Vicino al fiume Tiputini, Ecuador
0°38’10.2” S, 76°08’39.5” O
Il muschio ha preso il volo, sollevandosi su ali cosí leggere che la luce se ne accorge appena mentre lo attraversa. Il sole lascia non un colore, ma una suggestione. I filamenti sottili e le piante di muschio si librano in lunghi trefoli. Un’ancora fibrosa aggancia ciascun filo ai funghi e alle alghe che ricoprono ogni ramo. Al contrario dei loro parenti nel resto del mondo, prostrati sul terreno, questi muschi vivono là dove l’acqua non ha né pelle né confini. Qui l’aria e l’acqua sono la stessa cosa, e i muschi crescono come alghe filamentose in oceano aperto.
La foresta preme le labbra su ciascuna creatura, ed espira. Sentiamo il suo alito: caldo, odoroso, quasi mammifero. Sembra scorrere dalle vene della foresta fino ai nostri polmoni. Vivo, intimo, soffocante. A mezzogiorno i muschi prendono il volo, mentre noi uomini, infiacchiti dal caldo, giacciamo supini, raggomitolati nel ventre fecondo di ciò che è lo zenit della vita moderna. Ci troviamo vicino al centro della Yasuní Biosphere Reserve in Ecuador. Intorno a noi, sedicimila chilometri quadrati di foresta amazzonica, all’interno di un parco nazionale, una riserva etnica e una zona tampone, collegate ad altre foreste oltre i confini con Colombia e Perú. Vista attraverso la lente sfocata dei satelliti essa appare come una delle piú grandi chiazze verdi sulla faccia della Terra.
Pioggia. Ogni due o tre ore, pioggia, che qui parla il linguaggio unico di questa foresta. La pioggia amazzonica si distingue non solo per la quantità di cose che ha da dire – tre metri e mezzo d’acqua che cadono a terra ogni anno, sei volte la quantità d’acqua della grigia Londra – ma anche per il lessico e la sintassi. Spore invisibili e particelle chimiche delle piante inumidiscono l’aria sopra la fitta trama della foresta. Questi aerosol sono i semi su cui il vapore acqueo si condensa, formando piccole gocce che si ingrandiscono poco a poco. Un dito d’aria qui contiene mille e piú di queste particelle, una foschia densa, e tuttavia dieci volte piú leggera di quella che si incontra lontano dall’Amazzonia. Ovunque ci sia un raggruppamento umano significativo, miliardi di queste particelle vengono disperse nell’aria per effetto dei motori e delle ciminiere. La nostra vita industrializzata, cosí vigorosa, solleva una nebbia che ricorda quella di uccelli che si fanno il bagno nella polvere. Ogni singola particella inquinata, ogni moto polveroso della terra o spora del bosco può trasformarsi in una goccia d’acqua. La foresta amazzonica è enorme, e per gran parte della sua estensione l’aria è prodotta dalla foresta stessa, non dall’attività di uccelli industriosi come noi. I venti a volte trascinano tracce di polvere dall’Africa, o smog dalle città, ma in gran parte l’Amazzonia parla la sua propria lingua. Con meno semi e abbondante vapore acqueo le gocce di pioggia raggiungono dimensioni eccezionali. La pioggia cade in grandi sillabe, fonemi diversi rispetto alla lingua parlata in altre terre.
Sentiamo la pioggia cadere non attraverso il silenzioso precipitare dell’acqua, bensí nelle molte traduzioni offerte dagli oggetti che incontra nel suo cammino. Come in tutti i linguaggi, soprattutto per uno che ha cosí tanto da dire, e con cosí tanti interpreti in attesa, le basi linguistiche del cielo si esprimono attraverso un’esuberanza di forme: i rovesci trasformano i tetti di lamiera in lastre di vibrazioni urlanti; la pioggia colpisce le ali di centinaia di pipistrelli, e ogni goccia esplode in tante piccole goccioline piú piccole che precipitano nel fiume sorvolato dagli uccelli; nuvole cariche d’acqua restano sospese sulla cima degli alberi, inumidendo le foglie senza che cada una singola goccia, il loro tocco è come il suono del pennello che sparge inchiostro su un foglio bianco.
