Cloontha, cosà si chiama: una località racchiusa entro la curva di un’insenatura. Poche case sparse, l’antico forte, umida pietra calcarea e chiacchierina e, dal grosso ventre frusciante del lago, stretta fra prati e terra brulla, una strada intride le piccole fortezze di frassino e sambuco, una strada sinuosa che sale alla bocca della montagna. Campi che contano piú dei campi, piú della vita e anche piú della morte. Nei mesi estivi i vitelli succhiano, succhiano, succhiano, un filo di bava azzurra dalle labbra nere, le bianche facce austere come clown. Biancospino e crespino, confini di un rosa sognante. Viottoli e viuzze di palude. I bronzei pascoli dorati un ondeggiare tacito ma indefesso. Ascolta. Fremito d’erba selvatica e chiocciare di uccelli selvatici. Sempre piú veloce.
Giú nel profondo i cocci fragili e rugginosi, vestigia di annose battaglie, e nei bacini di pietra calcarea, silenti nella morte, bambini d’ossa e madri d’ossa e anche padri. I progenitori. Tracagnotti e spilungoni che spacca e spacca piantarono nella straziata terra ansante il primo raccolto di patate, quei tuberi a tocchi che sarebbero stati pane della vita fino all’arrivo del fungo.
Secondo gli annali accadde alla vigilia dell’Immacolata. La micosi delle piante giunse di notte e vagò per i campi, e al mattino i rigidi steli erano neri nastri di marciume. Una morte lenta per l’uomo e per l’animale. Un putrido drappo sul paesaggio, gli affamati in marcia docili e dissennati, convinti che non avesse colpito altrove. Ma si sbagliavano. Morte a ogni angolo. Le facce dei morti giallo pergamena, le labbra nero liquirizia dopo aver trangugiato la dolce sostanza velenosa, i pomi della morte.
Dicono che il nemico arrivò di notte ma il nemico può arrivare a qualsiasi ora, all’alba come al tramonto, perché il nemico è sempre là e quelle persone lo sanno, blindate in una fame tribale che ribolle nel sangue e si cela sulla montagna, vecchia carcassa che aspetta di alzarsi ancora, di tornare ancora a ruggire, di aizzare vicino contro vicino e cane contro cane nella folle e chimerica brama di un lembo di terra. Campi che contano piú dei campi, campi che si traducono in sposalizi che si traducono in sangue; campi persi, riconquistati e persi nell’altalenante, frammentario ordine delle cose; i figli di Oisin, i figli di Conn e di Connor, i figli di Abramo, i figli di Set, i figli di Rut, i figli di Dalila, i figli guerreggianti di guerreggianti figli condannati a quella stessa irresistibile schiavitú della follia che è il marchio dei vivi, quasi dovessero tornare indietro nel tempo e nello spazio, tornare al vuoto annichilente per riconquistare un terreno perduto per sempre.
Araldico e infaticabile arrancava su per la strada di montagna, il rumore, un rumore nuovo che faceva a pugni con l’assorto paesaggio. Un rumore nuovo e un nuovo macchinario, il davanti massiccio e color cotto, i rilievi delle grosse ruote lerciati dal letame, letame bagnato e letame secco, lasciavano una scia verminea.
Era il primo trattore sulla montagna e il suo arrivo sarebbe rimasto nel ricordo e negli annali; la data, l’ora sul far della sera e le circonvoluzioni dei corvi su in alto, che annerivano il cielo sfrangiati, silenziosi, benaugurali. Gli uccelli c’erano sempre; corvi, gazze, tordi, allodole, ma raramente cosÃ, cosà tanti e cosà assiepati. Era inizio autunno, uno di quei giorni autunnali immobili, i tanti campi svuotati dal fieno, la stoppia un oro inzaccherato, falsi frutti e bacche di biancospino sui rovi e una rosa canina selvatica che per la tonalità purpurea prendeva il nome dal sangue di Cristo: Sangria Jesu.
