Due anni fa un avvocato dell’Indiana mi spedà un assegno di settantottomila dollari. Me li aveva lasciati mio zio Walt, che era morto sei mesi prima. Non mi aspettavo dei soldi da lui, né tanto meno ci contavo, cosà pensai di destinarli a uno scopo speciale, per rendere omaggio alla sua memoria.
Si dava il caso che la mia compagna di vecchia data, originaria della California, mi avesse promesso di accompagnarmi in una lunga vacanza. Mi era grata di averla capita quando era dovuta tornare in pianta stabile a Santa Cruz per assistere la madre, che aveva novantaquattro anni e stava perdendo la memoria a breve termine. Mi aveva detto, d’impulso: – Scegli un posto che hai sempre desiderato vedere, e io verrò con te –. E io, per ragioni che non sono in grado di ricostruire, avevo risposto: – L’Antartide? – Il modo in cui aveva sgranato gli occhi avrebbe dovuto mettermi sull’avviso. Ma una promessa è una promessa.
Nella speranza di rendere l’Antartide piú appetibile alla mia temperata californiana, decisi di spendere i soldi di Walt per un viaggio di superlusso: una spedizione Lindblad - National Geographic di tre settimane fra Antartide, Georgia del Sud e Falkland. Dopo avere versato la caparra, io e la californiana cominciammo a scherzare nervosamente sul freddo tremendo e sui tempestosi flutti del Polo Sud a cui lei aveva accettato di esporsi. Continuavo ad assicurarle che appena avesse visto un pinguino sarebbe stata contenta di essere partita. Ma al momento di saldare la quota mi chiese di rimandare il viaggio di un anno. Le condizioni di sua madre erano instabili, e lei era restia a spostarsi cosà irrimediabilmente lontano da casa.
A quel punto anch’io avevo sviluppato una vaga avversione per il viaggio; non mi riusciva di ricordare perché avessi proposto proprio l’Antartide. L’idea di «vederla prima che si sciogliesse» era deprimente e si confutava da sola: perché allora non aspettare che si sciogliesse, eliminandosi dalla lista delle destinazioni? Ero anche scoraggiato dal valore di trofeo attribuito al settimo continente, troppo remoto e costoso per il turista comune. Era vero che vi si potevano vedere uccelli straordinari, non solo pinguini ma anche curiosità come il chione niveo e la pispola della Georgia del Sud, l’uccello canoro che nidifica piú a sud di tutti. Ma il numero di specie antartiche è piuttosto ridotto, e ormai mi ero rassegnato all’impossibilità di vedere tutte le specie di uccelli del mondo. Il motivo migliore che potessi immaginare per quel viaggio era che non rientrava assolutamente nei nostri schemi; io e la californiana avevamo imparato che la nostra vacanza ideale durava tre giorni. Se fossimo stati insieme per tre settimane in mezzo al mare, senza possibilità di fuga, avremmo potuto scoprire nuove risorse dentro di noi. Avremmo fatto una cosa insieme, e poi, per tutto il resto della nostra vita, avremmo ricordato di averla fatta insieme.
Cosà acconsentii a posticipare di un anno e mi trasferii anch’io a Santa Cruz. Poi la madre della californiana fece una brutta caduta, e la californiana divenne ancora piú restia a lasciarla sola. Quando infine mi resi conto che il mio compito non era renderle la vita piú difficile, la esonerai dal viaggio. Per fortuna mio fratello Tom, l’unica altra persona con cui riuscivo a immaginare di condividere una piccola cabina per tre settimane, era appena andato in pensione e si prestò come sostituto. Prenotai due letti singoli al posto del matrimoniale, ordinai stivali di gomma termoisolanti e un’esaustiva guida illustrata della fauna antartica.
Eppure, anche quando la partenza era ormai vicina, non riuscivo a dire che andavo in Antartide. – A quanto pare vado in Antartide, – continuavo a dire. Tom sosteneva di essere entusiasta, in me invece continuava a crescere un senso di irrealtà , l’incapacità di pregustare quello che mi aspettava. Forse perché l’Antartide mi ricordava la morte: la morte ecologica di cui la minaccia il riscaldamento globale, o la mia stessa morte intesa come termine ultimo per vederla. Però cominciai ad apprezzare intensamente il ritmo della quotidianità con la californiana: la sua faccia al mattino, il rumore della porta del garage quando tornava dalla visita serale alla madre. Preparai la valigia come se fossi costretto dai soldi che avevo speso.