Sono le foglie a parlare con piú eloquenza il linguaggio della pioggia. La diversità botanica raggiunge qui livelli incomparabili: in un ettaro di terreno vivono oltre seicento specie di alberi, piú che in tutto il Nord America. E se ci spostiamo nell’ettaro vicino, la lista si allunga ancora. Ogni volta che visito questi luoghi, la mia ancora in mezzo a questa meravigliosa confusione botanica è un albero di Ceiba pentandra, una specie che la popolazione locale chiama ceibo, l’albero del corallo. Ci vogliono ventinove passi per girare intorno al tronco, scavalcando le radici-contrafforti che si irradiano dal centro, ciascuna alta quanto un uomo, per poi sprofondare verso la giungla. Il tronco vero e proprio misura tre metri di diametro, una volta e mezza le colonne del Partenone. Nonostante la sua mole impressionante, quest’albero è molto piú giovane dei pini, ulivi, e sequoie che vivono nei climi freddi o secchi, e la cui età si misura in millenni. Nell’Amazzonia, ricca di funghi e di insetti, è raro che un albero del corallo viva piú di duecento anni. Gli individui piú giovani possono crescere di due metri all’anno, sacrificando la solidità del legno e le difese chimiche a vantaggio della velocità. Secondo le stime degli ecologi questo albero avrà centocinquanta o duecentocinquanta anni. La sua cima forma una vasta cupola e sorpassa di una dozzina di metri i suoi vicini, alti quaranta metri, cioè l’altezza di un edificio di dieci piani. Appollaiato su un ramo in cima riesco a vedere una tettoia di alberi diversa da quella che si può osservare in altre foreste temperate. Una dozzina di altri alberi di corallo si frappongono tra me e l’orizzonte.
Quest’albero è un gigante. Un axis mundi? Forse, ma il suono della pioggia impedisce di utilizzare una singola idea per isolare l’albero dalla comunità a cui appartiene. Ogni goccia che cade è un battito di tamburo sulle foglie. La diversità botanica è riconoscibile attraverso il ritmo battente, e sempre diverso, del tamburo. Ogni specie restituisce un suo peculiare suono di pioggia, che rivela la diversa conformazione fisica delle foglie dell’albero del corallo, e delle molte altre specie che vivono intorno alla sua figura imponente.
Le ali distese delle falene tintinnano nell’impatto con una goccia di pioggia. Una foglia di arum, dalla forma di cuore allungato, grande come il mio braccio, emette un tuc tuc tuc con sottotoni che continuano ad aleggiare nell’aria mentre la superficie della pianta ne assorbe l’energia. Le foglie rigide come piatti da portata di un albero lí vicino accolgono la pioggia con uno schiocco dai sentori metallici. Una rosetta di foglie lanceolate spunta dalla sommità di un cespuglio di Clavija, e ognuna si contorce, sferzata dalla pioggia. Il suono è piatto, tup, senza nessuna traccia di quell’urgenza manifestata dagli esemplari piú cedevoli. La foglia di una pianta di avocado amazzonico invece si esprime con un tonfo sordo, basso, chiaro e pulito.
