile di un muscolo della faccia e cambia età. Torna a essere adulto, oppure diventa un bambino.
Riesco a vedere tutte le età sul tuo viso. Riesco a immaginarti anche da bambino, da neonato. È strano, ti ho visto coperto di borotalco, ho sentito il grido feroce e violento che fa diventare rossa la tua minuscola faccia.
In braccio a una donna che non sono io.
Non mi era mai capitato di immaginare piccolo un uomo.
Ho fatto un sogno, dopo la prima notte: stavo salendo delle scale che portavano a una piccola casa costruita nel bosco. Una specie di palafitta. Dentro c’eri tu, steso su un letto. Avevi perso un braccio e avuto una moglie. Era passato del tempo. Che cosa è successo, ti ho chiesto. La vita è passata, mi hai risposto, ma sono ancora il tuo uomo.
Mentre ti scrivo, vedo un angelo di pietra con gli occhi aperti, vuoti, e una mano sollevata. Il ragazzino solleva la sua mano per sfiorare quella dell’angelo. Ancora, il ragazzino si traveste davanti a uno specchio, in una casa vuota. Sono nello specchio con lui, guardo la sua trasformazione. Ogni immagine è un’accelerazione del battito cardiaco.
Cosí, prima mi hai fatta piangere.
Poi, sorridere.
Lo schermo del mio computer è bianco nel pomeriggio che scivola.
La tua lingua e le tue labbra sul mio viso marchiano la pelle con tatuaggi invisibili.
Dove posso trovarti?
Ancora il profumo della tua pelle intorno.
Dove posso trovarti, stanotte?
Oggi, mentre facevo colazione, ho sentito un leggero solletico: un capello biondo e sottile era scivolato sul mio collo. L’hai dimenticato intrecciato nei miei, cosí scuri.
Posso trovarti nel silenzio, da sola, toccando e accarezzando, seguendo tutte le tracce che hai lasciato su di me. Silenziosa, come sono stata. Silenziosa e pregando, non so nemmeno che cosa. Richiamando il tuo viso, i tuoi occhi che cambiano età.
Dove posso trovare le tue mani, il tuo dito che mi esplora, cercando la geometria segreta del mio sesso?
Dove?
Devo chiudere gli occhi, lasciare che tutto scivoli via. Chiudere gli occhi, venire nella tua bocca.
Ogni volta mi sento diversa.
Ogni volta con una persona nuova, voglio dire.
Penso di perdere qualcosa ogni volta che tocco qualcuno. Lascio parti di me. Pezzi. Brandelli. Come souvenir che sicuramente, dopo l’entusiasmo iniziale, verranno buttati via. Una bambolina vestita da gitana, un paio di nacchere, una palla di vetro con dentro la neve.
C’è questa stanza, e un letto dentro. Un letto grande che prende quasi tutto lo spazio. Una finestra. La luce dell’alba che non ha pietà dei nostri corpi, dei nostri occhi stanchi, della mia paura.
Le lenzuola sono pulite, immagino la cameriera dell’albergo che le tende in un fruscio fresco e ventoso. L’aria del mare che entra dalle finestre.
Su questo letto ci hai dormito per una settimana. È stato prima di me.
Mentre eri in bagno, sotto la doccia, ho curiosato tra le tue cose. La scatola dei preservativi era nera e rossa. Dentro c’erano quattro bustine, sulla confezione c’era scritto ten pieces. Preservativi giapponesi, in bustine plastificate, nero lucido con la scritta rosso lacca. Ho immaginato le stanze, le donne, l’ora del giorno o della notte, le lenzuola pulite di altre camere d’albergo. Quando è stato? Quando è stata l’ultima volta?
Silenzio. Scrivere senza parole. Dipende dalla sintassi forse. Fare in modo che le parole assumano ruoli differenti, che si incastrino con una forza nuova.
Ci hai mai pensato? Le persone con cui si riesce a stare in silenzio sono poche. La gente pensa che stare insieme voglia dire parlare e cosí le parole diventano panico, imbarazzo, i vuoti sono momenti da riempire. Stare in silenzio invece è pienezza, è condividere l’essenziale. La felicità è inspiegabile, è come un’acqua calma che sale dentro, muovendosi lenta, con un ritmo simile al battito del cuore.
Ho sentito qualcosa di simile a questo, insieme a te.
Ho scritto molte lettere.
Le ho scritte in tempi diversi, in lingue diverse, ho comprato francobolli di tutte le pezzature. Ho scritto a mano, a macchina, col computer.
