Da qualche parte nel buio ululano gli sciacalli. Amano le interruzioni di corrente provocate dai temporali, quando a illuminare il villaggio restano solo schegge di chiaro di luna. Forse hanno nel sangue il ricordo di com’era il mondo prima che arrivassero gli uomini a relegarli ai margini.
Di solito a quest’ora Sabitri dorme. Deve condurre una vita regolare, l’ha avvertita il medico. Il suo cuore non è molto in forma, e poi c’è il problema della pressione. Vuole finire inchiodata a letto e farsi imboccare per mandar giú un po’ di decotto d’orzo? Vuole costringerlo a telefonare a sua figlia a Houston? O a chiamare Bipin Bihari Ghatak, l’ex amministratore del suo negozio di Kolkata?
No, Sabitri non vuole nulla di tutto ciò. Bela si metterebbe a sproloquiare come fa sempre quando è assillata dal senso di colpa, e Bipin Bihari, il suo piú vecchio amico, sprofonderebbe in un silenzio carico di preoccupazione, perché non ha mai voluto che Sabitri si trasferisse nel suo villaggio ancestrale, cosà lontano da Kolkata, una volta cessata la sua attività . In quelle terre selvagge, diceva lui.
Sabitri sistema carta e penna sullo sgangherato tavolo da pranzo vicino alla lampada a cherosene. Si muove con cautela per non svegliare Rekha, coricata nel suo angolo a russare sulla stuoia di cocco, altrimenti comincerebbe a sgridarla, forte dei diritti di ogni fedele domestica che si rispetti.
Aveva iniziato bene la serata, standosene affacciata al davanzale a guardare gli scrosci di pioggia che cancellavano il mondo. Le ferite dei lampi squarciavano il cielo. Alle sue spalle Rekha si torceva le mani. Mi lasci chiudere la finestra. La pioggia inumidirà lenzuola e coperte, le trapunte ammuffiranno, e lei si prenderà di nuovo la polmonite: come faremo allora? Ma Sabitri non le aveva dato retta. Le piaceva l’odore della pioggia notturna: terra bagnata, oscurità , ma anche qualcos’altro, un’entità senza nome e un po’ inquietante. Da giovane, nessuno riusciva a tenerla in casa con un tempo cosÃ. Ancora adesso, ormai fragile e anchilosata, la bufera la tocca nel profondo. Ah, Bipin Bihari avrebbe proprio dovuto vederla, questa sera!
Poi il telefono si era messo a squillare. Sabitri non intendeva rispondere. Per questo si era comprata a caro prezzo quella lussuosa segreteria telefonica. Ma poi aveva sentito la voce rotta di Bela. Doveva aver pianto. Cosa riescono a smuovere in noi i figli? Un antico bisogno le si era agitato nel petto. Proteggere, proteggere. Slanciandosi incautamente nelle tenebre, aveva battuto un ginocchio; il dolore le era sfrecciato lungo la gamba in una lingua di fuoco.
– Che è successo? – aveva esclamato nel ricevitore, in un tono dall’accento aspro e rabbioso malgrado le sue intenzioni. La figlia continuava ad avere quell’effetto su di lei.
Ma Bela, assorta nel proprio dramma come le succedeva spesso, pareva non essersene accorta. Si era buttata a capofitto nel proprio racconto. Tara progettava di lasciare l’università , bisognava impedirglielo, aveva completato solo il primo semestre, sarebbe stato il peggior errore della sua vita, quella ragazza si rifiutava di ascoltarla, non ascoltava mai nulla di quello che le diceva sua madre ultimamente.
Sabitri non aveva lasciato trapelare le proprie inquietudini. La compassione avrebbe solo esacerbato il pianto di Bela.
– Mi dispiace –. Ma quanto suonava fredda e insensibile quella frase.
– Devi scriverle, Ma! Tu sei la nonna. Se saprai toccare i tasti giusti, sottolineando i rischi della sua scelta insensata, forse riuscirai a impedirle di rovinarsi l’esistenza!
Sabitri avrebbe voluto rammentare alla figlia che con lei aveva tentato tutti quegli espedienti. E a cosa era servito? E poi Tara non aveva neppure mai visto la nonna. Bela aveva sempre una scusa pronta quando Sabitri le chiedeva di portarla in India. Come se Bela – o magari suo marito, quel Sanjay – avessero paura della sua cattiva influenza.