In cima alla collina rallentò, poi sterzò dentro un’aia fermandosi a un soffio dall’acciottolato su un pendio erboso sotto un albero di biancospino. Bugler, alla guida, accomodato dentro l’abitacolo di vetro, fece ciao a Breege, la giovane donna che, colta alla sprovvista, sollevò il barattolo di latta che teneva in mano abbozzando un saluto impacciato. A lei quella macchina che sfumacchiava dal comignolo di metallo sembrava un’immagine da Far West. La loro aia era già in gran subbuglio, Goldie, la cagna, guaiva non sapendo da che parte cominciare ad azzannare, galline e anatre confluivano in quella direzione, sorprese e curiose, e da una rimessa uscà suo fratello Joseph con un coltello in mano che gli dava un’aria losca.
– Mi sono impantanato, – disse Bugler sorridendo. Si sarebbe detto che lo guidava da anni tanto appariva sicuro lassú e quando scese sollevando educatamente il morbido cappello di feltro, il suo potere e la sua possanza parvero precederlo. Non è che poteva lasciarlo un paio di giorni là finché non prendeva la mano con le marce? Indicò il manuale poggiato sul cruscotto, un libercolo sbrindellato con qualche orecchio alle pagine che il precedente proprietario doveva aver consultato spesso.
– Oh, ci mancherebbe… Ci mancherebbe, – disse Joseph, un po’ troppo cordiale. I due erano agli antipodi, Joseph vestito di stracci come uno spaventapasseri e Bugler con la camicia scarlatta, le ghette di cuoio sopra i pantaloni e una cintura con le borchie dall’aria assassina. Era tornato da poco in patria perché aveva ereditato una fattoria dallo zio e girava voce che fosse pieno di soldi e intendesse bonificare buona parte dei suoi terreni paludosi. Siccome aveva lavorato in un grosso allevamento di pecore lo chiamavano «il Pastore». Schivo com’era, non aveva mai messo piede a casa degli altri né invitato nessuno a casa sua. «Il Catorcio», il piú scaltro del vicinato, che ogni sera bussava di porta in porta spigolando e riferendo stralci di pettegolezzi, ci aveva provato a zoppicare lassú, ma non era riuscito a superare il portico diroccato all’ingresso. Si era pregiato di riferire che non era poi tanto meglio di un accampamento e l’aveva soprannominato sarcasticamente «il Congo». Bugler era un caso a sé. Se andava a ballare era sempre a settanta o ottanta chilometri di distanza ma il Catorcio diceva a ragion veduta che le donne gli cascavano ai piedi e adesso eccolo là nella loro aia, il sole che gli accendeva scintille rosse nel nero di barba e basette. Questa la prima impressione che Breege ebbe di lui. Fino ad allora era stato una figura alta e evanescente, una specie di apparizione che nella smania di dominare le sue terre anziché usare un cancello o una scaletta il piú delle volte li scavalcava d’un balzo. Lui e il fratello di Breege avevano avuto da ridire per lo sconfinamento del bestiame. Tra le due famiglie, che pure erano imparentate alla lontana, correvano faide secolari ormai calcificate in una risentita ostilità . A Joseph piú di tutto piaceva raccontare l’affronto di un antenato di Bugler, certo Henry, che aveva tentato di accaparrarsi l’angolo di un campo confinante con il loro, al che lo zio Paddy l’aveva impalato in mezzo alla strada puntandogli pure una pistola alla testa. Col risultato che Paddy, al pari di tutti i detenuti comuni, era stato costretto a emigrare in Australia, dove si era distinto come pugile ottenendo vari titoli prestigiosi. Altre faide riguardavano le donne, mogli giovani venute da province diverse che non andavano d’accordo fra loro e si coprivano di improperi come stagnini ambulanti attaccabrighe. Eppure adesso i due erano affabili, quell’affabilità eccessiva che cerca di dissimulare l’imbarazzo. Joseph, il piú loquace dei due, esprimeva incredulità e meraviglia sentendosi spiegare ogni singola caratteristica del trattore, la leva del cambio, le marce, l’albero di trasmissione della presa di potenza che, disse Bugler, era capace di strapparti i pantaloni se non peggio, perfino un braccio o una gamba; poi qualche fischio esultante quando Bugler sciorinò i suoi tanti utilizzi: per arare, ruotare le colture, biadare, insilare e, naturalmente, andare da qua a là .
– Altro che giogo, – disse Joseph battendo una mano sulla fiancata.
