La prima volta.
La prima volta che ho visto un uomo picchiare una donna, quell’uomo ero io.
Lei mi aveva appena confessato di avermi tradito, solo per una sera, solo con un bacio, solo per un gin tonic di troppo, solo perché erano settimane che ero chiuso nel mio mutismo malinconico esistenziale da venticinquenne stronzo e lei non riusciva a intravedere spiragli.
Li intravide nelle parole di un altro, poi nella sua bocca.
Ricordo la fluidità spaventosa del puro gesto, la vibrazione elettrica che, senza intoppi, dopo la sua confessione percorse in un millesimo di secondo il tragitto cuore-testa-braccio-mano fino a scaricarsi in un sonoro schiaffo sulla faccia di lei, che io vidi in diretta, riflesso come un fotogramma, nella porta a vetri dell’Excalibur.
Lei mi fissò senza abbassare lo sguardo, i suoi occhi dicevano: ecco, vediti per la miseria di uomo che sei, i miei dicevano: ecco, guarda cosa mi hai fatto fare. Non mi aveva fatto fare niente, perché la violenza, come il tradimento, sono alla fine sempre scelte, anche quando le nascondiamo dietro l’alibi della colpa altrui.
Non è mai piú successo, con nessun’altra, ma da quella sera so che questa cosa mi abita mio malgrado e vive dentro di me come un parassita. C’è un vecchio detto che dice che dentro ciascuno di noi vivono due lupi, e sta a noi decidere, ogni giorno, a quale dei due vogliamo dare da mangiare.
Quella sera presi la mia decisione.
La seconda volta che ho visto un uomo picchiare una donna è stato sette anni piú tardi, in un parcheggio fuori da un ristorante, era il giorno del mio compleanno. Ero uscito con un paio di amici per festeggiare, e dopo cena una ragazza a malapena ventenne con il trucco sfatto dalle lacrime piangeva disperatamente, urlando di non essere una troia e spergiurando a un tizio col doppio dei suoi anni che lui era l’unico uomo della sua vita. Il tizio l’ha raggiunta e le ha tirato una sberla che si è sentita fin dove eravamo noi, lei è caduta sulla schiena e una scarpa rossa col tacco è volata alta, concludendo la sua parabola poco lontano.
– Tu sei mia! – le ha urlato il tizio.
Io sono rimasto paralizzato, come stessi vedendo una mia immagine riflessa per la seconda volta, Fabio invece è partito un istante dopo e aveva un’espressione in faccia che diceva adesso lo ammazzo, ma la ragazza si è rialzata come se una mano invisibile l’avesse tirata su, ha guardato il tizio, poi gli ha tirato il calcio nei coglioni piú rapido che io abbia mai visto.
Il tizio si è accasciato a terra, lei ha cominciato ad allontanarsi zoppicando su un tacco solo, lui da terra le ha urlato: – Ti amo, Anna! – Lei si è girata e gli ha detto: – Mi fai schifo, vecchio di merda, torna da tua moglie! – e ricordo di avere pensato che quella frase doveva avergli fatto di sicuro piú male del calcio, perché gli aveva reso chiaro che, anche fosse, lui non aveva alcun titolo per parlare di tradimenti.
La ragazza si è avvicinata a Fabio, del sangue le usciva dalla bocca, lo ha guardato e gli ha detto: – Me lo date un passaggio a casa, per favore?
Eravamo venuti con tre macchine, Fabio per primo ha estratto dalla tasca del giubbotto le chiavi della sua, le ha risposto: – Però guidi tu, perché io ho un po’ bevuto, – e le ha passato le chiavi come le stesse consegnando a qualcuno che conosceva da una vita.
Anna mi ha confessato in seguito che è stata forse quella frase, quel primo giorno, quel primo minuto, le prime parole pronunciate da Fabio, quel darle fiducia e al contempo volerla proteggere perfino da sé stesso, a farla innamorare di lui.
Fabio mi ha confessato il giorno dopo che non riusciva a smettere di pensare alla bocca sanguinante di Anna, mentre me lo diceva le mani gli tremavano.
Anna e Fabio oggi hanno due figlie.
Alice, la primogenita, ha vinto i regionali di judo il mese scorso.
Tanto ormai.
Oggi ne ho accompagnate due fuori, di mattina presto, c’era ancora buio, faceva sei sotto zero. Le ho portate alla fermata del pulmino per la scuola mentre Ginevra mi spiegava che la mia Opel era tutta ghiacciata, che non dovevo lasciarla fuori da sola senza una coperta. Avrei voluto dirle: «La mia macchina ha ventun anni, tanto ormai», invece ho sorriso in silenzio davanti alla sua ramanzina. Il pulmino giallo è passato, sono risalito in casa, ho bevuto il caffè, Paola nel frattempo ha vestito e pettinato Melania e quand’era pronta sono uscito per accompagnarla alla scuola materna in auto. Oggi a scuola c’era una maestra nuova, o quantomeno una che io non avevo mai visto. Melania era diffidente, non voleva lasciarmi andare via, continuava ad aggrapparsi alle mie gambe, voleva essere presa in braccio. L’ho tirata su e l’ho coccolata per un po’, ma non è servito, teneva gli occhi chiusi contro il mio collo stringendo sempre piú forte. A un certo punto la maestra nuova le ha allungato le braccia, si è avvicinata piano, da dietro le mie spalle, Melania l’ha vista con un occhio solo, la maestra le ha detto: – Vuoi venire qui? – e lo ha detto in una maniera cosí bella che Melania è passata dal mio abbraccio al suo in una sorta di naturale continuità, come scendendo da uno scivolo invisibile. Le ho dato un bacino sulla fronte, le ho chiesto cosa volesse per cena ma non mi ha risposto, affondava nell’abbraccio della maestra, quasi fosse sempre stata lí, per un momento ho provato una sottile gelosia e il desiderio di riaverla indietro. Ho salutato, sono sceso ad appendere gli asciugamani puliti e a consegnare il materasso lavato del lettino, sono uscito nell’aria fredda delle nove, in fondo al viottolo una mamma bionda mi ha aperto il cancello della scuola. Aveva in braccio un bambino piú piccolo della mia, stava seduto sul suo avambraccio come fosse una poltrona. L’ho lasciata passare per prima, lei mi ha sorriso appena, i nostri «ciao» si sono condensati in due nuvolette di fumo.