Gli anni avevano insegnato a Sabitri a tenere per sé certi pensieri. Invece di esternarli, aveva detto: – Perché Tara vuole abbandonare gli studi? È cosà brava.
Non avendo ricevuto risposta, aveva continuato: – Ne ha parlato con suo padre? Probabilmente è piú disposta ad ascoltare lui che me. Non sono legatissimi?
Silenzio all’altro capo del filo, piú sconfortante di qualsiasi scoppio di pianto. Poi Bela aveva spiegato: – Al momento Tara non rivolge la parola a Sanjay.
C’era qualche altro problema, piú serio della decisione di Tara di interrompere gli studi, studi che in America, a quanto ne sapeva Sabitri, si potevano riprendere con facilità . Di colpo Sabitri si era sentita molto piú vecchia dei suoi sessantasette anni. Non aveva avuto la forza di interrogare Bela in proposito. E in ogni caso, che scopo avevano le domande? La cosa piú importante la sapeva già : se la figlia – orgogliosa, testarda, cosà simile a lei – avesse avuto qualcun altro a cui rivolgersi, non le avrebbe mai chiesto aiuto.
Si era annotata con cura l’indirizzo del dormitorio universitario man mano che Bela glielo dettava. Aveva promesso di andare alla posta l’indomani mattina presto con un risciò a motore. E di spedire la lettera per espresso.
E ora, seduta al tavolo che possiede da decenni, passa le dita sulla scalfittura scavata nel legno da Bela dopo un litigio tra madre e figlia. Cosa può scrivere nel suo inglese arrugginito per convincere Tara a cambiare idea? Non riesce nemmeno a immaginare la vita della nipote, il travolgente mondo straniero in cui si muove. Ha solo una manciata di fotografie. Tara bambina in maschera, con una scopa in pugno, per celebrare qualche bizzarra ricorrenza americana della quale Sabitri non aveva saputo comprendere lo scopo. Tara adolescente a una festa speciale chiamata prom, estranea e ricercata in un abito senza spalline. Sabitri si era sentita intimidire dagli zigomi luccicanti di glitter, dalla raffinatezza delle sopracciglia depilate. Com’erano diverse quelle immagini dall’istantanea che conservava nel cassetto, sotto i corpetti dei sari: Tara tra le braccia di Bela, piccolissima, che faceva capolino da sotto un cappuccio di lana azzurra, con un nebuloso ponte arancione ad aleggiare in lontananza.
Quella era stata la sua prima foto. Sabitri ricorda ancora lo spasimo provato nel riceverla, perché avrebbe tanto desiderato essere presente alla nascita della bambina. Ma nessuno l’aveva invitata.
Allontana da te il passato, si esorta, quel vaso in cui tutte le emozioni si rapprendono nel rimpianto. E mettiti a scrivere.
Tara, nipote carissima,
sono certa che ti stupirai nel ricevere questa lettera, dato che di solito ci scriviamo solo per mandarci gli auguri di Bijoya. Ho saputo da tua madre che non desideri continuare l’università . Mi dispiace molto di queste tue intenzioni, e spero che vorrai ripensarci. Senza un’istruzione, una donna ha ben poche opportunità di reggersi in piedi sulle proprie gambe. Finisce per vedersi costretta a guardare dai bordi del campo mentre gli altri si godono la vita che lei sognava…
Sbagliato, sbagliato, tutto sbagliato. Un’intera ora sprecata. Sabitri appallottola il foglio e lo getta sul pavimento.
Tara, nipote carissima,
non hai idea di quanto tu sia fortunata a poter frequentare l’università . Moltissime famiglie sono troppo povere per affrontare una spesa del genere. Sarebbe uno spreco scellerato non approfittare della possibilità che la vita ti ha offerto.
Detesta ciò che ha scritto: frasi perbeniste, pompose, saccenti. Strappa la pagina. I suoi pensieri tornano una volta di piú alle fotografie. Quella che preferisce, esposta sulla toeletta, ritrae Tara in piscina, a nove anni. In due pezzi rosa, è in equilibrio sull’orlo del trampolino, pronta a tuffarsi. Ha il viso colmo di terrore e di euforia.