– Un bell’esemplare di maschio, per come la vedo io, – disse Bugler, memore di quanto fossero pericolosi i trattori per gli incapaci che dovevano essere tirati fuori dalle paludi nel cuore della notte e per quel contadino delle Midlands che aveva investito una donna convinto di aver schiacciato un grosso ramo. I parenti della poveretta continuavano a presentarsi ogni santo giorno per spargere rami di sambuco abbandonandosi a lamenti inconsolabili.
Poi passarono a parlare di allevamento, informandosi ciascuno dei due su quanti capi di bestiame avesse l’altro, anche se lo sapevano benissimo, e scambiandosi opinioni sulle grosse fiere nuove, sui baroni con il camice marrone e gli stivali di gomma.
– Certo che i tempi sono proprio cambiati, – disse Joseph caricando troppo i toni e passò a citare un articolo letto di recente dove si illustrava il metodo scientifico per far accoppiare i maiali. Il verro andava tenuto a una bella distanza dalla scrofa per evitare cucciolate ridotte, anche se doveva restare comunque nei paraggi per l’odore, che non era certo come il contatto.
– Il contatto è un’altra cosa… Quello non ha rivali, – disse uno e l’altro confermò.
– Ci volete salire? – chiese Bugler a tutti e due.
– Io passo, – disse Joseph, aggiungendo però che a Breege avrebbe fatto piacere. Lei si scostò da loro, guardò il macchinario e ci montò sopra perché voleva una cosa soltanto: salire, scendere e dileguarsi. Dietro la camicetta leggerissima s’intravedeva un gancetto del reggiseno rotto e Bugler se ne sarebbe sicuramente accorto. Il rossore le pigmentava le guance a ondate. Le sembrava di stare su un trono che privava campi e muretti di significato e si sentà una stupida.
– Tranquilla… Stia tranquilla… Non fuggirà con lei a bordo, – disse Bugler sottovoce chinandosi verso Breege. I loro fiati quasi si fusero. Lei lo trovò cosà diverso, cosà accomodante, molto meno burbero e autoritario. Gli occhi, che avevano il colore scuro della melassa, erano profondi come laghi, occhi marrone, feriti, quasi che da piccolo glieli avessero scalfiti con una spilla da balia. Lui la vide agitata, la vide a disagio e per rimediare raccontò al fratello che il tipo da cui aveva comprato il trattore era uno squinternato.
– Come mai? – disse Joseph.
– Ha detto che se non partiva dovevo trovare un bambino, fargli spingere la frizione e dirgli di tenersi pronto a saltare giú appena si fosse messo in moto.
– Non se ne trovano di bambini, da queste parti, – disse Joseph e nel silenzio sembrarono in attesa che qualcosa rispondesse. Niente rispose. Era come se, rimasti tutti e due in sospeso, guardassero i campi, marrone, kaki e indistinti nel buio sempre piú fitto; campi sui quali erano passati in tanti, soldati, pellegrini, lavoratori giornalieri e anche bambini, campi che pur domati e dissodati sarebbero caparbiamente sopravvissuti a loro.
– Vuole entrare a prendere un tè? – chiese Joseph per alleggerire l’atmosfera.
– No… ho varie cose da sbrigare, – disse Bugler e poi rivolto a Breege, convinto di doverle delle scuse, aggiunse: – Se ha bisogno di provviste dalla città , basta chiedere.
Mio fratello è rimasto fuori con quel coso anche se era buio da un pezzo. Gli parlava, lo toccava e forse lo desiderava, lo desiderava. Ho dovuto dirgli tre volte che era pronto da mangiare, proprio lui che è cosà esigente in fatto di cibo, lui che vuole sentire la cotenna dell’arrosto scricchiolare sotto i denti, che vuole la crema pasticciera riscaldata a bagnomaria perché raggiunga la giusta consistenza.
– La cena si raffredda.
– Grand’uomo, Bugler, – ha detto, allontanandosi controvoglia da quel coso. Sembrava che dovesse congedarsi da una persona anziché da una macchina.
È allora che è cominciata. O forse è cominciata molto prima. Non sappiamo che cosa abbiamo dentro, quali demoni abbiamo dentro, amore e odio, è tutta la st...