I suoni provengono dalle piante ai piedi dell’albero di corallo, specie che si radicano sotto i rami piú bassi e nel suolo soffice intorno al tronco. L’acqua che colpisce queste piante è già passata attraverso le molte foglie piú in alto. Sulla cima la maggior parte delle foglie ha la forma caratteristica dei tropici: una superficie piana che termina in punte affilate o sfrangiate. Queste punte che fungono da grondaia, insieme alla superficie piana delle foglie, raccolgono l’acqua in grosse lacrime. E man mano che la lacrima si gonfia, l’acqua si trasforma in una lente che riflette la luce e fa apparire l’immagine rovesciata della foresta. La goccia è trattenuta solo dalla punta sottile della foglia, cosí dopo qualche istante questa rilascia l’acqua accumulata, ed ecco che si forma un’altra lente che restituisce un’altra immagine prima di precipitare. In questo modo la foglia distribuisce l’acqua e al contempo si mantiene asciutta, rallentando la crescita di funghi e alghe, amanti dell’umidità. Lo sgocciolio proveniente dalle foglie in alto non fa che accrescere le gocce d’acqua piovana, già enormi, che ricadono sulla superficie delle piante ai livelli inferiori. Le foglie piú larghe sono quelle che raccolgono piú acqua, e la rilasciano piú velocemente, quindi il ritmo di crescita delle piante sottostanti dipende dalla forma delle foglie sulla cima dell’albero. La miriade di taglie, forme, spessore, consistenza e gradi di flessibilità delle foglie piú in basso aggiunge un suo timbro al suono. Persino lo strato di foglie già cadute a terra canta con un vigore che non ho mai sentito altrove. Il suono che emana dalla terra è come il tic-tac di mille orologi caricati a molla, e ciascuno rilascia una sorta di chak, un suono che è proprio di quel guazzabuglio di legno e foglie in decomposizione.
Sulla cima dell’albero del corallo si ritrova questa diversità acustica vegetale, ma lí è piú sottile. Le gocce sono piú piccole, e creano un suono simile a quello delle cascate di un fiume, coinvolgendo le foglie degli alberi vicini, e oscurando la variazione di suono di ogni singola foglia. Al momento mi trovo in cima a un albero che spicca sugli altri, sovrastandoli, dunque il suono di cascata mi arriva da sotto i piedi. Ho l’impressione di essere con la testa in giú e i piedi in su, come nell’immagine riflessa da una goccia d’acqua, disorientato dal rumore della pioggia sotto di me. La mia scalata all’albero, quaranta metri percorsi su una scala a gradini metallici, mi ha trasportato attraverso tutti gli strati di pioggia: il suono delle gocce d’acqua sulle foglie cadute al suolo e sulle piante degli strati bassi va scomparendo appena si raggiunge un metro o due di altezza, e viene sostituito dal ticchettio chiaro e irregolare dell’acqua che colpisce le foglie sparse, gli steli che si tendono verso la luce, le radici che scavano vigorosamente nel terreno. A venti metri d’altezza il fogliame s’ispessisce, e iniziano a sentirsi le cascate d’acqua. Mentre salgo ancora piú in alto sento il suono dei singoli alberi crescere, poi diminuire, prima il frastuono di una macchina da scrivere, i tasti colpiti alla massima velocità proveniente da un fico rampicante, poi il rumore aspro dell’acqua che attraversa un’irsuta pianta rampicante. Supero la superficie della cascata e il suo fragore si affievolisce, svelando un ticchettio d’acqua sulle foglie carnose delle orchidee, l’impatto vischioso delle gocce di pioggia sulle bromeliacee, e lo schiocco pesante sulle orecchie d’elefante dei Philodendron. Non c’è neppure un punto sulla superficie dell’albero che sia nudo, libero da vegetazione: centinaia di specie diverse popolano la cima dell’albero del corallo.
I rimedi che l’uomo ha inventato per proteggersi dall’acqua qui sono inutili, e confondono l’orecchio. Le giacche impermeabili respingono le gocce di pioggia, ma la plastica rende ancora piú insopportabile il caldo tropicale, e il sudore comincia a colare lungo il corpo. A differenza di molte altre foreste, qui la pioggia rivela talmente tante informazioni acustiche che lo stridio, il ticchettio o lo sbuffo della pioggia sul poliestere, il nylon o il cotone diventano una barriera e una distrazione uditiva. La superficie liscia ed elastica della pelle e dei capelli umani è silenziosa, o quasi. Le mie mani, le spalle, e il viso reagiscono alla pioggia con delle sensazioni, non con un suono.
