– E adesso? Cosa diremo agli angeli, quando ci accoglieranno alle porte del cielo?
– La verità, che altro...
– La verità, sí. Ma noi intendevamo... cosa gli diremo per intrattenerli, per fare un po’ di scena, perché rimangano colpiti...
– Beh, parlate d’amore.
– No, l’amore non funziona piú. Non li scuote.
– Allora buttatevi su un dolore piú sottile.
1.
La prima volta arriva a maggio. Oh, il tenero maggio!
È domenica. Il caprifoglio sboccia e l’erba cresce.
Alzo gli occhi dalla foto, li riabbasso, mi allunga la valigia.
È piccola. Sicché penso che ripartirà presto.
Apro il bagaglio. Le solite cose: un rasoio, biancheria, un paio di camicie.
Tutto di buon gusto, senza eccessi.
Viene da un paese lontano. Un volo di tre ore.
Cosí, a prima vista, potrebbe occuparsi di qualsiasi cosa.
Magro, lo sguardo aperto. Sembra una di quelle persone nate per rendere gli altri contenti: familiari, clienti, amici.
Pantaloni di velluto. L’azzurro della camicia.
Gli riallungo il documento. Ha atteso il mio esame con l’aria piú tranquilla del mondo. Mi sorride, rimettendolo in tasca.
È l’ultimo passeggero del volo.
Chiudo il turno, è ora di andare a casa.
2.
Dall’aeroporto impiego cinque minuti. Una stradina di campagna, pochissime case. Nei prati, qualche animale. Un capannone dismesso. Un’ansia un po’ grigia.
Non mi aspetta nessuno, a parte Flick.
Intorno alla casa, solo qualche sterpaia e una lingua di bosco. In autunno o in inverno, uscire all’aperto significa trovarsi in un mare lattiginoso. Solo la luce gialla di qualche lampione. Nient’altro.
A primavera la luce dei lampioni è ugualmente gialla. Ma lo spuntare delle gemme – nell’alba – lo avvertiamo un poco anche noi.
3.
Mi chiedono che cosa trovi di bello nel mio lavoro. Beh, dico, il fatto di guardare. Guardo la gente. Ce n’è di ogni tipo.
Ok, mi fanno, però tutte quelle persone le hai davanti solo per un attimo. Il tempo di darti il passaporto e già le vedi svanire verso l’uscita.
È vero. Ma a me non dispiace. Le guardo come fossero insetti. Mi ronzano intorno per un attimo. Io le guardo, e immagino. Mi interessa ogni particolare, dall’aspetto fisico alle piccole abitudini. Le ripetizioni, le ossessioni. Le regolarità.
Senza nemmeno accorgermene, mi ritrovo in mano una storia.
Ho tanto tempo. Siamo un piccolo aeroporto. I voli sono numerosi, ma non poi cosí frequenti.
Io guardo, dall’alba al tramonto.
Spesso anche di notte.
E immagino.
4.
Domenica sera. C’è una brezza leggera. Profumo nell’aria.
Eccolo riapparire dalla porta degli arrivi.
È stato contento di rivedere i suoi – pare evidente – e ha fatto fatica a ripartire. Mi consegna il passaporto. Ha il volto tirato, un’ombra sotto gli occhi. Ma non ha perso il tratto gentile. Quando gli riconsegno il documento, mi sorride veloce, lo infila nella giacca e si allontana. Attraverso le porte vedo che qualcuno è venuto a prenderlo. E da come gli si rivolge e gli toglie di mano il bagaglio, intuisco debba trattarsi di un autista.
Il mattino dopo sarà sicuramente, puntuale, sul luogo di lavoro.
Una piccola azienda, con un discreto numero di operai.
Dal piazzale, scendendo dall’automobile, sentirà già il chiasso dei macchinari. È un bel rumore sferragliante. Gli piace. All’inizio della settimana, gli dà una sensazione positiva. I muletti sfrecciano dal magazzino alle linee produttive. I capi sbraitano perché venga tenuto il ritmo giusto ai banconi. Le impiegate ticchettano veloci cercando i responsabili di linea per avere delle firme. I camion manovrano precisi negli spazi davanti ai magazzini.
Entra in ufficio e viene salutato dalla segretaria, che lo aiuta a togliersi il cappotto e gli serve subito un caffè. Lui quasi si sottrae, schivo.
La mattina è piena di impegni, telefonate, incontri, l’ispezione di un terreno per un nuovo capannone, una riunione con un gruppo di fornitori. Il pomeriggio, chiuso in ufficio a fare calcoli.
