Il potere della tecnologia, con deboli contrappesi, è inciso innanzitutto nei numeri della sua industria digitale. Tutto è avvenuto in pochi anni. Nel 2006 le prime cinque aziende del mondo per capitalizzazione erano, nell’ordine, Exxon Mobil, General Electric, Microsoft, Citigroup e Bank of America. Cioè petrolio, manifattura e finanza, con il primo sbarco della tecnologia informatica nel club delle Big Five, attraverso il colosso creato da Bill Gates, per un quarto di secolo e ininterrottamente, l’uomo piú ricco del pianeta. Nel 2017 il club delle Big Five ha cambiato fisionomia e iscritti, con questa classifica sulla base dei valori di Borsa: Apple, Alphabet (Google), Microsoft, Amazon e Facebook. In appena undici anni la tecnologia digitale ha vinto l’ultima rivoluzione industriale globale.
Il trionfo cosí rapido delle Big Five si è consumato mandando in frantumi qualsiasi resistenza in termini di concorrenza, di antitrust, di mercati aperti e competitivi. Di fatto si sono creati dei monopoli naturali, anche questi ratificati dai numeri. Google, per esempio, controlla piú di un terzo di tutta la raccolta pubblicitaria digitale mondiale; Facebook entra nelle case di un quarto della popolazione del pianeta e padroneggia il 77 per cento del traffico sui social network generato dai dispositivi mobili; Amazon ha blindato il 74 per cento del mercato globale dell’e-book e negli Stati Uniti, un Paese di consumatori per eccellenza, un terzo delle vendite al dettaglio passa per la sua piattaforma.
Mai nella storia del capitalismo si era vista una tale concentrazione di potere, non solo economico: al suo confronto, quello racchiuso nelle mani delle «sette sorelle», le compagnie petrolifere che hanno presidiato il regno del petrolio nel secondo Novecento, è davvero parva materia. Tanto piú che le Big Five custodiscono nelle loro casseforti una potenza di fuoco chiamata liquidità, e questo nell’era della tecnofinanza significa la quadratura del cerchio. La sola Apple possiede una cassa che non scende mai sotto la soglia dei 300 miliardi di dollari, in parte parcheggiati in Paesi lontani dall’America e vicini a noi europei, come l’Irlanda, dove le condizioni fiscali sono molto vantaggiose. Con una sorta di elementare gioco di prestigio che assume i connotati di una gigantesca evasione o elusione fiscale, i ricavi di queste società scompaiono dai Paesi dove la tassazione sugli utili d’impresa è significativa e riappaiono dove invece è pari a zero. Nei famosi undici anni della rivoluzione tecnologica, soltanto in Europa le Big Five sono riuscite a evitare versamenti all’erario per 70 miliardi di euro. Nel 2016 Microsoft ha presentato in America un bilancio in perdita, con zero tasse, ma il suo vero utile è finito nei bilanci societari in Irlanda, in Lussemburgo, a Singapore e Porto Rico, dove l’aliquota fiscale oscilla tra l’11 e il 15 per cento. Per un totale di quasi 5 miliardi di imposte risparmiate, in un solo anno.
Andando a vedere piú da vicino i loro bilanci, si scopre che circa la metà degli investimenti delle Big Five riguarda ormai attività finanziarie che, sommate al controllo dei rispettivi mercati, hanno trasformato i colossi della tecnologia in conglomerate. Dove tutto si confonde, dai ricavi per le vendite di uno smartphone alle entrate per la pubblicità, dagli incassi nell’universo dell’e-commerce ai tipici profitti di banche e fondi di investimento. Fino a equiparare, per potenza esercitata nel mondo globale, i fatturati delle Big Five ai bilanci di singoli Stati nazione. Infatti i fatturati di Google, Apple e Microsoft equivalgono complessivamente al Prodotto interno lordo della Francia.
Monopoli naturali sul mercato e risorse piú che abbondanti nella finanza, che nell’economia globale si traducono, semplificando, in innovazione e denaro, rappresentano le due leve del potere assoluto delle Big Five. E poggiano entrambe su un’unica pedana: Internet, il sigillo del «web tech», grazie al quale un potere economico e finanziario cosí concentrato riesce anche a conquistare un’egemonia culturale. Non solo rispetto all’intera società, ma alle singole persone. Tutto scandito dalle lancette di un unico tempo, il presente, quello nel quale agisce la velocità della Rete, entrando nelle nostre vite quotidiane e dando alla tecnologia la sua forma compiuta e globale di regno del presentismo digitale.