A St Louis, nell’agosto del 1976, in una serata cosà fresca che si poteva stare in veranda, stavo cenando con i miei genitori quando mia madre si alzò per rispondere al telefono in cucina e subito dopo chiamò mio padre. – È Irma, – disse. Irma era la sorella di mio padre che viveva con Walt a Dover, in Delaware. Dovevo aver capito subito che era successa una cosa terribile, perché ricordo che stavo in cucina, accanto a mia madre, quando mio padre interruppe quello che Irma gli stava dicendo e urlò nella cornetta, come in collera: – Irma, Dio mio, è morta?
Irma e Walt erano la mia madrina e il mio padrino, ma non li conoscevo bene. Mia madre non sopportava Irma – sosteneva che fosse stata inguaribilmente viziata dai genitori a scapito di mio padre –, e anche se Walt, colonnello dell’aeronautica in pensione diventato consulente all’orientamento in una scuola superiore, era considerato di gran lunga il piú simpatico dei due, io lo conoscevo soprattutto per via di un libro di consigli golfistici pubblicato in proprio di cui ci aveva fatto dono, Eclectic Golf, che io, poiché leggevo tutto, avevo letto. La persona di quella famiglia che avevo visto piú spesso era la figlia unica di Walt e Irma, Gail, una ragazza alta, bella e intraprendente che aveva frequentato il college in Missouri e in quel periodo era passata spesso a trovarci. Si era laureata l’anno prima e faceva l’apprendista da un argentiere nel distretto storico di Williamsburg, in Virginia. Irma aveva chiamato per dirci che Gail, mentre viaggiava da sola, di notte e sotto una pioggia torrenziale, per andare a un concerto rock in Ohio, aveva perso il controllo della macchina su una delle strette e tortuose superstrade del West Virginia. Anche se Irma evidentemente non riusciva a dirlo, Gail era morta.
Io avevo sedici anni e capivo cos’era la morte. Eppure, forse perché i miei non mi portarono al funerale, non piansi né mi rattristai per Gail. Avevo piuttosto la sensazione che la sua morte mi fosse entrata nella testa, come se il reticolo dei ricordi che la riguardavano fosse stato cauterizzato da un ago spaventoso e ora costituisse uno spazio nullo, uno spazio di verità essenziale e negativa. Era uno spazio troppo minaccioso perché vi entrassi consapevolmente, ma lÃ, dietro un cordone mentale, avvertivo l’irreversibilità della morte della mia graziosa cugina.
Un anno e mezzo dopo l’incidente, quando ero al primo anno di college in Pennsylvania, mia madre mi trasmise l’invito di Irma e Walt a passare un fine settimana a Dover, ordinandomi tassativamente di accettare. Nella mia immaginazione la loro casa incarnava lo spazio di verità negativa che avevo in testa. Ci andai in preda a un certo timore, che la casa cominciò subito a giustificare. Aveva l’ordine, l’oppressiva pulizia e la formalità di una residenza ufficiale. Le tende lunghe fino a terra, con la rigidità e la precisione delle loro pieghe, parevano dire che nessun respiro o movimento di Gail le avrebbe mai scomposte. I capelli bianchissimi di mia zia sembravano rigidi come le tende. Il candore del viso era enfatizzato da un rossetto cremisi e da uno spesso tratto di eyeliner.
Scoprii che solo i miei genitori la chiamavano Irma; per tutti gli altri era Fran, diminutivo del suo cognome da nubile. Avevo temuto una scena di pianto, invece Fran riempà i minuti e le ore parlando senza sosta, con voce molto alta e tesa. I suoi discorsi – l’arredamento della casa, la familiarità con il governatore del Delaware, la direzione in cui andava il paese – erano squisitamente noiosi nel loro tenere a bada i sentimenti. Poco dopo cominciò a parlare di Gail nello stesso modo: i tratti essenziali del carattere di Gail, il talento artistico di Gail, il grande idealismo dei progetti di Gail per il futuro. Io parlai pochissimo, cosà come Walt. Le chiacchiere di mia zia erano insopportabili, ma forse avevo già intuito che lo spazio in cui lei abitava era di per sé insopportabile, e che discutere con disinvoltura di nulla, senza mai fermarsi, era un modo per riuscire a sopravvivere in quello spazio, e per consentire di sopravvivere anche a chi lo visitava. In pratica capii che Fran si era adattata alla situazione impazzendo. L’unico momento di tregua, quel fine settimana, fu un giro in macchina con Walt per vedere Dover e la base aeronautica. Walt era un uomo alto e snello, di origine slovena, con il naso aquilino e pochi capelli superstiti dietro le orecchie. Lo chiamavano Pelato.
