Che cosa preferireste, amare di piú e soffrire di piú; o amare di meno e soffrire di meno? Credo che, alla fine, l’unica vera domanda sia questa.
Potreste sottolineare – con ragione – che non si tratta di una domanda vera. Perché non abbiamo scelta. Se avessimo scelta, la domanda potrebbe sussistere. Ma non ce l’abbiamo, perciò non sussiste. Chi è in grado di controllare l’amore che prova? Se è controllabile, non è amore. Non saprei come altro chiamarlo, ma amore non è.
Abbiamo quasi tutti un’unica storia da raccontare. Non voglio dire che nella vita ci capiti una cosa sola; al contrario, gli avvenimenti sono tantissimi, e noi li trasformiamo in altrettante storie. Ma ce n’è una sola che conta, una sola da raccontare, alla fine. E questa è la mia.
Ed ecco il primo problema. Se parliamo della nostra unica storia, deve essere quella che abbiamo ripetuto piú spesso, sebbene forse – come in questo caso – essenzialmente a noi stessi. E la domanda allora è: ma tutte queste ripetizioni ci portano piú vicini alla verità di quanto è accaduto, o ce ne allontanano? Non sono sicuro. Una prova potrebbe essere se, col passare degli anni, usciamo meglio o peggio dalla storia che ci raccontiamo. Uscirne peggio potrebbe voler dire che siamo piú sinceri. D’altro canto, il pericolo di una visione retrospettivamente anti-eroica c’è: proiettare su di noi l’ombra di un comportamento peggiore del vero può trasformarsi in una forma di auto-encomio. Pertanto dovrò essere avveduto. Beh, con gli anni ho di sicuro imparato a esserlo. Oggi sono avveduto almeno quanto ieri ero avventato. O dovrei forse dire avventuroso? Una parola può avere due opposti?
Tempo, luogo, ambiente sociale? Non so bene quanto contino in una storia d’amore. Magari ai vecchi tempi, nei classici, dove esistevano conflitti tra amore e dovere, amore e Dio, amore e famiglia, amore e senso dello stato. Ma questa non è una storia di quel tipo. Comunque, se insistete. Tempo: piú di cinquant’anni fa. Luogo: una quindicina di miglia a sud di Londra. Ambiente: periferia residenziale per professionisti facoltosi – non che ne abbia mai incontrato uno in tutti gli anni in cui ho abitato lí. Villette, talvolta a graticcio, talvolta in mattone a vista. Siepi di ligustro, alloro, faggio. Strade a schiena d’asino e non ancora imbrattate di strisce gialle e posti auto per residenti. Parliamo di tempi in cui si poteva andare in macchina a Londra e parcheggiare praticamente ovunque. Nel caso specifico la zona suburbana di interesse era graziosamente nominata «il Village», e non è escluso che qualche decennio prima potesse classificarsi come tale. A quel punto vantava una stazione dalla quale uomini ingiacchettati raggiungevano Londra dal lunedí al venerdí, e qualcuno anche una mezza giornata di sabato. C’era una fermata della Green Line; un passaggio pedonale con semaforo a luce gialla intermittente; un ufficio postale; una chiesa poco fantasiosamente intitolata a san Michele; un pub, un emporio, una farmacia, un parrucchiere; una stazione di servizio che fungeva da officina meccanica di base. La mattina si sentiva il ronzio elettrico dei furgoni del latte, poteva essere dell’Express o della United Dairies; la sera, e nel weekend (mai la domenica mattina, però) lo scoppiettare dei tosaerba a benzina.
Sul campo erboso del Village squadre di incompetenti giocavano chiassose partite di cricket; c’erano un campo da golf e un circolo del tennis. Il terreno era abbastanza sabbioso, per la gioia degli appassionati di giardinaggio; l’argilla londinese non si spingeva tanto lontano. Di recente era stata aperta una gastronomia, le cui specialità continentali ad alcuni parevano proposte sovversive: formaggi affumicati, nocchiute salsicce inguainate in reticelle di corda e appese come altrettanti cazzi d’asino. Ma le sposine del Village cominciavano a lanciarsi in una cucina piú intraprendente, e i mariti perlopiú apprezzavano. Dei due canali televisivi disponibili, la Bbc riscuoteva piú successo della Itv, mentre gli alcolici si consumavano di norma solo il sabato e la domenica. Il farmacista vendeva impiastri per verruche e shampoo secco in bombolette spray, ma non contraccettivi; l’emporio alimentari del quartiere aveva in vendita il narcolettico «Advertiser & Gazette» locale, ma nemmeno la piú innocua rivista femminile. Per articoli inerenti al sesso, toccava spostarsi fino a Londra. E per gran parte del tempo che passai in zona, nulla di tutto ciò mi disturbava.