Come le conosce bene Sabitri, certe sensazioni.
Il suo tuffo nell’ignoto ebbe inizio, come tante cose in Bengala, con un vassoio di dolci. Ha dimenticato molti particolari di quell’epoca – a pochi anni dall’indipendenza, quando lei era appena diciassettenne – ma quel vassoio lo ricorda con chiarezza: pesante, d’argento massiccio, con un bordo aguzzo in rilievo che le tagliava le dita mentre lo reggeva lungo il sentiero fangoso seguendo la madre, che ne reggeva uno simile. Durga teneva la schiena curva. Durante il tragitto, le sporgenze delle sue vertebre andavano su e giú sotto il logoro corpetto del sari. Era la piú strenua lavoratrice che Sabitri conoscesse. Se non fosse stato per lei, la famiglia sarebbe andata in rovina da un pezzo, perché il padre era il tipo d’uomo di cui il mondo si approfitta regolarmente. Guardando la madre, Sabitri sentiva dentro di sé un subbuglio di emozioni, un misto di tristezza, rabbia e amore.
I vassoi appartenevano ai Mittir, le persone piú ricche del villaggio. Sui margini era inciso il loro nome, per scoraggiare i ladri, o forse come una sorta di proclamazione. La padrona di casa, Leelamoyi, aveva ordinato i dolciumi per un pranzo formale. I Mittir avevano un cuoco, un bramino fatto venire da Kolkata, ma i dolci di Durga, famosi in tutto il villaggio, erano di gran lunga migliori di qualsiasi dessert fosse capace di preparare lui. E Leelamoyi doveva avere sempre il meglio.
Sabitri non voleva accompagnare la madre. Leelamoyi, che abitava a Kolkata e veniva al villaggio solo in occasione delle feste perché non poteva evitarlo, era famigerata per la lingua tagliente, il temperamento imprevedibile e l’alta considerazione che aveva di sé. Avrebbe senz’altro rimarcato quanto fosse cresciuta Sabitri, sottolineando il fatto che se i genitori non si fossero affrettati a prendere provvedimenti, non sarebbero riusciti a trovarle un marito. Ma non c’era nessun altro in grado di aiutare Durga. La sorella di Sabitri era troppo piccola. Il padre lavorava al tempio, dove svolgeva le mansioni di sacerdote part time. E anche se fosse rimasto a casa, avrebbe rilevato nel suo tono mite e sorpreso che quelli non erano compiti da uomo. Perciò era toccata ancora una volta a Sabitri, che sudava in preda all’irritazione, sforzandosi di non mettere i piedi nello sterco di vacca.
Nelle stanze dei Mittir l’aria era fresca e umida grazie ai giunchi bagnati che coprivano le finestre. Due cameriere manovravano grandi ventagli di fronde di palma. Leelamoyi, circondata da un branco di pettegole, aveva adagiato la propria considerevole mole su un divano di seta a fiori. Doveva essere di ottimo umore, perché assaggiò i dolci, li dichiarò buoni e consegnò a Durga un fascio di rupie senza contarle. Poi squadrò Sabitri da capo a piedi.
– Come si chiama tua figlia? – domandò a Durga.
– Sabitri, Rani Ma.
– Ah! Non ti manca l’ambizione, eh, visto che hai scelto di darle il nome della mitica eroina riuscita a strappare il marito dalle grinfie della morte in persona. Be’, sarà meglio che ti sbrighi a trovargliene uno, di marito, altrimenti finirà per non sposarsi affatto.
Sabitri nascose la propria rabbia e tirò il sari della madre, nel tentativo di indurla ad andarsene, ma Durga replicò: – Sabi non vuole sposarsi, Rani Ma. Vuole andare all’università . Per diventare insegnante. È in gamba. È stata la migliore agli esami di ammissione alla scuola femminile. Però noi non abbiamo soldi.
Sabitri avvampò. Affronta la vita a testa alta, le aveva sempre raccomandato la madre. E allora perché umiliare se stessa – e la figlia – rivelando a una donna ricca e viziata il tenero sogno che lei le aveva confidato? Un sogno irrealizzabile come la speranza di mettere le ali. Non si sarebbe mai piú aperta cosà con lei!