Quando i missionari dell’Occidente giunti fino a qui insistettero perché i nativi colonizzati ed evangelizzati indossassero degli abiti, un effetto indesiderato di questa imposizione è stato quello di orientare le orecchie verso il proprio sé, lontano dalla foresta, chiudendo almeno in parte la porta della relazione acustica con le piante e gli animali. Nelle conversazioni con i Waorani, membri della cultura nativa locale, ho sempre sentito parlare, senza che lo avessi chiesto, di quanto fosse scomodo e faticoso indossare i vestiti per andare in città. I Waorani hanno abitato la foresta per migliaia di anni, ma oggi le loro vite e la loro cultura sono minacciate da forze esterne. Gli abiti hanno quindi un peso importante per molte ragioni. Una di queste, credo, è la disconnessione dalla comunità acustica, una perdita significativa per un popolo che vive all’interno di una relazione con altre specie. Proprio come il rumore delle macchine assorda gli operai delle fabbriche, costretti a proteggersi l’udito con delle cuffie, cosí indossare abiti rende gli abitanti delle foreste incapaci di sentire.
Sulla vetta dell’albero del corallo i rumori degli animali coprono i ritmi propri delle piante: gemiti, mormorii, guaiti, fischiettii, ululati, ronzii. Non c’è verbo relativo al mondo sonoro che non trovi qui un suo campione, e molte specie comunicano attraverso suoni per i quali il nostro linguaggio non ha ancora una definizione adeguata. Le ali sfumate di una Thalurania furcata, una specie di colibrí, emettono un sibilo simile a quello di una frusta. Questo uccello, non piú grande del pollice di una mano, è un insieme scintillante di blu e verdi iridiscenti, e in questo preciso momento sta immergendo il becco nell’arco scarlatto dei fiori che emergono da una bromeliacea zebrata. Tra le foglie carnose della bromeliacea, simili al ciuffetto di foglie in cima all’ananas, una rana emette il richiamo ko-ko-ko-UP!, un ritornello che genera la risposta corale di decine di altre rane nascoste tra la selva di altre bromeliacee che ricopre i rami. Contrariamente alle foglie sfrangiate, le rosette tese verso l’alto delle bromeliacee raccolgono e trattengono l’acqua. Ciascuna di esse può contenerne quattro litri negli interstizi alla base delle sue foglie, un luogo di coltura per rane e centinaia di altre specie. Un ettaro di foresta raccoglie cinquantamila litri d’acqua all’interno delle bromeliacee, la maggior parte trattenuta tra i rami dei grandi alberi. L’albero del corallo è un vero lago nel cielo.