La segretaria silenziosa.
Immagino esca dallo stabilimento che è buio. Un pasto veloce in albergo. Prima di coricarsi, una veloce telefonata con la moglie? Tutto bene. I ragazzi sono fuori. Anche lei si coricherà presto. Mi manchi. Ti manco? Sí.
5.
Oggi non vedo l’ora di staccare. Ancora un paio d’ore in aeroporto e poi due giorni interi liberi. È il momento di nobilitare l’uomo, di affinarlo e levigarlo con la fatica.
Tra sabato e domenica, voglio proseguire con i lavori a casa mia. Sto ricavando una stanza per gli ospiti da un grosso sgabuzzino mai usato. Debbo scavare l’intero fondo del locale, portandolo a meno sessanta centimetri dal livello iniziale. Poi potrò disporre gli elementi forati per la circolazione dell’aria e quindi applicare l’isolante. Scavo da giorni, in ogni momento libero. Ho le mani rotte e la schiena dolorante, ma voglio finire.
Ancora poco, un arrivo da un paese vicino, la partenza di un piccolo volo interno e poi basta. Due piene giornate di pausa! Non c’è niente di meglio che lavorare di piccone e badile, per dimenticarsi di ogni cosa. Affinare l’uomo. Levigarlo...
Starsene lí, nel sudore e nella polvere, e vedere come procede il lavoro. Misurare a intervalli regolari di quanto si è stati in grado di avanzare. Intuire, quando si puliscono i detriti, i contorni del progetto finito.
E soprattutto, che bello alzare la testa e rendersi conto che, per un’ora o due, non si è pensato a nient’altro che al rumore sordo del corpo, al sudore.
Non mi è difficile raggiungere un simile stato. Mi spingo sino a soffrire per le vesciche sulle mani, per il dolore alla schiena, l’indolenzimento delle braccia. Il rumore del corpo mi aiuta a trovare una sorta di piccolo centro.
Quindi, all’apice della fatica, io vivo, mi dico. Io vivo!
E quando poi, la sera, ripongo la carriola e pulisco gli arnesi, è come se mi alzassi da un letto sfatto, per servire a una giovane amante un calice di vino superiore. La guardo, ne fisso il respiro ancora un po’ affannato, i segni arrossati sul petto e sul collo e credo, per un attimo – sí, lo credo veramente – di avere vissuto.
6.
Certo, prima o poi succederà.
Inutile cercare di sfuggire.
Dovremo parlare agli angeli.
Arriveremo alle porte del cielo stanchi, spossati, e dovremo per forza dire qualcosa. Non potremo sottrarci. Che cosa abbiamo fatto, come abbiamo vissuto – roba cosí.
Beh, noi ci concentreremo profondamente, passeremo in rassegna tutta la nostra vita e, alla fine, partoriremo un qualche pensiero. Ovvio, dovremo scartare un’infinità di immagini, di false aspettative, di ambizioni, desideri, orgogli, frustrazioni, e arrivare veramente al dunque.
Ci metteremo un po’ e, alla fine, ci uscirà qualcosa di semplice.
Diremo che, di tutto quello che abbiamo vissuto, ci è rimasto solo un insieme di frammenti, piccole schegge, tutte molto lontane. Una piega del labbro di nostra moglie, ad esempio, il primo giorno insieme; un lembo del suo ginocchio, nel preciso istante in cui ha deciso di andarsene; la fossetta alla base del collo di una splendida sconosciuta; il ciuffo sulla guancia di nostro figlio...
Poco altro.
Non sappiamo affatto se questo basterà, ma la penuria ha una sua bellezza.
Contiamo su questo.
7.
Il mattino dopo, il mio viaggiatore potrebbe avere in programma una riunione difficile: discussione, scontro, ricucire, mediare. Al termine, visita alle linee. Grande volontà produttiva, un po’ di confusione. Voglia di lavorare, di fare bene. Lunghe file di operaie con il camice azzurro, la cuffia. Uomini alle presse. Ragazze piú giovani, con l’aria dinamica, alla guida dei camioncini dei fornitori e degli spedizionieri. Forse ce n’è qualcuna che gli ricorda la figlia. Hanno piú o meno la stessa età. L’aria indipendente, sicura e tuttavia morbida. Sprizzano un’energia buona. Mostrano tutte le anime che portano con sé: fidanzati, genitori, fratelli, amici. Portano in quei pulmini tutta la loro vita.