Bene, considero concluso il mio dovere di agente immobiliare (ce n’era uno vero, a una decina di miglia). Ah, un’altra cosa: non chiedetemi del tempo. Ho la tendenza a non ricordare che tempo ha fatto durante la mia vita. O meglio, mi ricordo che il sole forte dava parecchio impeto al sesso; che mi piacevano le nevicate improvvise, e che i giorni freddi e uggiosi scatenavano quei primi sintomi che col passare degli anni avrebbero reso necessario un doppio intervento all’anca. Ma nessun evento significativo della mia vita si è mai verificato durante un episodio climatico memorabile, e meno che mai a causa del tempo. Perciò, se non vi spiace, la meteorologia non avrà alcuna rilevanza nella storia. Sebbene siate liberi di dedurre, quando mi troverete intento a giocare a tennis su erba, che in quel momento non stesse nevicando né piovendo.
Il circolo del tennis: chi andava a immaginare che potesse avere inizio tutto lí? Crescendo, presi a considerare quel posto né piú e né meno che una dépendance all’aperto della Sezione giovani del Partito conservatore. Possedevo una racchetta, avevo qualche match al mio attivo, cosí come ero in grado di mandare a segno qualche lancio a effetto a cricket, o di manifestarmi come un portiere dal temperamento robusto seppure talvolta spericolato. Ero competitivo negli sport, ma al riparo da talenti ingombranti.
Alla fine del mio primo anno all’università, trascorsi tre mesi a casa, ad annoiarmi senza pudore e senza freni. I giovani di oggi faticheranno a concepire la laboriosità del sistema comunicativo di quegli anni. I miei amici stavano perlopiú lontanissimo e, in virtú di un tacito ma inappellabile veto dei genitori, l’uso del telefono risultava scoraggiato. Partiva una lettera, se ne aspettava una in risposta. Era tutto di una lentezza molto malinconica.
Mia madre, forse nella speranza che incontrassi una Christine bionda e carina, o una bruna Virginia spigliata e riccioluta – in entrambi i casi, una giovane di sicure, seppure sfumate, tendenze conservatrici –, mi propose di valutare un’iscrizione al circolo. Si sarebbe perfino accollata personalmente la quota. Ridacchiai sotto i baffi al pensiero del suo movente: se c’era una fine al mondo alla quale mi sarei rifiutato di condannare la mia vita era la villetta nella periferia residenziale con moglie tennista e 2/4 figli che avrei guardato rimediarsi a turno una compagnia al circolo e cosí via, giú giú lungo una echeggiante teoria di specchi, in un interminabile futuro cinto di ligustro e alloro. Quando accettai l’offerta di mia madre, lo feci per puro spirito canzonatorio.
Mi accodai a lei, e fui invitato a una partita amichevole. Non era solo la mia capacità di gioco a essere messa sotto silenziosa osservazione ma anche, in base a una prassi decorosamente inglese, la mia generica condotta e la mia presentabilità sociale. In assenza di evidenze negative, avrei goduto di pregiudizi favorevoli: funzionava cosí. Mia madre si premurò di candeggiare il mio completo bianco e di stirarmi i pantaloncini con tanto di piega perfetta e parallela; io raccomandai a me stesso di non bestemmiare, ruttare o scoreggiare in campo. Giocavo perlopiú di polso, con una baldanza da quasi assoluto autodidatta; per l’occasione, assecondai le aspettative, rinunciando ai colpi canaglia che mi divertivano di piú, e senza mai mirare dritto al corpo dell’avversario. Servizio, corsa a rete, volée, seconda volée, palla corta, lob, il tutto accompagnato da pronto apprezzamento dell’avversario – «Bel punto!» – e corretto riguardo per il partner – «Mia!» Mi mostravo modesto dopo un buon colpo, pacatamente compiaciuto a conclusione di una partita vinta, mesto e sconsolato alla batosta di un set perduto. Sapevo recitare ciascuna delle parti e, accolto come socio estivo, potei unirmi ai vari Hugo e Caroline dotati di tessera annuale.
