Questa terra
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Questa terra

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Nel cuore dei monti Alpalachi, nei primi anni Settanta, Jozef Vinich, patriarca di una numerosa famiglia di origini slovacche, è morto di vecchiaia nel proprio letto, all'ombra della fiorente segheria che ha costruito di ritorno dalla Prima guerra mondiale. Sotto il suo tetto hanno vissuto tre generazioni lacerate dalla guerra: il marito di sua figlia Hannah, Bexhet, ha disertato nel secondo conflitto mondiale per poi restare ucciso in un controverso incidente di caccia; il nipote, Sam, è da tempo disperso in Vietnam. Ad attenderlo, oltre alla famiglia, ci sono la fidanzata Ruth, la figlia dell'uomo accusato di aver ucciso Bexhet, e il bambino che porta in grembo. Nell'inverno piú gelido della propria vita, soltanto il primogenito Bo s'incarica di raccogliere l'eredità del nonno e la lezione della terra, lavorando in silenzio, giorno dopo giorno, per la fine delle ostilità. Un grande romanzo sulla tenacia delle radici e sui segni indelebili lasciati dalla loro perdita.

«Un romanzo straordinariamente bello e doloroso, un'opera sull'amore plasmato dalla guerra, sul passato che perseguita il presente e scandisce il futuro. Un'opera travolgente».
Marlon James «Krivák è uno scrittore di rara eleganza, con una profonda conoscenza del mondo naturale. La sua prosa limpida e sferzante riesce a materializzare un paesaggio austero e un dolore che arriva da lontano».
The New York Times

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806236199
eBook ISBN
9788858429815
Parte prima

Gli eredi del lutto

1.

Il fuoco nel grande camino di pietra della casa era costante come l’allungarsi delle giornate quando Pasqua era in anticipo e la primavera in ritardo. La mattina dopo la morte del nonno, però, Bo Konar prese ciocchi e portalegna dal salotto e li portò nel capannone fuori, spazzò la cenere dai mattoni e spolverò gli alari facendoli sembrare magri centauri neri senza volto. Due giorni piú tardi, dopo cena, lui e la madre, Hannah, accolsero i visitatori sulla soglia e li accompagnarono in salotto, dove a turno si inginocchiarono davanti al corpo dell’uomo vegliato in una cassa di pino accanto alla finestra e recitarono una preghiera. Poi qualcuno si trattenne in cucina e nell’ampio ingresso a parlare di Jozef Vinich. Del fatto che fosse andato in America dopo la Prima guerra mondiale con cinquanta dollari in tasca, usando l’oro che gli aveva lasciato il padre per pagarsi il treno da Košice a Amburgo e un passaggio sul Mount Clay. Che da operaio semplice della Endless Roughing Mill ne fosse diventato comproprietario. Che avesse comprato e amministrato duemila acri della terra piú concupita di Dardan. Che avesse costruito la casa dove si trovavano in quel momento quando non aveva ancora trent’anni, e non era da tutti in quell’angolo della Pennsylvania nordorientale.
Nessuno rimase a lungo. Dopo che padre Rovnávaha ebbe pronunciato le preghiere per il defunto, tutti si alzarono e se ne andarono, incluso il prete, e Bo rimase da solo alla luce della lampada su una sedia dallo schienale rigido. La pioggia gelida batteva contro i vetri della finestra. Krasna, la vecchia labrador, fiutava e sospirava sul pavimento. Bo si curvò in avanti con i gomiti sulle ginocchia a fissare il nonno. Aveva la camicia bianca, il vestito blu e una cravatta nera che lui non aveva mai visto. Il viso spento e cereo. La mano destra deforme sul petto sopra la sinistra, che stringeva un rosario con i grani di legno. E si domandò perché lui e la prozia Sue dovessero vegliare il corpo a turno per tutta la notte se l’eventualità che quell’uomo dormisse non era nemmeno contemplata.
Dove sei andato? bisbigliò nella stanza.
Sentí l’acqua scorrere in cucina e il suono stridulo del vetro che si rompeva, e il ricordo si fece strada attraverso la stanchezza, un ricordo della sera in cui il nonno gli aveva detto (lui all’epoca era un bimbetto di dieci anni) di andare di sopra a dormire un po’. Era primavera. La primavera fredda arrivata dopo che suo padre era morto in quello che avevano fatto passare per un incidente di caccia, anche se suo padre non era mai stato un cacciatore. Finito di mangiare, la luce che ancora indugiava fuori a occidente, Bo aveva chiesto perché doveva andare a letto cosí presto.