La rivoluzione tecnologica, grazie all’acceleratore globale di Internet, è riuscita ad accerchiarci con le sue protesi elettroniche in perenne evoluzione: dal 2014 sulla Terra ci sono piú smartphone che abitanti, e tutta la nostra conoscenza, per secoli sedimentata attraverso il politeismo dei suoi canali, dalle materie umanistiche a quelle scientifiche, dalla filosofia alla fisica, dall’arte alla biologia, dalla psicologia alla religione, si sta concentrando in un unico percorso, in un sapere assoluto, tracciato dai dispositivi digitali del «web tech». Tutti leggono tutto: per ogni domanda c’è una risposta a portata di mano, o di touch, immediata, senza l’intervallo di tempo necessario per approfondire e completare un’analisi, un’indagine, una verifica. E poco importa se la risposta che cercavamo è di fatto priva di un requisito essenziale: l’attendibilità.
Nelle società occidentali è Internet che detta, anche in questo caso da una posizione monopolista, tempi e contenuti della conoscenza. Il tempo è il presente, la gestione del presente, l’attimo di un clic; il contenuto è su misura per un soggettivismo esasperato, per accumulare in modo bulimico nozioni tramite le quali ognuno possa coltivare l’illusione di sentirsi, Io e solo Io, informato e appagato di una propria realtà e di una propria verità. E se tutti hanno ragione, o pensano di aver ragione, allora nulla è vero, e tutto è relativo. Diceva Eraclito, considerato il filosofo del lògos, ovvero della ragione, del pensiero universale razionale: «Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspettavi di trovare». Ma il presentismo digitale non contempla la facoltà del dubbio e dell’inatteso, non vi sono né il tempo né gli strumenti per ricercarlo. E il lògos non riesce quindi a prendere forma, a espandersi.
Il sapere frantumato.
La conoscenza assolutista di Internet si riduce cosí a una continua frammentazione del sapere, priva di un’idea unitaria del mondo e della vita, e fondata su una somma di opinioni emotive che disorientano, invece di indirizzare verso il pensiero razionale. Ancora Eraclito scolpiva cosí la differenza tra la conoscenza frettolosa e l’autentico sapere: «Molti non colgono la vera natura delle cose in cui si imbattono, né le conoscono dopo averle apprese, ma se ne costruiscono un’opinione. Simili a sordi, ascoltano e non intendono. Per loro vale il detto: presenti, sono assenti».
La conoscenza presentista, secondo il filosofo greco vissuto fra il 535 e il 475 a. C., genera «false opinioni e credenze», che Eraclito equiparava all’epilessia, allora considerata una grave «malattia sacra», in quanto opera di dèi e demoni, che colpiva la mente degli uomini. Oggi, nell’era del presentismo digitale, la malattia delle «false opinioni» denunciate da Eraclito, piú che sacra appare come un popolarissimo morbo che ci trascina nel buio delle convulsioni della post-truth: la parola che nel 2016 l’Oxford English Dictionary ha eletto a vocabolo dell’anno per la sua diffusione e la sua importanza. La «post-verità» significa considerare secondaria la verità, non cercarla, «essere presenti ma in realtà assenti», e cosí sfigurare fatti e persino argomenti scientifici.
L’egemonia culturale, con l’addendum di un mutamento antropologico e non semplicemente sociale o economico, passa anche attraverso il megafono quotidiano dell’informazione. Gli italiani, che ormai per tre quarti accedono abitualmente ai contenuti di Internet, scelgono sempre piú Facebook (35 per cento della popolazione, ma 48,8 per cento fra i giovani) per informarsi. Persino i telegiornali sono in caduta libera, nella gerarchia dei media: erano il punto di riferimento, per le notizie, dell’80,9 per cento della popolazione nel 2011; sono crollati al 60,6 per cento nel 2017, appena sei anni dopo. La stampa e la carta precipitano, i motori di ricerca come Google hanno ormai doppiato i quotidiani su carta e la metà degli italiani, a proposito di approfondimento della conoscenza, non tocca un libro, cartaceo o digitale che sia, durante l’intero anno. Tutte le ricerche sul nostro immaginario collettivo e sui modi con i quali si forma l’opinione pubblica, convergono sul fatto che la selezione avvenga non tanto sull’attendibilità delle notizie, quanto sulla base degli interessi, delle scelte e degli umori piú esasperati e rancorosi degli Io-utenti. Il presentismo digitale diventa un gigantesco meccanismo, una sorta di videogioco della conoscenza, mediante il quale siamo trascinati ad ascoltare conferme delle nostre opinioni piuttosto che a confrontarci con la loro diversità. La Rete sembra fatta apposta per condurci lungo un percorso opposto a quello tracciato da Eraclito («La sapienza è conoscere l’intendimento di tutte le cose attraverso tutte le cose»), fino a impantanare ciascuno nella palude dei rispettivi pregiudizi, truccati da certezze, delle fake news (un tempo si chiamavano bufale) e della «post-verità», altre bufale. L’impatto virale di queste pulsioni è devastante. Il sociologo coreano Byung-Chul Han ha intitolato il fenomeno con la formula «sciame digitale», sottolineandone l’aspetto, tipico degli insetti, di un movimento coordinato e simultaneo che evapora senza lasciare tracce. In pratica: nella palude del web si forma, all’improvviso, uno sciame di Io-utenti, molto distanti fisicamente l’uno dall’altro, che si uniscono sulla base di un odio verso qualcuno, di un livore sedimentato contro una categoria, di una gogna mediatica da montare. Con la stessa fulminea velocità, lo sciame formatosi sulla Rete si disunisce, senza che nessuno degli utenti abbia una reale coscienza di sé e tantomeno sia in grado di ricordare il male che ha seminato.