Questa volta, vorrei provare a scrivere col silenzio.
Cerco sempre di ricordarmi i dettagli, per salvarmi, per salvare dall’inceneritore istantaneo della memoria qualcosa che riesca a trattenermi.
La cicatrice sul tuo braccio lunga e profonda. I chiodi e le placche dentro, avvertibili al tatto.
La lettera disegnata da una vena sul tuo sesso, quando è eretto. Una specie di P rovesciata. La familiare cicatrice rossa sul tuo torace, a sinistra. Un tumore asportato, gemello del mio sulla schiena, a sinistra. Un neo verticale, piccolo come un chicco di riso, al centro del petto. Una voglia di fragola sulla nuca. Una minuscola chiazza giallo oro nel tuo occhio sinistro, come un granello di pirite.
Quante settimane o mesi ci ho messo a ricordare dettagli di corpi privi di interesse. Corpi fatti di muscoli e ossa sconosciute, odori di pelle, sudore, sperma, capelli, segni. Corpi che ho attraversato alla cieca, coll’interesse minimo, sufficiente a capire i meccanismi base necessari.
Con te è stato diverso: ho cercato di impararti a memoria.
Ho imparato qualcosa su di me. Con le mani e le labbra hai seguito i contorni, contrassegnato i confini e dato un nome a tutto.
Erano nomi che non avevo mai sentito e suonavano in una lingua che non conosco poi cosí bene.
Sembravano parole magiche. Parole che avrebbero dischiuso il mio corpo e l’avrebbero trasformato in una foresta, in uno spazio meraviglioso e sconosciuto in cui affondare e perdersi.
Oggi i miei occhi alternano pieni e vuoti. Pieni e vuoti come tutti gli spazi aperti del mio corpo adesso che non sei qui.
Sono stata cosí: riempita. Di te. La testa invasa da immagini che ti riguardano.
E c’è un intero universo di parole che non conosco, riguardo a te.
Ogni contatto tra pelle e pelle, tra lingua e pensieri, ha bisogno di una nuova traduzione secondo regole che ancora non conosco. Le cerco come nelle fiabe si cercano le tracce della principessa scomparsa. Saranno forse briciole di pane che brillano alla luce della luna. Una scarpa di cristallo, oppure un capello confuso nella polvere. Cerco la chiave che possa aprire lo scrigno magico. Forse è un parola. O un soffio silenzioso.
C’è un uomo che mi piace, qui. Ho una sua fotografia scattata di fronte al mare, lo stesso mare che c’era fuori da quella camera d’albergo.
Ha un braccio sollevato per reggere la testa e nella mano tiene dei fogli. Sta leggendo.
È un uomo molto bello, calvo, con una testa perfettamente rotonda. E ha una voce gentile.
Tutte le volte che mi telefona, restiamo in silenzio per un po’, poi le parole si sovrappongono.
Sto parlando di quest’uomo per prendere tempo. Ma i miei occhi alternano pieni e vuoti, oggi. Ancora, di fronte a me, acqua calma e un letto bianco invaso dalla luce. Uno strappo nelle lenzuola, un rumore spiacevole, tra il mio braccio e il tuo.
Stavo parlando della fotografia di quell’uomo. Seduto di fronte al mare mentre legge. Testa calva e mani eleganti. Nelle pause della sua conversazione, riconosco le mie. Dovremmo bere insieme, io e lui. Mi piacerebbe.
Non so perché parlo di lui in questa lettera che è per te. Forse perché quella è davvero una bella foto e nelle immagini ci sono molte storie. Possibilità incise da un’ocra, un blu, un tono di azzurro appena piú intenso di quello vero, un magenta ben amalgamato, un tocco di giallo di troppo rivelato dalla pelle.
Quando perdo le parole, so che presto un’immagine apparirà, pronta a risvegliarle.
Abbiamo già parlato del silenzio. Un film privo di dialoghi. Libri con molti spazi bianchi. Ma viviamo nel caos. Spesso lo scegliamo. Nella molteplicità di voci e storie, i rumori della città intorno, chiamate telefoniche, fax, segreterie, anche le macchine del caffè col loro corredo di suoni. Acqua bollente che scivola attraverso il filtro e cade giú, atterra sul vetro della caraffa con un rumore sordo: una cascata rinchiusa in un barattolo. Conversazioni sconnesse, musica ad alto volume, bassi che risuonano dentro, tra lo stomaco e il cuore. La voce di Neffa che mi segue dappertutt...