Perché domani mattina andiamo su al campo con i fucili, disse il nonno.
La madre di Bo stava lavando i piatti e lui con la coda dell’occhio vide un bicchiere scivolarle di mano, lo sentí schiantarsi nel lavandino di porcellana. Jozef sollevò lo sguardo sulla figlia, che scosse la testa come per dire: No, ti prego. Poi lo riportò su Bo.
Ormai è tempo che vieni con me, disse Jozef.
Si alzarono prima dell’alba. Trovarono caffè e pane tostato pronti, ma la madre non era in cucina. Il nonno prese la carabina Marlin 336 e un Remington calibro 22 dall’armadietto dei fucili, e Bo pensò a suo padre. La madre diceva che aveva fatto la guerra in Europa e il figlio si domandava se da qualche parte ci fosse ancora la guerra, se sarebbe arrivata anche a Dardan. Il nonno gli diede il calibro 22. Lui prese il fucile per la canna, controllò la sicura e disse: Andiamo in guerra?
Jozef si fermò a squadrarlo. No, figliolo, disse.
Bo abbassò lo sguardo e Jozef disse: Andiamo nel bosco a cercare un cane che ha un debole per i cervi. Tutto qui.
Fuori oltrepassarono la stia dove tenevano Duna, un incrocio tra un labrador e un collie, che ficcò il muso dentro la mano di Bo coperta dal guanto. Bo avrebbe voluto chiedere se la cagna veniva con loro, ma vedendo che il nonno non rallentava abbassò la testa e lo seguí. Attraversato l’orto e superato il recinto dei cavalli s’infilarono nel bosco, i rami caduti e i blocchi compatti di foglie gelate che rombavano come tuoni sotto i piedi finché non trovarono il vecchio sentiero dei cacciatori di pellicce e proseguirono sulla terra battuta, Bo che intanto si domandava se in vita sua avrebbe mai visto qualcosa di diverso dai disegni marrone stropicciati e scoloriti sulla schiena del nonno che si diramavano come le strade di una cartina sul giaccone di tela.
Emergendo dagli alberi si ritrovarono al limitare di un campo aperto dove l’argento dell’orizzonte si univa all’argento dell’erba piegata dal ghiaccio che si estendeva appiattita davanti a loro. Sull’altro lato del campo c’erano una fattoria e un capannone e Bo avrebbe voluto chiedere chi ci abitava, ma evitò. Il nonno si sedette su un masso e caricò un solo proiettile nella Marlin. Bo prese posto accanto a lui muovendo mani e piedi per riscaldarli. Aspettarono a lungo, finché il sole non diventò luminoso e rotondo a est sopra l’orizzonte, e allora il nonno si mise un dito sulle labbra e indicò una cerva che era sbucata dagli alberi. Si sfilò i guanti, calò su un ginocchio e si portò il fucile alla spalla. Seguendo la linea della canna Bo vide che era puntato non sulla cerva bensí sulla sagoma bassa di un cane come non ne aveva mai visti, slanciato e curvo, che fremeva al capo opposto del campo. Guardò il nonno, gelido come l’erba, poi riportò lo sguardo sul cane proprio mentre spiccava il balzo. Il fucile crepitò e l’animale s’inarcò all’indietro in un unico movimento circolare, e Bo sentí sciogliersi le budella e il calore diffondersi intorno a lui sul masso dov’era seduto. Balzò in piedi, lasciò cadere il calibro 22 e scappò.
Si fermò soltanto quando, arrivato alla fattoria, crollò vicino alla stia del cane. Duna, legata alla catena, si avvicinò e cominciò a leccarlo dietro il collo e Bo sentí qualcuno uscire dal bosco. Come fa a muoversi cosí in fretta, pensò, e sarebbe stata l’ultima volta. Si girò cercando di alzarsi ma rimase supino a fissare il cielo e il sole. Un battito di ciglia e il sole si eclissò dietro un cappello. Si aspettava che il nonno lo prendesse a calci dicendogli che non avrebbe mai piú toccato i suoi fucili, invece Jozef gli tese la mano e disse: Andiamo. Devi darti una pulita. Bo prese quella mano tesa, si alzò e attraversò l’orto insieme al nonno tornando verso casa.