Il fenomeno delle notizie false, distribuite sul web a tutto campo e in ogni ambito della conoscenza e dell’informazione, è arrivato a tali dimensioni che a piú della metà degli utenti di Internet è capitato di dare credito a fake news. Nel popolo globale degli Io-utenti, trasversalmente, anche per fasce di età, cresce un vago senso di preoccupazione, ma nessuno sembra in grado anche solo di immaginare efficaci contromisure per fermare il ciclone scatenato dai venti del presentismo digitale. Un sondaggio della Bbc, condotto tra persone adulte di 18 Paesi di ogni continente, descrive 8 utenti su 10 «in allarme per quello che può essere vero o falso tra i contenuti veicolati dalla Rete» e allo stesso tempo «contrari a qualsiasi forma di regolamentazione di Internet da parte dei governi». Tra i piú giovani, l’82 per cento di 7804 studenti delle scuole secondarie e dei college, consultato per un’analisi della Stanford University sulle notizie false sul web, confessa di non essere in grado di distinguere tra un contenuto sponsorizzato e una notizia, e considera irrilevante la fonte delle diverse informazioni. Alla domanda specifica su quale sia il parametro piú adatto per garantire l’attendibilità di una notizia, la maggioranza dei ragazzi ha dato la seguente risposta: la dimensione della foto che l’accompagna.
Tutti schedati dall’industria dei «Big Data».
Nell’era della tecnofinanza, nella sfera della conoscenza rientrano anche i dati, e in particolare i Big Data, che hanno un enorme valore economico di mercato (150 miliardi di dollari) – ancora una volta il petrolio è stato scalzato! – e rappresentano uno strumento molto potente per consolidare l’egemonia culturale del «web tech». Anche grazie alla loro quantità. La società di ricerche di mercato Idc ha calcolato che nel 2025 i dati creati e copiati ogni anno saranno pari a 180 zettabyte (con 21 zeri): per farli passare tutti insieme attraverso una connessione a banda larga servirebbero almeno 450 anni. I dati servono a orientare il nostro sapere, i consumi, gli stili di vita, i comportamenti quotidiani. E servono anche a dare una linea alle nostre scelte culturali, alle nostre opinioni politiche, al nostro modo di essere e di partecipare come comunità. Per ciascun profilo personale, per ognuno di noi, nelle raffinerie del regno di Internet sono conservate, mediamente, millecinquecento informazioni per ogni utente intercettato e grazie alla continua evoluzione tecnologica, si possono immagazzinare fino a cinquemila dati per ogni singola persona. Una schedatura completa e di massa.
Già qualche anno fa, Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, raccontava, con il compiacimento del condottiero in marcia verso il trionfo della rivoluzione digitale, come fosse finita in polvere la fragile, quanto essenziale, trincea difensiva dell’individuo, la privacy. Diceva Schmidt:
Immaginate di camminare per strada. Con le informazioni che abbiamo raccolto, Google sa bene chi siete, che cosa vi interessa, quali sono i vostri amici, i vostri gusti e le vostre opinioni, e ciò di cui avete bisogno. E se in quel momento vi manca il latte, visto che Google sa esattamente dove vi trovate, possiamo anche dirvi dove lo dovete comprare.