Gli Hugo amavano ripetermi che avevo alzato il quoziente d’intelligenza e abbassato l’età media dei soci; uno in particolare non faceva che chiamarmi il Geniaccio e Herr Professor in sagace allusione al mio unico anno di studi presso la Sussex University. Le Caroline erano discretamente cordiali, ma guardinghe; si sapevano muovere meglio in presenza degli Hugo. In mezzo a questa tribú, sentivo il mio spirito competitivo abbandonarmi. Mi sforzavo di giocare al meglio, ma vincere non mi appassionava. Arrivai al paradosso di barare al contrario. Se una palla batteva qualche centimetro fuori, mi precipitavo a mostrare il pollice alzato all’avversario, al grido di «Bel punto!» Analogamente, un servizio un filo troppo lungo o laterale suscitava in me un mesto cenno di assenso e un rassegnato ritorno in attesa della successiva battuta. – Bravocristo, quel Paul, – mi capitò una volta di sentir dire a un Hugo, rivolgendosi a un altro Hugo. Alla stretta di mano dopo una sconfitta, mi premuravo di lodare sempre un aspetto del gioco avversario: «Quel servizio mi ha dato un fracco di filo da torcere», ammettevo cordialmente. Ero lí solo per un paio di mesi, e non volevo che mi conoscessero.
Circa tre settimane dopo l’iscrizione temporanea, fu organizzato un torneo di doppio misto a sorteggio. Ricordo di aver pensato, in seguito: sorteggio è come dire destino, giusto? Fui accoppiato con Mrs Susan Macleod, che chiaramente non apparteneva alla schiera delle Caroline. Valutai che potesse essere fra i quaranta e i cinquant’anni; portava i capelli legati dietro con un nastro, a scoprire orecchie alle quali sul momento non feci caso. Abitino bianco bordato di verde, bottoncini verdi sul davanti del corpetto. Era praticamente alta come me, vale a dire un metro e settantacinque, calcolando il paio di centimetri che tendo ad aggiungermi.
– Da che parte ti trovi meglio?
– Che parte?
– Diritto o rovescio?
– Chiedo scusa. Non importa.
– Allora parti tu col diritto.
Il nostro primo match – si giocava a eliminazione secca al primo set – fu contro un Hugo fra i piú massicci e una Caroline fra le piú tracagnotte. Scorrazzai parecchio, reputando che fosse mio compito prendere piú palle possibili; all’inizio, quando stavo a rete, accennavo anche a voltarmi per vedere come se la cavava la mia partner e se e come tornava indietro la palla. Ma tornava sempre, con bei rovesci tranquilli, perciò smisi di girarmi, mi rilassai e mi scoprii davvero deciso a vincere. Infatti vincemmo: 6-2.
Seduti a sorseggiare un’orzata al limone, le dissi:
– Beh, grazie di avermi salvato il culo.
Mi riferivo a tutte le volte che mi ero buttato a rete per intercettare una palla che regolarmente mancavo, con il solo risultato di rallentare il gioco di Mrs Macleod.
– Si dice: «Bella partita, socia» –. Aveva occhi grigiazzurri, un sorriso imperturbabile. – E quando servi cerca di metterti piú di lato. Cosí apri gli angoli.
Annuii, accogliendo il suggerimento senza registrare la stoccata all’ego che avrei provato se lo stesso consiglio fosse arrivato da un Hugo.
– Qualcos’altro?
– Nel doppio la zona piú vulnerabile è sempre il corridoio di mezzo.
– Grazie, Mrs Macleod.
– Susan.
– Che sollievo che non sia Caroline, – mi sentii dire.
Ridacchiò, come se sapesse benissimo cosa intendevo. Possibile?
– Suo marito gioca?
– Mio marito? Mr E.G.? – Rise. – No. Lui è piú da golf. A me sembra decisamente poco sportivo colpire una palla ferma. Non sei d’accordo?
La risposta era troppo carica di significati perché mi azzardassi a decodificarla lí per lí, perciò mi limitai a un cenno di assenso accompagnato da un borbottio.
Il secondo match fu piú duro; gli avversari continuavano a fermarsi per confabulare sottovoce fra loro sulla tattica di gioco, manco stessero per sposarsi. A un certo punto, con Mrs Macleod alla battuta, tentai il trucchetto di acquattarmi sotto rete, quasi lungo la linea centrale, per distrarre chi era alla risposta. Funzionò per un paio di punti, poi però, dopo il 30-15, mi alzai troppo presto al toc del servizio e la palla mi centrò dritta alla nuca. Mi accasciai in modo teatrale finendo nella rete. Caroline e Hugo si precipitarono facend...