Tornai a trovarli altre due volte mentre ero al college, e loro vennero alla mia laurea e al mio matrimonio; poi, per molti anni, i nostri contatti si limitarono alle cartoline di compleanno e ai resoconti di mia madre (sempre colorati dalla sua antipatia per Fran) sulle visite di prammatica che lei e mio padre facevano a Fran e Walt, che erano andati a stare a Boynton Beach, in Florida, in un complesso residenziale costruito intorno a un campo da golf. Ma in seguito, dopo la morte di mio padre, mentre mia madre perdeva la sua battaglia contro il cancro, avvenne una cosa bizzarra: Walt si prese una cotta per lei.
Fran, resa ormai del tutto demente dall’Alzheimer, era ricoverata in una casa di riposo. Dato che anche mio padre aveva avuto l’Alzheimer, Walt aveva telefonato a mia madre in cerca di consigli e compassione. Poi, stando a quanto lei raccontava, era andato a trovarla a St Louis, e lÃ, vedendosi per la prima volta da soli, avevano scoperto di avere cosà tanto in comune – erano due ottimisti innamorati della vita, reduci da un lungo matrimonio con un rigido e depresso membro della famiglia Franzen – che tra loro si era creata una complicità sconcertante, un’incipiente intimità romantica. Erano andati a cena nel ristorante preferito di mia madre, e poi Walt, al volante della sua macchina, aveva graffiato il paraurti contro il muro dell’autorimessa; i due, ridacchiando, un po’ alticci, avevano concordato di dividere le spese del carrozziere e di non dirlo a nessuno (alla fine Walt lo avrebbe detto a me). Poco dopo la visita di Walt, mia madre si aggravò, e andò a passare i giorni che le restavano a casa di mio fratello Tom a Seattle. Ma Walt aveva intenzione di andare a trovarla per continuare quel che avevano cominciato. I suoi sentimenti per mia madre erano ancora proiettati nel futuro. Quelli di lei erano piú dolceamari, pieni di tristezza per le occasioni che sapeva di aver perduto.
Fu mia madre ad aprirmi gli occhi sulla bontà di mio zio, e furono lo sgomento e il dolore di Walt quando lei morà all’improvviso, prima che lui potesse rivederla, ad aprire la porta alla nostra amicizia. Voleva che qualcuno sapesse del suo nascente amore per lei, della gioiosa sorpresa che gli aveva provocato e del suo acuto dolore per averla perduta. Anch’io, negli ultimi anni di vita di mia madre, avevo sentito crescere in maniera sorprendente l’ammirazione e l’affetto per lei, e poiché avevo molto tempo a disposizione – ero senza figli, divorziato, sottoccupato e ora anche orfano – divenni l’interlocutore di Walt.
La prima volta che andai a trovarlo, qualche mese dopo la morte di mia madre, facemmo le classiche cose che si fanno nel Sud della Florida: nove buche al golf del suo complesso residenziale, un paio di partite a bridge con due amici novantenni a Delray Beach, e una visita alla casa di riposo dove risiedeva mia zia. La trovammo rannicchiata sul letto in posizione fetale. Walt le diede un po’ di gelato e un budino, imboccandola teneramente. Quando arrivò l’infermiera a cambiarle il cerotto sull’anca, Fran scoppiò in lacrime, il volto contratto in una smorfia da neonato, lamentandosi che le faceva male, tanto male, che era orribile, che non era giusto.
La lasciammo con l’infermiera e tornammo a casa. Buona parte dell’arredamento formale di Fran li aveva seguiti da Dover, ma ora riviste e scatole di cereali sparse qua e là con mano da scapolo ne allentavano la stretta mortale. Walt mi parlò con schietta emozione della perdita di Gail e della questione dei suoi effetti personali. Mi sarebbe piaciuto avere qualche suo disegno? Volevo prendere la reflex Pentax che lui le aveva regalato? I disegni sembravano esercitazioni scolastiche, e non mi serviva una macchina fotografica, ma intuii che Walt stava cercando un modo per liberarsi di oggetti che non se la sentiva di donare in beneficenza. Gli dissi che li avrei presi volentieri.
