Un bambino, pensai la mattina dopo, al volante della Jeep lungo la solitaria statale 93 in direzione di Las Vegas. Un bambino, pensai, ricordando tutta la discussione.
Eravamo seduti sul bordo della vasca. – Non siamo ancora sposati, – avevo detto.
– Lo saremo tra due mesi.
Avevamo deciso di celebrare il matrimonio ai primi di ottobre, al ranch dei nostri migliori amici, i Milkowsky. Provai con un cliché che avevo sentito in un talk show. – Pensavo che ci saremmo presi un po’ di tempo per noi, come coppia, prima di portare nella relazione una terza persona.
– Viviamo insieme da quasi due anni, – aveva risposto lei. Poi, in tono incazzato: – Come ti viene in mente di riferirti a nostro figlio come una «terza persona?»
In televisione suonava bene.
– Ma quale cazzo di figlio, se non è nemmeno ancora nato? – borbottai. Errore.
– Cazzo di figlio? Hai detto cazzo di figlio?
– Sai cosa intendevo.
Karen disse, con uno sguardo accusatorio: – Che non vuoi un bambino.
– Certo che lo voglio.
– Non è vero.
– SÃ, invece, – risposi. – Solo, non adesso.
– E quando?
– Cristo, ma cosa vuoi, una data precisa?
– Esatto. Una data.
Ci pensai un paio di secondi, poi: – Tra due anni.
– Due anni? – strillò Karen. – Neal, ultimamente mi metto a piangere guardando gli spot del McDonald’s!
– Forse è una questione ormonale, – dissi.
L’errore finale. Lei si alzò e rientrò in casa cosà in fretta che ero già solo quando aggiunsi: – O forse no.
CosÃ, la mattina dopo, quando avevo detto: – Karen, tesoro, sto partendo, – la risposta era stata: – Bene.
– Torno tra un paio di giorni.
– Grande.
– Aah, vuoi che ti porti qualcosa?
– Sperma.
Sperma, pensai, raggiungendo la periferia nord di Las Vegas. Ecco cosa sono diventato. Sperma uguale figli; figli uguale pannolini, eruzioni cutanee, coliche; la famosa terza persona, che mi spaventava a morte, perché un bambino piccolo si aspetta delle cose da te. Cose paterne.
Il problema è che non ho esperienza in questo campo. Nessun modello da seguire, visto che mio padre era il classico donatore di sperma anonimo che aveva messo incinta mia madre, la quale faceva la prostituta. Niente modello da seguire, a parte Joe Graham, l’investigatore nano con un braccio solo che mi aveva cresciuto, insegnandomi un mestiere e trovandomi un posto presso gli Amici di Famiglia.
Un padre?
Non lo so.
Ci stavo ancora pensando su (e mi era già venuto un bel mal di testa), quando consegnai la Jeep ai parcheggiatori del Mirage e mi diressi al banco della sicurezza nel seminterrato.
– Buongiorno, – dissi all’uomo muscoloso in giacca blu dietro il bancone. Aprii il portafogli e gli mostrai la patente di guida. – Mi chiamo Neal Carey. Sono qui per accompagnare a casa il signor Silverstein.
– Natty Silver, – ridacchiò la guardia.
– Lo conosci?
– Tu no?
– No, mi dispiace.
– Natty Silver! – insisté lui. – Uno dei grandi del burlesque. E quando l’epoca del burlesque finà si mise a fare il cabarettista. Lavorava in questa città quando c’era solo il Flamingo. Probabilmente l’ha visto all’Ed Sullivan Show.
– Quel Natty Silver? – Ricordavo vagamente i suoi pantaloni larghi a quadri e l’espressione impassibile con cui pronunciava le battute. – Quello di «Ovunque tu vada, è là che ti trovi?»
– Proprio lui.
– Che gli è successo?
– Ah, ha fatto ancora un po’ di cabaret, poi qualche film da spiaggia del cazzo in cui dei ragazzini lo prendevano in giro, poi è sparito dalle scene. Cristo, ora deve avere… ottantasei, ottantasette anni.
– Natty Silver, – ripetei.
– Lo chiamo per avvisarlo che sei arrivato, – disse la guardia.
Natty Silver, pensai. Forse il viaggio sarebbe stato divertente.
SÃ, certo.
Suonai il campanello della stanza 5812.
– Chi è? – chiese una voce dietro la porta.
– Signor Silverstein, sono Neal Carey.
– Ti sto aspettando?
– SÃ.
Avevo proprio una bella emicrania e mi pulsava la testa.
– Di dove sei, Neal Carey?
– New York.
Un lungo silenzio.
– La città o lo stato?
Bum, bum, bum nella testa.
– La città , – risposi.
– East Side o West Side?
– West.
Un’altra lunga pausa, mentre il pulsare alla testa diventava un martellare.
– Signor Silverstein? – chiesi. – Tutto bene?
– Chi è sepolto nella tomba di Grant?
Domanda trabocchetto.
– Grant e signora, – risposi. Ti devi alzare presto al pomeriggio per cogliere in fallo Neal Carey.
– Cosa c’è all’angolo tra la Cinquantottesima e Amsterdam?
– Non c’è nessun angolo tra quelle due strade.
Con chi credeva di avere a che fare, con un bambino? pensai, un po’ irritato. Naturalmente, se fossi stato piú calmo, mi sarei chiesto: «Come mai Nathan Silverstein è cosà cauto? Di cosa ha paura? Ma non ci pensai. È ciò che succede quando sei troppo concentrato su te stesso.
La porta fu socchiusa e vidi un viso piccolo con grandi occhi azzurri che mi scrutava.
Grande, pensai. La mia fidanzata vuole un bambino subito e io mi trovo a fare da babysitter a Yoda.
– Salve, – dissi.
SÃ, sÃ, lo so, ma non ho mai sostenuto di essere un maestro di conversazione.
– Salve a te.
– Posso entrare?
– Perché no?
Nathan Silverstein era piccolo, con radi capelli bianchi spettinati, naso a becco e una pelle sottile e rugosa come una vecchia busta di carta. Indossava un accappatoio bianco con sopra la scritta Mirage e un paio di pantofole di pezza.
– Non ci siamo già visti a Cleveland, una volta? – mi chiese.
– Mai stato a Cleveland.
– Nemmeno io, disse lui. – Evidentemente si trattava di altri due.
SÃ, questo sono io: l’uomo normale che fa da spalla alle battute di tutto l’universo.
– Non avrebbe un’aspirina, per favore? – chiesi.