Nel salotto freddo, dopo aver ricordato quel giorno, Bo si sporse in avanti, affondò i palmi negli occhi e si alzò dalla sedia. Krasna drizzò le orecchie e balzò su, e andarono nell’ingresso imboccando il corridoio che portava in cucina, dove Bo sentí il rombo attutito delle fiamme sotto il coperchio di ferro della stufa Pittston e ne avvertí il calore a mano a mano che si avvicinava. Si tolse la giacca del vestito di lana che aveva indossato prima di cena, l’appese all’attaccapanni di fianco alla porta e si sedette a un semplice tavolo chiaro che lui e il nonno avevano ricavato da un faggio caduto nella loro proprietà. Passò la mano sulla superficie, quasi a evocare per quanto poteva i giorni in cui aveva portato il tavolo in cucina e il nonno aveva toccato la superficie allo stesso modo, dicendo: Bene, figliolo, secondo me hai proprio trovato il lavoro che fa per te.
Hannah chiuse il rubinetto, si asciugò le mani sul grembiule che aveva legato intorno alla vita e si avvicinò al tavolo. Aveva l’indice della mano destra avvolto in un fazzolettino di carta fermato con il nastro adesivo, dritto come il paletto di una bandierina minuscola, e anziché dare l’impressione di essere sul punto di sedersi sembrava che si fosse appena alzata, soffermandosi un istante ad ascoltare il ticchettio non sincopato della stufa che andava contro i secondi scanditi dall’orologio sulla parete. Alzò la testa, scostò i capelli dagli occhi con la mano sinistra e si tolse il grembiule.
Hai fame? domandò.
Un po’, disse lui.
Hannah prese un piatto di kiełbasa e strudel di noci dal ripiano della cucina e glielo mise davanti con forchetta e coltello, poi sfilò dal frigo una birra, la stappò con l’apribottiglie e la depose accanto al piatto.
Prego, disse, e si sedette davanti a lui.
Aveva diciannove anni quand’era diventata madre per la prima volta nel febbraio del ’41, tre giorni prima che il marito partisse per l’addestramento reclute. (Lui avrebbe visto il figlio Bohumír piccolo soltanto un’altra volta, nell’aprile di quell’anno, prima di andare oltreoceano). A cinquant’anni Hannah non era cambiata. Gli zigomi alti che davano risalto al viso rotondo. I capelli lunghi e lisci. Gli occhi di un grigio profondo e senza pupille. Di quelli che attirano o respingono gli sguardi.
Bo tagliò a metà un pezzo di kiełbasa e dopo averlo mangiato bevve un sorso di birra. Mandò giú altri due bocconi e poi appoggiò le posate accanto al piatto. Indicò il dito della madre. Fa male?
È solo vetro. Guarirà.
Lui avvicinò a sé lo strudel di noci e dopo quattro morsi la fetta non c’era piú, si spolverò la punta delle dita e pulí la bocca con il tovagliolo.
Zia Sue vuole fare un turno vicino alla bara stanotte?
Non lo so, Bo. È di sopra che dorme.
Lui la vide distogliere lo sguardo dall’orologio per portarlo sul corridoio buio e poi di nuovo sul piatto. Ti è bastato? domandò.
Sí, disse lui.
Nell’atto di alzarsi sua madre allargò bene la mano sul tavolo, il corpo chino come se stesse ancora ascoltando. Prese il piatto, lo poggiò sul ripiano e si girò di nuovo verso il figlio.
Mi accompagni? Non voglio passare davanti al salotto da sola.
Lui la prese sottobraccio, mise a posto la sedia e risalirono il corridoio fino all’ingresso. Ai piedi delle scale lei allungò la mano verso il pilastrino della ringhiera, si fermò e disse: Lasciamo riposare la zia Sue. Stai tu con lui. Finché ci riesci, almeno.
Lui annuí, la madre bisbigliò un grazie e salí le scale reggendosi al corrimano.
Si svegliò anchilosato e dolorante e si raddrizzò stiracchiando le gambe. Era ancora buio, andò in cucina e accese la luce sopra il lavandino. Si sciacquò la faccia e la bocca, si asciugò e caricò la caffettiera elettrica infilando poi la spina nel muro. Sollevò il coperchio della stufa e mise carta, fascine e un ceppo di betulla spaccato in quattro sulla brace, aprí la presa d’aria e aspettò che la legna s’infiammasse. Krasna era stesa sulla cuccia vicino alla porta. Bo staccò il cappello e il giaccone imbottito dall’attaccapanni e la chiamò. Krasna guardò in direzione del salotto battendo la coda in terra.
