Due chicchi di grano.
La preghiera Shema’ è composta di tre sezioni: le prime due derivano dal Deuteronomio (6,4-9 e 11,13-21), la terza da Numeri (15,37-41). In particolare, l’inizio recita:
Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. [Benedetto il nome glorioso del Suo Regno in eterno e per sempre]. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi e le scriverai sugli stipiti della tua casa e delle porte della città1.
Le parole di cui si serve Levi nei suoi versi sono quelle evidenziate in corsivo, cosí adattate:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa, andando per via,
Coricandovi, alzandovi (Squ, I, 139, vv. 16-19).
Non ci si è soffermati abbastanza sulla portata di una scelta cosí impegnativa, un atto davvero coraggioso. Una preghiera in epigrafe non è cosa che ci si aspetterebbe da uno scrittore-scienziato, quella preghiera piú di altre. Un sermone sui generis, volto a esortare il lettore a non dimenticare, ma anche un componimento, nella sua prima versione intitolato Salmo, finalizzato a scopi che certo liturgici non erano, eppure modellato sul testo fondamentale del giudaismo, quello che vale a caratterizzarlo2. Una professione, anzi la professione di fede, collocata in posizione di assoluta preminenza. Una affermazione identitaria talmente conclamata da non avere eguali nella letteratura italiana del secondo dopoguerra. Nessuno scrittore ebreo italiano, prima e dopo la Shoah, si è spinto cosí “in su”. Non Giorgio Bassani, non Natalia Ginzburg, due autori che nelle consuetudini critiche sono associati a Levi.
Viene fatto di pensare, per analogia e intensità emotiva, soltanto a un episodio della vita di un altro grande intellettuale del XX secolo, Walter Benjamin. Nel profilo a lui dedicato da Gershom Scholem si evoca un incontro a Parigi nell’agosto 1927:
Mi trascinò al Musée de Cluny, per mostrarmi tutto estasiato, in una raccolta di rituali ebraici quivi esposta, due chicchi di grano su cui un’anima gemella era riuscita a trascrivere l’intero Shemà Israel3.
Anche Levi amava cercare il gigantesco nel minuscolo: un grande artigiano potrebbe incidere su due chicchi di grano le dieci righe che gli sono state sufficienti per introdurre i Gattegno o la piccola Emilia, ma il paragone con Scholem e Benjamin dovrà fermarsi qui. La storia degli ebrei di lingua tedesca è infatti molto diversa dalla storia degli ebrei d’Italia.
L’uso di preghiere in pubbliche circostanze era frequente nell’Ottocento. Se ne conserva traccia in molti discorsi pronunciati in occasione di un matrimonio, dell’inaugurazione di una sinagoga, di una celebrazione ufficiale. L’uso pubblico dello Shema’ è figlio della speranza di integrazione, che caratterizza la vita degli ebrei nel momento in cui diventano cittadini liberi, nell’auspicio che il patrimonio della propria cultura diventi arricchimento per tutti.
Tra gli esempi che si possono menzionare scegliamo quello piú evocativo. Un secolo prima di Levi, uno degli intellettuali piú rappresentativi dell’ebraismo italiano del XIX secolo, Elia Benamozegh, aveva celebrato a Livorno l’emancipazione del 1848 attingendo alla medesima preghiera e parafrasando i versetti che immediatamente precedono quelli recitati da Levi:
Sí, o Israeliti, in questo Tempio ove i dolori vostri sovente all’Eterno consolatore fidaste, ove molti di voi una madre, un fratello, lagrimaron perduti; ove oggi nell’Italia una madre, negli Italiani tutti, fratelli vostri di amore riconoscete, al cospetto di quegli adorati volumi che veneriamo [la Torah], giurate, o Israeliti, giurate che voi sempre amerete l’Italia, che l’amerete con tutto il vostro cuore, con tutta l’anima vostra, con tutte le vostre facoltà4.
Che Levi conoscesse questo discorso è da escludere, ma l’orizzonte di valori, l’ideologia che sottende sia le parole di Benamozegh sia quelle dello Shema’ sono gli stessi. In un certo senso, la decisione di servirsi di una preghiera per introdurre Se questo è un uomo si potrebbe definire un’epitome, il compendio di un’epoca tramontata5.
Benjamin e, soprattutto, Scholem avevano fatto i conti con questa tradizione del passato subito dopo la Prima guerra mondiale. In Italia, i tempi del cambiamento sono diversi e il ritardo non riguarda soltanto Levi e gli ebrei italiani, ma l’intera cultura dell’antifascismo torinese, se si pensa al crocianesimo di Franco Antonicelli e della maggior parte degli eredi di «Giustizia e Libertà». Passati pochi anni, il divario verrà colmato. Inizierà ad affermarsi una diversa prospettiva identitaria: non piú l’universalismo romantico di Shemà, ma il differenzialismo della «eguaglianza nella diversità».
Dal punto di vista della sua identificazione nell’ebraismo, l’esordio di Levi si colloca su un piano elevatissimo, ma di breve durata. Possediamo un documento che ci consente di datare con precisione l’inizio di quello che sarà a tutti gli effetti un processo di revisione. Si tratta della proposta avanzata, sul finire del 1959, da Levi a Heinz Riedt, traduttore tedesco di Se questo è un uomo, di sostituire l’epigrafe con un’altra poesia, Il canto del corvo6. Una decisione inattesa, come altre ne ritroveremo nell’intricato rapporto di Levi con l’ebraismo. Questa è la piú radicale e sorprendente. Che lo scrittore, chiedendo al traduttore la sostituzione, si proponesse di rendere piú duro il colpo da assestare ai lettori tedeschi, pare interpretazione ingenua. Dell’epigrafe originale tutto si può dire, ma non che fosse una carezza per i figli dei nazisti.