Mentre tornavo alla macchina ho pensato che in fondo la cosa che piú ci manca quando diventiamo adulti è quella sensazione di accoglienza priva di scopo, sostituita dalla consapevolezza di essere gettati in un mondo in cui non c’è piú nessuno a prenderci. Forse per questo siamo talmente affamati d’amore, le persone si cascano addosso, va a finire che molte relazioni falliscono. Perché come bambini fondiamo l’amore sul bisogno, invece che fondare il bisogno sull’amore. Perché sogniamo di esser presi, anziché accettare il rischio di cadere. Perché il prezzo che paghiamo per volerci sentire al sicuro è quello di considerare l’amore un approdo, e quasi mai una partenza.
Perché, col passare degli anni, lasciamo l’amore a ghiacciarsi fuori, che tanto ormai.
Su Facebook non leggono mica Carver.
– E sai perché vivi male?
– No.
– Perché sei un coglione.
– Ah.
– Essí. Sprechi un sacco di energie per niente, ti perdi le cose.
– Addirittura.
– E certo. Prendi per esempio la settimana scorsa, in quel tuo buco di appartamento di merda, quando hai fatto le cotolette. E batti la carne, e prepara l’intruglio, e gratta ’sto cazzo di pane, e impana la prima volta, poi la seconda. E io lí sul divano in bellezza che fumavo. Fissavo la tua birra sul tavolo che diventava calda e senza schiuma e pensavo: «Ma che coglione».
– Ma scusa, perché? Erano buone le cotolette o no?
– Lo vedi che non capisci? E comprati una cotoletta Aia, cazzo. O dello Zio Carlo al discount. Ne compri quattro per sei euro e facciamo serata tranquilli e ti siedi sul divano pure tu. Tanto, dopo la seconda doppio malto, te la senti la differenza tra una cotoletta e l’altra?
– Be’, oddio, a livello di sapore…
– Oppure quella volta là, quella di Lia. Tu non hai ancora capito che per rimorchiare devi sparare nel-mu-cchio. I tempi di «quella che mi piace gné gné» sono finiti, essú.
– Ma, scusa, se a me piace una…
– Ma che una! Nel mucchio, ho detto! A quel punto diventa solo una questione statistica, trombi matematico.
– Sí, ma io non è che devo trombare per forza, eh.
– Che per forza! Non c’è per forza. Quando trombi, trombi. La serata acquisisce il senso definitivo. Il senso. Trombi, n’est-ce-pas? E poi prendi quando disegni.
– Quando disegno?
– Lo sai cosa diceva Wally Wood agli ingegneri?
– No.
– Diceva di non disegnare ciò che puoi ricopiare, non ricopiare ciò che puoi ricalcare, non ricalcare ciò che puoi ritagliare e incollare. E se lo diceva lui! Invece te lí a farti tutte le pippe sul segno, che ti deve rappresentare nel profondo, sulla personalità che dovrà emergere dalla composizione architettonica. Magari prima ti fai pure le matite dettagliatissime, vero? E quegli schizzetti stucchevoli ad acquerello, ci scommetto.
– Be’…
– L’architettura è un’industria, cazzo! Ricordalo. Cosa perdi tempo a inventarti una roba da capo se l’hanno già disegnata seimila volte. È come le scenografie di cartone a teatro. Se già esistono, usale! Devi pensare con la testa giusta, capisci? Oppure quando scrivi il tuo diario su Facebook.
– Ah, sbaglio pure quello?
– E certo. Ci scommetto, guarda, mi sembra di vederti mentre te ne stai lí e ti maceri, ti struggi. Mi pare di vederti, cazzo. Che ti tormenti con la sincerità.
– …
– Ma vaffanculo! Tu devi fare cosí: apri un libro di, che so, Carver, dato che ti piace tanto. Gli rubi l’incipit a un racconto, no? Poi la parte centrale la prendi piú o meno da David Leavitt, magari cambi un po’ le parole, solo quel che basta. Ci metti una spruzzata di Murakami che ci sta sempre bene, con le sue frasette laterali e taglienti che colpiscono a fondo, poi ci fai la chiusa romantica che quelle ti vengono gratis, et voilà. Tanto su Facebook chi cazzo vuoi che se ne accorga? Su Facebook non leggono mica Carver.
– Scusa, eh. Però. Facendo cosí, come dici tu, al di là di tutto, dove finirebbe il divertimento?
– Divertimento?
– Eh.
– Ma allora lo vedi...