Anche quando faccio qualcosa di piacevole, sembra che la morte e la distruzione siano sempre in agguato dietro l’angolo. Magari non li riconosco subito, quei due demoni, ma so che sono lÃ.
Potrebbero arrivare a bordo di un furgone, e sulle prime potrei scambiarli per persone qualsiasi. Gente che si fa i fatti suoi.
E invece sono portatori di una malattia ripugnante, i cui sintomi sono molteplici. Odio e pregiudizio, ignoranza e orgoglio di non sapere. Sono quelli che seguono l’istinto, che è un po’ come pretendere di leggere il futuro nelle ossa di pollo o nelle interiora delle rane.
Non avverto la loro presenza finché non sono già qui, e persino in quel momento non sempre riesco a capire con certezza cosa si è appena intrufolato nella mia vita. Qualcuno potrebbe pensare, considerata la mia esperienza, che saprò esattamente se sta per cadermi addosso una trave: invece ancora mi faccio sorprendere, e la loro malattia può scatenare una reazione a catena. Il problema non è solo il loro modo di vedere le cose, ma il modo in cui influenza gli altri: questo tipo di persone diffonde i propri germi senza nemmeno accorgersene.
Ero in giardino con Brett, mi godevo il nostro sabato, un bel pomeriggio di aprile, cucinando hamburger, salsicce e würstel sulla griglia. L’odore del cibo nell’aria era talmente denso che se ti leccavi le labbra potevi sentirne il sapore.
Stavamo festeggiando. Tre ore prima, io e Brett ci eravamo sposati davanti al giudice di pace di Laborde. Niente Bibbia, niente prete, solo la legge. Erano anni che parlavamo di fare il grande passo, e finalmente ci eravamo decisi. Non avrei potuto essere piú felice.
Alla cerimonia, che si era tenuta nell’ufficio del giudice, aveva assistito un bel po’ di gente, amici stretti e alcuni passanti che avevamo tirato dentro, e tutti sarebbero venuti tra poco al nostro picnic nuziale. Avevamo sistemato in giardino un lungo tavolo pieghevole, con piatti e bicchieri di carta, e un secchio pieno di ghiaccio. C’erano anche delle sedie pieghevoli impilate e pronte per l’uso.
Stavo staccando uno degli hamburger dalla griglia, per girarlo.
– Volevo andare a Parigi per la luna di miele, – disse Brett, – ma poi ho pensato a una bella grigliata in giardino e ho bocciato l’idea.
– Già . La cucina francese può baciarmi il culo, baby. Meglio hamburger e hot dog.
– Questa volta non farli bruciare, però, – disse Brett.
– Nossignore. Ho tutto sotto controllo. E la sai una cosa? Se va tutto come deve andare, dopo mangiato possiamo giocare a lanciare i ferri di cavallo, e stasera puoi pure divertirti un po’ col mio culo.
– Oh, che rubacuori.
– Proprio cosÃ, baby. Stai con me e scoreggerai nella seta.
Un pick-up bianco si accostò al marciapiede di fronte casa nostra e parcheggiò accanto alla quercia che era cresciuta sul bordo della strada. Non apparteneva a nessuno dei nostri ospiti. E a nessuno che conoscessi.
Le ruote erano cosà alte che, quando si aprà lo sportello, il guidatore, un uomo magro, di circa trent’anni, biondo e muscoloso, dovette fare un salto per toccare terra. Dal sedile accanto scese una donna, che girò attorno al muso del pick-up. Per scendere aveva abbassato una specie di scaletta. Ne intravidi un pezzo da sotto il veicolo. Probabilmente sanguinava il naso a tutti e due, per via dell’altitudine.
Entrarono in cortile. Cominciai ad agitarmi, soprattutto quando notai la maglietta del tizio. Era bianca con una scritta blu che diceva: BIANCO È GIUSTO. Una frase che non mi apparteneva affatto, anche se avevo la pelle bianca come il latte, quando non era abbronzata o bruciata dal sole.
Il giovane indossava dei jeans neri e un paio di stivali stringati, e aveva cosà tanti tatuaggi sulle braccia e sul collo che, da dove mi trovavo, sembrava che avesse addosso una maglia con le maniche lunghe. Quando si avvicinò riuscii a intravedere altri tatuaggi sotto il cotone sottile della maglietta. Immaginai che ne avesse altri ancora in posti che non ci tenevo a vedere, e che a casa tenesse una scatola di tatuaggi adesivi, e uno di quei cappucci bianchi a punta per le seratine col Klan. Lo so che potrà sembrare un pregiudizio da parte mia, ma, ehi, quella maglietta era inequivocabile.
La donna doveva avere poco meno di sessant’anni, e teneva i capelli castani sistemati in quello che chiamo puro stile Pentecostale, cioè raccolti in una crocchia cosà grossa e alta che avrebbe potuto nasconderci dentro un frullatore. Indossava un vestito di jeans che le arrivava fin quasi alle caviglie, e rozzi stivali neri che sembravano scarpe ortopediche. Non aveva alcuna traccia di trucco, neanche il rossetto o l’eye-liner. A sentire certe forme di religione, Dio si preoccupa parecchio delle pettinature e del trucco, ma non sembra capace di far finire le guerre o di sconfiggere le malattie. Forse Dio era un po’ confuso, sulle priorità .
I due somigliavano cosà tanto a degli stereotipi viventi che non mi sarei sorpreso di scoprire che avevano serpenti velenosi nelle tasche, o che sapevano parlare lingue incomprensibili.
L’uomo rallentò per permettere alla donna di passare avanti. Venne dritta verso di me, allungò una mano e io gliela strinsi. Non la tese a Brett, e l’uomo non la tese a nessuno di noi due. Restò là impalato, con le mani nelle tasche. Ogni tanto gli tremava una palpebra, come se avesse preso una scossa. Giurerei di aver visto uno dei tatuaggi sul suo collo strisciare sotto la maglietta, ma suppongo sia stato solo un effetto ottico causato da un riflesso della luce.