Piú probabile che Levi volesse rendere piú «fievole» il richiamo identitario per assecondare il contesto di una cultura che si veniva affermando in Italia a partire dagli anni Cinquanta: una cultura poco disposta ad accettare l’esistenza di uno scrittore ebreo, troppo ebreo. È dunque il contesto storico a determinare la virata. Non si riuscirebbe altrimenti a spiegare un simile «affievolimento» della voce ebraica, proprio quando il sogno di essere tradotto nella lingua dei carnefici sta per diventare realtà. Rimane un dato certo: a partire da questa circostanza, Levi decide di mettere in sordina le parole della preghiera.
Un frutto tardivo e una imitazione dantesca.
Possiamo avanzare una prima ipotesi, cauta e provvisoria; all’esordio, la funzione dell’ebraismo in Levi è non solo nitida, ma anche vistosa: consiste nella sua universalità però, e insieme nella sua inattualità. Non diremo che i versetti dello Shema’ siano un residuo del passato quanto gli oggetti della sezione ebraica del Museo medievale di Cluny che commuovevano Benjamin, ma siamo di fronte a un’opzione universalistica realizzata fuori tempo massimo: il frutto perfetto, ma tardivo di ideali ottocenteschi e come tale percepito dallo stesso Levi negli anni successivi.
L’ipotesi troverebbe conferma nel ruolo assunto dalla voce di Dante, con il passare del tempo sottoposta ad analogo processo di revisione fino al punto di essere messa a tacere.
Sempre in Shemà, ma nella seconda parte, per quanto venga ripreso il Salmo 137, sulle conseguenze che possono colpire chi «dimentica» Gerusalemme, l’imitazione – parodica – si orienta verso la Commedia. Dantesco è il lessico, la scelta dei verbi «disfare», «torcere», «impedire» (Inf. I, 35 e 96; Purg. XIV, 48; Inf. III, 57), ma dantesco è, prima di tutto, il metodo, il principio che rende legittimo l’uso della preghiera in un luogo dove è vietato servirsene. Mancando della speranza di recuperare la benevolenza di Dio, i dannati sono esclusi dalla preghiera, spiega Francesca da Rimini: «Se fosse amico il re de l’universo, | noi pregheremmo lui de la tua pace, | poi c’hai pietà del nostro mal perverso» (Inf. V, 91-93). Piú drastico, ma ispirato alla stessa regola, che vieta la preghiera nel Lager e nei gironi infernali, sarà il rifiuto della preghiera di Kuhn7.
Benché la preghiera sia proibita, la prima cantica è densa di riferimenti al rito, alle processioni delle anime: un controcanto che ne rovescia forme e contenuti in una prospettiva degradante o polemica. Svariati passi «paraliturgici» sono stati individuati e discussi8. Ci si è chiesti, per esempio, quali memorie abbiano influenzato la costruzione dei versi di Pluto («Pape Satàn, pape Satàn aleppe!» Inf. VII, 1) e di Nembrot («Raphèl maí amècche zabí almi» Inf. XXXI, 67); quale significato sia da attribuire alle processioni «infernali» degli indovini (Inf. XX, 7-9) e degli ipocriti (Inf. XXIII, 58-60)9.
Non diversamente accade in Se questo è un uomo, a partire dall’epigrafe. Se parafrasata, la parola della preghiera può essere pronunciata in Auschwitz, se recitata dal credente, viene respinta come blasfema.
L’accorgimento narrativo che Levi impara da Dante è piú importante dei numerosi prestiti lessicali. Riguarda un sottile procedimento imitativo, una voce nascosta che si esprime attraverso cripto-citazioni. Il «Miserere di me», nell’incontro con Virgilio, nel primo canto, imitazione di Salmo 51, va per esempio avvicinato, nell’ultimo capitolo di Se questo è un uomo, alla «imitazione» di Genesi (2,2), quando Levi e Charles dicono di aver fatto «qualcosa di utile» là dove aveva trionfato il Male (Squ, I, 267).
Durante il cammino che ha condotto gli ebrei italiani fuori dalla selva oscura dei ghetti, adoperare da profani, «fuori del tempio», una preghiera come lo Shema’ era prassi corrente, lo abbiamo visto con il discorso di Benamozegh del 1848. Durante quel sofferto tragitto, Dante aveva offerto un supporto morale, necessario a superare le avversità, a trovare un equilibrio fra tradizione e modernità. Accadeva cosí che si leggessero le terzine della Commedia «come se» fossero un salmo ovvero, per adoperare le parole di Se questo è un uomo (I, 187), «stori[a] di una nuova Bibbia». Non mancano precedenti illustri, testimonianza di una simbiosi fra il Dante umanista e l’ethos ebraico dell’emancipazione10. Nel momento in cui si accinge a scrivere Se questo è un uomo, Levi è saldamente legato al valore educativo della virtú e della conoscenza, argine contro il medioevo oscurantista delle interdizioni: quelle antiche e quelle nuovissime11.
La cisterna.
Dopo la preghiera Shema’, il capitolo «Il canto di Ulisse» è il secondo luogo di Se questo è un uomo su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione, se vogliamo misurare la tonalità della voce del sacro in Levi.
A essere recitate ad alta voce, questa volta non sono le parole di Dio, ma quelle pronunciate da Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno. Il capitolo si...