Adesso Sabitri pensa: Se solo si potessero cancellare gli anni, giusto quel tanto che basta per dire Capisco. Ma quando infine si era resa conto di quanto fossero costate quelle parole a sua madre, lei stessa era diventata madre ed era sola, e Durga, passata a miglior vita, si trovava al di là di qualunque frase di scusa.
– Sul serio? – Leelamoyi inarcò le sopracciglia in un’espressione incredula. L’oro le appesantiva i polsi. I braccialetti che portava sarebbero bastati a pagare gli studi di Sabitri due volte.
In certi momenti l’ingiustizia del mondo faceva sentire Sabitri sul punto di esplodere. Si aprà una strada tra la ressa delle donne per raggiungere l’uscita.
Dietro di lei, Leelamoyi parlò in tono aspro. – Ragazza, ti ho forse dato il permesso di andartene?
Sabitri prese in considerazione l’idea di disobbedire, ma l’ira di quella donna avrebbe potuto rendere le loro vite ancora piú stentate di quanto non fossero già . Non poteva fare una cosa del genere alla sua famiglia. Si fermò, anche se rimase di spalle.
– Facciamo cosÃ, Durga, – disse Leelamoyi, con la voce di nuovo flemmatica. – Se questa tua figlia impaziente è davvero cosà brava come sostieni, nel caso riesca a ottenere l’ammissione in un’università di Kolkata, sarò io a pagare la retta e le permetterò di alloggiare a casa nostra durante gli studi.
Il gruppo delle adulatrici si agitò intorno a Leelamoyi e proruppe in un coro di gelose esclamazioni per quell’atto di generosità divina, tanto superiore a quanta ne meritava la ragazza. Sabitri restò là impietrita dall’incredulità finché Durga non la trascinò avanti esortandola a toccare i piedi della Rani Ma in un gesto di gratitudine.
Il puro brivido freddo del marmo contro la fronte. I pensieri che le turbinavano in testa come uno stormo di uccelli spaventati. La squallida parete del suo futuro senza sbocco si era appena trasformata in una porta d’oro. Grazie, pensò con fervore, vergognosa del proprio errore di giudizio. La voce di Leelamoyi, rimbombando dall’alto, suonava proprio come quella di una dea. Sabitri non poté decifrare le parole, anche se udà i risolini che suscitarono tra le donne presenti.
Un’intera vita d’impazienza, giorni lenti come vacche al pascolo in un prato inaridito dall’estate. E poi si ritrovò a Kolkata, davanti alla casa dei Mittir, a scrutare attraverso il cancello di ferro battuto, con la mano sudata chiusa intorno all’impugnatura della valigia di latta dipinta. Si aspettava un palazzo imponente. Eppure rimase sbalordita dall’enorme dimora di tre piani, con le finestre chiuse da imposte simili a palpebre appesantite. Sotto un portico colossale luccicava un’automobile. Il muro di cinta di mattoni che circondava la proprietà era coronato da schegge di vetro per tener fuori gli intrusi. Un guardiano con i folti baffi di un bandito batté la sua lathi sul lastricato del viale d’accesso e con voce terribile le urlò di togliersi di mezzo. Quando lei gli disse di essere stata invitata a vivere là da Leelamoyi, l’uomo sghignazzò incredulo e cercò di strapparle di mano la lettera di conferma inviata dall’amministratore dei Mittir, Sarkar Moshai.
Sabitri non sapeva come sarebbe andata a finire, ma proprio in quel momento un giovanotto emerse dall’edificio. – Cos’è tutta questa confusione? – domandò.
La camicia del nuovo venuto splendeva al sole, accecandola. Non aveva mai visto nulla di cosà bianco. In seguito gli avrebbe chiesto quale sapone usassero in casa Mittir. L’esistenza del giovane, però, non l’aveva mai condotto neppure vicino ai locali della lavanderia, perciò non ne aveva idea.
Sabitri radunò il proprio coraggio, oltrepassò il guardiano e con un gesto disperato protese la lettera stretta fra le dita tremanti. Il giovanotto ne scorse rapidamente il testo e ordinò al guardiano di mandare la visitatrice da Sarkar Moshai. – Assicurati che qualcuno le offra qualcosa da bere e da mangiare, – aggiunse. – Non lo vedi che è sfinita?
Poi, senza dare a Sabitri il tempo ...