Si ferma per un po’ a osservarle dalla finestra dell’ufficio. È tutto un mulinare di ruote, capelli, retromarcia, freno, sportelli che si aprono e si richiudono in un gran chiasso e nel vociare di chi carica.
Gli operai accennano qualche battuta un po’ volgare, ma sulle giovani autiste sembrano scivolare come un niente. La vitalità fresca neutralizza tutto. E gli uomini, d’un tratto, diventano miti.
Il mio viaggiatore forse pensa che non sarebbe male che i figli venissero un po’ a provare quel tipo di lavoro. Non gli dispiacerebbe. Forse immagina sua figlia a bordo di uno di quei furgoncini. I capelli raccolti, l’aria sveglia, la voglia di sfrecciare lontano.
8.
Abbiamo un solo ristorante, in paese. L’ingresso un po’ angusto, che poi si apre in un salone. Lungo i lati, delle ampie nicchie. Se uno vuole incontrare qualcuno, qui da noi, lo porta in questo locale. Chiede un tavolo in una delle nicchie, per garantirsi un po’ di riservatezza. I camerieri sono robusti e svelti. Le tovaglie pulite. Di piú non si può chiedere.
Gli incontri di lavoro, le stipule di un contratto importante, tutto avviene qui.
Il mio viaggiatore potrebbe pranzarci con degli investitori.
Due uomini e una donna, per esempio.
Il discorso si sviluppa a singhiozzo. Gli uomini cincischiano. La donna vorrebbe firmare e cerca l’aiuto necessario a smuovere la trattativa. Lui apre uno spiraglio. Lei raccoglie il segnale. Ai liquori, infine, spuntano cartelline, faldoni e una batteria di penne stilografiche.
Ma è solo un momento. Chiuso un capitolo, se ne riapre un altro.
La settimana scorre piena di problemi che si risolvono in fretta, analisi svelte, riunioni, qualche scontro, ma, senza che lui nemmeno se ne accorga, è arrivato venerdí.
Eccolo all’entrata. È stanco, assorto. L’aereo ha un po’ di ritardo, ma il volo sarà tranquillo. Di sicuro la moglie lo attende all’aeroporto.
Come si sente, solo in quel paese lontano, in quella vita cosí diversa? Lui non ha quasi tempo di rendersene conto. Dal momento in cui sbarca in aeroporto al check-in successivo sembrano passare poche ore. È come se, in mezzo, non ci fosse nient’altro. E la sera, in albergo, non ha nemmeno il tempo di pensare, perché cade sul cuscino, si accascia, si spegne.
Capita anche a me. Quasi ogni giorno. Crollo, come non avessi piú forze, e anche la stanza crolla, sembra adagiarsi su di me. Il soffitto mi si sdraia sul petto.
Non chiudo subito gli occhi, continuo a guardare. E vedo le macerie dal basso. Ne sento la storia.
Non tutte le macerie sono uguali. Alcune sono piú dense, torbide. Altre piú leggere, polverose.
Piú spesso sono grasse, gementi. Come femmine anziane che ricordano il piacere.
Svuotate. Incerte. Esauste.
Piene di lacrime e rimpianto.
9.
A volte penso che anche lui potrebbe cercare di figurarsi la mia esistenza, le mie serate al rientro dal turno, la vita di un tempo con mia moglie, i miei figli. E potrebbe anche farlo in modo molto accurato e analitico. Ma poi mi dico che io sono in una posizione privilegiata. Io li guardo passare, i miei viaggiatori. Loro passano, è ben diverso.
Ora, e se invece loro potessero comunicare l’uno con l’altro? Se un giorno, per caso, questi pendolari del volo si riunissero per fare due chiacchiere? Scambierebbero le loro impressioni sul doganiere dallo sguardo triste. Come ti sembrava oggi, eh? Un pochino giú. Guarda che borse sotto gli occhi! Da quando la moglie l’ha lasciato... L’ha lasciato? Veramente?
Ma questo non può accadere, perché loro sono isole, separate l’una dall’altra, sperdute nell’immensità dei flutti. Mentre io sono l’osservatore, il punto fermo, colui che guarda.
10.
Una volta posati gli elementi isolanti, farò una gettata leggera. Non vedo l’ora. A quel punto, dovrò rispolverare la mia betoniera arancione. Se ne sta lí da qualche anno, coperta di teli, ma sono sicuro che si desterà subito, con il suo brontolio rassicurante, e riprende...