Ora che potevo guardarlo da vicino notai che alcuni dei tatuaggi erano lavori fatti da un professionista, e altri somigliavano a quelli che la gente si fa da sola, o magari in prigione, oppure ingaggiando un bambino di tre anni con un coltello e una boccetta di inchiostro.
– Lei è il proprietario dell’agenzia di investigazioni, giusto? – disse la donna.
– Lei, – risposi, indicando Brett. – Lavoro per lei.
– Oh, pensavo che fosse sua e che fosse stato lei ad assumere la signora e quel… tizio di colore. Che cosa fa esattamente, in agenzia?
– Mangia biscotti e beve caffè, piú che altro, – dissi.
– Lavora, esattamente come quest’uomo, che tra le altre cose è anche mio marito.
Mi piacque il modo in cui Brett lo aveva comunicato. Mi sentivo come un grosso cane. Ero cosà felice che mi venne voglia di scodinzolare.
– Lei lavora per sua moglie? – chiese l’uomo. Sembrava che il suo cervello fosse scattato improvvisamente sull’attenti.
– Per forza, sennò non mi fa mangiare.
– A volte, quando diventa insolente o isterico, lo faccio stare in piedi in cortile con un sasso pesante sulla testa, – disse Brett.
La donna fece un sorrisetto, ma il giovane mi guardava come se fosse preoccupato non solo del fatto che non portassi i pantaloni in casa, ma che potessi accidentalmente arrostirmi il pisello sul barbecue al posto di una salsiccia.
– Vi abbiamo trovati sull’elenco telefonico. Siamo andati all’indirizzo dell’ufficio un paio di volte, – disse la donna. – Abbiamo chiesto in giro di voi, cercando di prendere una decisione.
– Che decisione?
– Abbiamo un problema, e il fatto è che tutti gli altri ci hanno detto di no.
– Tutti gli altri chi? – chiesi.
– L’altro investigatore privato in città .
– Ce n’è un altro?
– E pure quelli di Tyler e Longview. A Marvel Creek, dove abbiamo il problema, non ce ne sono, quindi là non abbiamo potuto chiedere aiuto. La polizia locale non può fare niente. È fuori dalla loro giurisdizione.
– Il fatto è che abbiamo saputo di quel neg… di quell’uomo di colore che lavora per voi, – disse il giovane. – E questa cosa ci ha scoraggiati un po’. All’inizio credevamo che facesse solo le pulizie in ufficio.
Pensai: Benedetto il tuo piccolo cuore ignorante.
– Ecco una cosa che potrebbe scoraggiarvi ancora di piú, – dissi, indicando un punto con la mano.
La macchina di Marvin Hanson si accostò al marciapiede, e lui e l’agente Carroll, come continuavamo a chiamare Curt, scesero.
Hanson aveva sotto il braccio una confezione da dodici di bibite dietetiche, e l’agente Carroll una di birre. Le bibite erano soprattutto per me, le birre per gli altri.
Dal sedile posteriore venne fuori la nipote di John, l’ex fidanzato di Leonard. Si chiamava Felicity, era poco piú che un’adolescente, e aveva i capelli raccolti in due codini ai lati della testa, legati da nastri blu elettrico.
Per ultima uscà Reba, la ragazzina che Leonard chiamava vampiro nano di quattrocento anni. Il fatto è che, nonostante avesse dodici anni, Reba sapeva essere un’autentica stronza. Parlava come uno scaricatore di porto e aveva un cervello affilato come un coltello da macellaio. Dovevo assicurarmi che non si buttasse sulle birre mentre nessuno la guardava.
Tutti loro, a eccezione dell’agente Carroll, erano piú neri della notte, e il giovane e la donna li fissavano come due soldati intenti a contare l’artiglieria che il nemico aveva piazzato su una collina. L’agente Carroll era il fidanzato di Leonard. Immaginai che anche le relazioni tra persone dello stesso sesso rientrassero nella loro lista nera.
– Perché questa gente di colore è qui? – chiese il giovane. Dal modo in cui lo disse si capiva che non si sarebbe mischiato e neanche avvicinato a chi la pensava diversamente da lui.
– Dopo cena giriamo un film di Tarzan, – disse Brett. – Abbiamo bisogno di parecchia gente di colore per farlo. Scene di cannibalismo, sai com’è.
– SÃ, io faccio Tarzan, – dissi.
– No, tu fai la scimmia di Tarzan, – disse Brett.
Feci una specie di verso. Mi parve che somigliasse a quello di una scimmia, una scimmia fottutamente sexy.
– Comunque, – dissi, indicando Marvin e l’agente Carroll, – questo gentiluomo è il capo della polizia, e questo bianco lavora per lui.
Non ci fu nessuna stretta di mano. Si limitarono tutti a guardarsi per un breve istante, come se avessero infilato le dita nella merda.
Marvin disse: – Le metto nel secchio col ghiaccio, – e lui e l’agente Carroll si allontanarono.
Sentii la zanzariera che sbatteva e mi girai: Chance era uscita sul portico con due grosse buste di patatine, una per mano. Probabilmente i nuovi arrivati avrebbero trovato da ridire anche su di lei. Fisicamente non assomigliava solo a me, ma aveva i colori della madre, la sua pelle scura, i suoi bei tratti indiani e ispanici, i capelli neri raccolti in una coda cosà lunga che la potevi usare come un lazo. Era uno spettacolo.
Proprio dietro di lei comparve Leonard, munito di una scatola di biscotti alla vaniglia, la faccia nera aperta...