La tecnica della schedatura è sempre piú incisiva: attualmente soltanto Google usa 57 indicatori per raccogliere i dati personali, e ogni volta che navighiamo attraverso i motori di ricerca, quando pubblichiamo un commento e un like su Facebook, selezioniamo l’uso di un’app, o procediamo a un acquisto su Amazon, cediamo, innanzitutto alle Big Five, un altro frammento della nostra privacy, dunque della nostra persona. Ciò assegna ai signori del web, i contemporanei signori del vapore del primo capitalismo, il potere assoluto di indirizzare meglio una campagna di marketing rivolta ai consumatori, ma anche la propaganda politica rivolta agli elettori, dove il diritto alla segretezza del voto finisce per dissolversi come la privacy. Quanto conti un’attività di hackeraggio, autentica pirateria informatica, nel risultato di un’elezione, compresa quella di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, o in un referendum decisivo per i cittadini europei, come il voto sulla Brexit, è materia ancora da decifrare e provare sul piano giudiziario. Lo diranno le inchieste aperte su piú fronti, e poi il giudizio finale passerà al tribunale degli storici. Già sappiamo, però, per ammissione della stessa Facebook, che nel corso delle elezioni presidenziali americane terminate con la vittoria di Trump, 146 milioni di utenti del primo social network per numero di iscritti hanno visualizzato notizie false diffuse dalla Russia. YouTube ha ospitato 1108 video commissionati dal Cremlino e Twitter 36 746 account. Come sappiamo che lo slogan determinante, negli orientamenti dell’opinione pubblica, per la vittoria della Brexit al referendum in Gran Bretagna, è stato condensato nel numero di 350 miliardi di sterline, la cifra che gli inglesi avrebbero versato all’Unione europea, ogni settimana, fino al divorzio: una cifra e una notizia completamente false. False, ma utili allo scopo. Come la schedatura di massa, alimentata dal motore propulsivo della tecnologia presentista, che ha mutato in modo radicale il nostro status di cittadini, mettendo a serio rischio tutte le conquiste, in termini di diritti, di una società aperta.
Quanto al valore economico, i dati, che si acquistano e si vendono sul mercato come una qualsiasi commodity, sono solo destinati a salire di prezzo, e non è certo per un istinto filantropico che in un solo anno (2016) Google, Amazon e Microsoft hanno investito 32 mi-liardi di dollari per creare e migliorare le infrastrutture, le raffinerie del «web tech», dove appunto i dati in loro possesso vengono elaborati, immagazzinati e distribuiti. La Caesars Entertainment era una società americana per il gioco d’azzardo online, e quando è fallita si è scoperto che il suo bene di maggior pregio non erano le macchine o gli immobili, ma il suo database di 45 milioni di clienti, realizzato in 17 anni di attività. È stato valutato, al momento della liquidazione della società, un miliardo di dollari.
Le illusioni perdute del web.
Il dominio del presentismo digitale, capace di espandersi dai territori dell’economia e della finanza fino alla conoscenza, alla cultura, all’informazione e alle relazioni tra gli uomini, finora non è stato scalfito neanche dalla delusione per le promesse non mantenute da parte del regno di Internet e dei suoi custodi-padroni. Parlando alle nuove generazioni, per esempio negli abituali incontri nelle università occidentali, i signori del web, in coerenza con il loro potere, hanno sempre rivendicato un ruolo di profeti del nuovo mondo, il migliore dei mondi possibili: il narcisismo di massa di Internet colpisce anche le sue élite. E se Tim Cook (Apple) parlava della «missione di servire l’umanità», Mark Zuckerberg (Facebook) si è spinto fino a enunciare il traguardo di una sfida vittoriosa «per creare un mondo in cui tutti abbiano uno scopo». La globalizzazione orientata dalla bussola universale del «web tech» ci aveva garantito piú condivisione, piú partecipazione, piú comunità. Ma è andata veramente cosí? Non sempre, e sicuramente non come vogliono farci credere i cantori del pensiero unico digitale.
A un innegabile moltiplicarsi di opportunità di relazioni si è abbinato il loro frequente svuotamento in termini di consistenza dei rapporti umani e di lessico per coltivarli. Siamo diventati tutti piú connessi, attraverso la dimensione virtuale del web, ma tutti piú separati, da società di popoli a società di moltitudini, nella vita reale. Dal punto di vista delle singole persone, nell’arco di appena un decennio, quello della rivoluzione tecnologica, in una fluviale sovversione tra il virtuale e il reale, mentre accumuliamo likes e condivisioni su Internet, abbiamo smarrito il 30 per cento delle nostre relazioni reali. Cancellate. Al moltiplicarsi quotidiano di amici e di gruppi online, scandito dal ritmo tambureggiante del presentismo digitale, ha corrisposto un aumento strisciante della nostra solitudine di uomini e donne in carne e ossa. Siamo tutti piú connessi, ma piú soli. Abbiamo perso una vitale fisicit...