Le pozze d’acqua non sono l’unico habitat che si ritrova nella chioma dell’albero. Tra i suoi rami si contano tanti microclimi quanti se ne possono trovare in centinaia di ettari delle foreste piú temperate. Pozze d’acqua si accumulano all’interno delle biforcazioni dei rami piú riparati; piccoli acquitrini effimeri si formano e si dissolvono nelle cavità nodose; foglie che si sono staccate nell’arco di decine di anni si sono accumulate in ogni punto della chioma, e ora sono un terreno fertile e profondo quanto quello ai piedi dell’albero; il terriccio trasportato dal vento si posa sui rami piú larghi e viene lí trattenuto dai rampicanti. L’humus ha permesso a un fico dal tronco largo come il torso di un uomo di piantare le radici nella confluenza dei rami dell’albero del corallo, una vera e propria foresta che si estende a cinquanta metri sopra il livello del suolo. Questi alberi si raggruppano a est e a nord dell’albero, dove la chioma e il terriccio racchiuso in essa rimangono umidi, e le foglie sono piú spesse, creando una sorta di vallata ombrosa. Sui rami a sudovest, i piú esposti al sole, una comunità di cactus, licheni e bromeliacee dalle foglie affilate come rasoi sopportano l’alternanza diluvio e siccità, gonfiandosi d’acqua sotto la pioggia, per poi richiudersi sotto l’implacabile sole equatoriale. Lungo i tronchi verticali le piante rampicanti si intrecciano con giardini di orchidee, su una superficie umida in cui affondano le radici delle felci. Al di sopra di tutto questo crescono le foglie dell’albero del corallo, ciascuna della dimensione del palmo di un bambino, un ventaglio di otto o dieci foglioline allungate, attaccate all’estremità di ramoscelli sottili, creano una bruma diafana. Le foglie a prima vista sembrano troppo fragili per un albero cosí grande, ma, al contrario delle piante piú in basso, e dunque piú riparate, queste foglie devono resistere al vento delle tempeste e alle precipitazioni piú violente. Le loro piccole dimensioni e la forma a ventaglio permettono loro di chiudersi e proteggersi.
Molti biologi tropicali lavorano a livello del terreno. Tuttavia negli ultimi tempi scale di corda, tralicci e gru hanno trasportato gli scienziati fino alla cima degli alberi. Ed è qui che, si è scoperto, risiede la metà, e probabilmente anche di piú, delle specie presenti nella foresta: qui e in nessun altro luogo. «Canopia», il termine utilizzato in biologia per descrivere le chiome di molti alberi diversi all’interno di una foresta, è una definizione troppo semplice per un mondo cosí complesso e tridimensionale.
Le mappe della biodiversità ci forniscono un altro modo per comprendere meglio le molte vite all’interno di questo albero del corallo. Se prendiamo in esame la ricchezza di piante, anfibi, rettili e mammiferi – certamente una piccola parte della diversità globale, ma anche quella che conosciamo meglio –, e la posizioniamo all’interno del globo terrestre, si può vedere, attraverso una mappa a colori, qual è la zona con la piú ampia varietà di specie per ciascun gruppo. E il centro abbagliante della mappa, quello dove i colori convergono nel modo piú evidente, si trova nella parte orientale dell’Ecuador e nel Nord del Perú, quindi l’Amazzonia occidentale. La catalogazione delle categorie di specie all’interno di questi grandi raggruppamenti tassonomici conferma ciò che la mappa suggerisce: si tratta senza dubbio dell’apogeo moderno della biodiversità terrestre, il risultato della creatività della vita nell’incubatore del caldo e dell’umidità tropicale. L’evoluzione ha avuto il tempo di elaborare le sue produzioni nella serra amazzonica, che è una foresta tropicale da milioni, e forse decine di milioni di anni. La storia geologica della regione non è ancora chiara, tuttavia la posizione dell’Amazzonia occidentale, situata tra le Ande e la costa dell’Atlantico, potrebbe aver favorito l’invasione di nuove specie provenienti dal mare e dalle montagne, facendo ulteriormente lievitare la biodiversità della regione.
Un indicatore meno formale, ma altrettanto informativo circa la diversità di specie presenti in questa foresta, è farsi accompagnare in una passeggiata da un botanico professionista, un docente oppure una guida esperta. La loro straordinaria conoscenza, sia botanica che culturale, comprende le varietà di piante piú comuni e il loro ruolo nella vita degli umani. Gli esperti aggiungono una comprensione specialistica sull’identità e le storie di alcune particolari categorie di piante che studiano da decenni. Ma il compito di identificare la maggior parte delle specie, e di conoscerne la storia, va ben oltre le loro possibilità. Specie sconosciute e mai descritte dalla scienza occidentale sono ovunque. Alcuni botanici hanno recentemente scoperto una nuova specie sulla strada che portava dal centro di ricerca alla mensa. Quest...