Te l’ho detto, disse Bo. Lui non viene con noi. Non piú.
Fuori pioggia e nevischio avevano smesso di cadere e Bo vide il cielo che schiariva a chiazze con l’avanzare del mattino. Si tirò su il colletto mentre attraversavano l’orto in fila indiana, lui e la cagna, i rami spogli coperti soltanto di brina, e scosse la testa pensando alla frutta che sarebbe andata persa se ci fosse stata un’altra notte fredda come quella passata.
Dentro il capannone accese l’interruttore della luce e andò verso le stalle. Krasna girò su sé stessa e poi si stravaccò sopra il tappetino di paglia nell’angolo. Avevano sempre avuto le capre. Due, qualche volta tre femmine che allevavano per il latte e per venderne i cuccioli. Bo da piccolo le mungeva due volte al giorno. Poi il compito era passato a suo fratello Sam. E poi le avevano vendute. Adesso restava soltanto la mucca, una piccola Jersey che suo nonno chiamava signorina Wayne. Era da tanto che non faceva piú il latte, ma nessuno voleva sbarazzarsene. Bo le diede una pacca sul dorso e versò il cibo nel trogolo, e lei si chinò piano mettendosi a mangiare. Dando un’occhiata alla stalla vuota, Bo vide le assi inchiodate alla finestra che quell’inverno si era rotta durante una tempesta di ghiaccio e si disse che doveva passare al negozio di ferramenta a comprare un vetro nuovo. Dopodiché lanciò un fischio a Krasna e andò nel pollaio. Lí per lí, vedendo la cagna le galline di razza Plymouth Rock si alzarono schiamazzando, poi si tranquillizzarono mettendosi a beccare gli avanzi che lanciava Bo. L’abbeveratoio l’aveva fatto lui con le sue mani l’estate precedente, quando avevano ridotto le galline a cinque. Era un secchio di plastica da dieci litri forato lungo tutto il bordo e capovolto in una teglia per dolci rotonda. Lo prese, lo riempí di acqua fresca attinta da un rubinetto e lo rimise nella teglia. Trovò quattro uova in tre nidi per la cova, se le mise delicatamente in tasca e tornò fuori.
Hannah era sveglia, stava cuocendo il bacon in una padella quando lui e Krasna rientrarono dalla porta di servizio.
Qualcuna di quelle galline ha fatto le uova? chiese.
Tutte tranne Celeste e Renée.
Hannah aveva gli occhi iniettati di sangue e tirava su col naso. Renée ricomincerà. Non ha ancora finito il suo corso.
Ti ricordi quando c’era una fattoria qui intorno? disse lui mettendo le uova sulla credenza.
Me lo ricordo. Proprio l’altro giorno pensavo che dovremmo riportare le galline a dodici. Mi sa tanto che a maggio vado a trovare Virgil e prendo qualche pulcino nuovo.
Tornò a occuparsi della padella e lui appese il giaccone e si lavò le mani, poi andò alla finestra e osservò il frutteto alla luce del giorno.
Gli alberi erano sempre la prima cosa di cui parlava il nonno la mattina, e imbastiva una previsione per la giornata basandosi sulla curva delle foglie o su un uccello che magari aveva visto annidarsi fra i rami. Oppure raccontava una storia che cominciava quando avevano piantato un particolare alberello, come il ciliegio che aveva comprato da uno dei camionisti incaricati di portare la legna alla segheria e che aveva le radici avvolte nella iuta e stava sul sedile davanti del camion come se fosse un passeggero, regalo di un vecchio eremita pazzo di Wellsboro che in cambio aveva ricevuto un po’ di tabacco da sigaretta. Jozef gli aveva dato due dollari per quel ciliegio che poi aveva piantato (cosí aveva detto a Bo da piccolo vedendolo intagliare le iniziali BK sul tronco con un coltello Morseth) quando la casa era una semplice intelaiatura di travetti da cinque centimetri per dieci, la terra tutt’intorno smossa e disseminata di pietre, tron...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Questa terra
  4. Parte prima. Gli eredi del lutto
  5. Parte seconda. Finché la terra durerà
  6. Parte terza. Nell’attesa
  7. Ringraziamenti
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Copyright