A Santiago, la sera prima di imbarcarci sul volo charter per la punta meridionale dell’Argentina, io e Tom partecipammo al ricevimento di benvenuto della Lindblad nella sala congressi del Ritz-Carlton. Dato che il prezzo delle cabine sulla nostra nave, la National Geographic Orion, partiva da ventiduemila dollari per arrivare a quasi il doppio, avevo preventivamente inserito gli altri passeggeri nello stereotipo dei plutocrati amanti della natura: pensionati dalla pelle di cuoio con coniuge trofeo e residenza in paradisi fiscali, magari qualche volto noto della TV. Ma avevo sbagliato i conti. Quel genere di clientela, infatti, viaggiava su appositi yacht. Le centinaia di persone radunate nella sala congressi erano meno fascinose di quanto mi aspettassi, e meno ottuagenarie. La maggior parte erano semplici medici o avvocati, e vidi solo un uomo con i pantaloni tirati su fin sopra la pancia.
La mia terza paura riguardo alla spedizione, dopo quella del mal di mare e quella di disturbare mio fratello russando, era che non ci si impegnasse a sufficienza per trovare gli uccelli endemici dell’Antartide. Dopo il saluto di un dipendente della Lindblad – un australiano a cui la compagnia aerea aveva perso il bagaglio – e un primo giro di domande, alzai la mano, dissi che ero un birdwatcher e chiesi se ce ne fossero altri. Speravo di trovare un nutrito gruppo di sostenitori, e invece vidi alzarsi solo due mani. L’australiano, che aveva definito «ottime» tutte le domande precedenti, non elogiò la mia. Disse, restando sul vago, che fra il personale di bordo c’erano persone che si intendevano di uccelli.
Presto scoprii che le due mani alzate appartenevano agli unici passeggeri che non avevano pagato la tariffa piena. Erano una coppia di ambientalisti sulla cinquantina, Chris e Ada, provenienti da Mount Shasta, in California. Ada aveva una sorella che lavorava per la Lindblad, e dieci giorni prima della partenza, grazie a una rinuncia, le era stata offerta una cabina a prezzo ridotto. Questo me li faceva sentire ancora piú affini. Anche se potevo permettermi la tariffa piena, se fosse stato per me non avrei scelto una nave da crociera come quella; lo avevo fatto per la californiana, per alleviarle l’impatto con l’Antartide, e mi sentivo anch’io un turista di lusso per caso.
Il giorno dopo, all’aeroporto di Ushuaia, in Argentina, io e Tom ci ritrovammo in fondo alla lenta fila per il controllo passaporti. Prima di partire, su sollecitazione della Lindblad, avevo pagato la «tassa di reciprocità » che l’Argentina imponeva ai turisti americani, ma Tom era stato in Argentina tre anni prima, e il sito web del governo non gli aveva permesso di pagare di nuovo. Cosà aveva stampato una copia dell’autorizzazione negata e l’aveva portata con sé, immaginando che, insieme ai timbri argentini sul passaporto, gli avrebbe consentito di passare il confine. Invece no. Mentre gli altri passeggeri della Lindblad salivano sugli autobus che dovevano portarci alla gita in catamarano dell’ora di pranzo, noi restammo là a supplicare il funzionario dell’immigrazione. Passò mezz’ora. Passarono altri venti minuti. Gli assistenti della Lindblad si strappavano i capelli. Infine, quando sembrò che Tom sarebbe finalmente riuscito a ripagare la tassa, corsi fuori e salii sull’autobus, tuffandomi in un mare di occhiatacce. Il viaggio non era ancora cominciato, e io e Tom eravamo già i passeggeri rompiscatole.
Doug, il capo spedizione, ci convocò tutti nel salone della Orion e ci salutò con entusiasmo. Era un tipo massiccio, con la barba bianca e un passato da scenografo teatrale. – Io adoro questo viaggio! – disse al microfono. – È un viaggio eccezionale, con un tour operator eccezionale, in un posto eccezionale. Sono emozionato almeno quanto voi –. Quel viaggio, si affrettò ad aggiungere, non era una crociera. Era una spedizione, e lui era il genere di guida che, con l’autorizzazione del capitano, non avrebbe esitato a buttare all’aria i piani per inseguire la grande avventura.
Durante il viaggio, proseguÃ, due membri dello staff avrebbero dato lezioni di fotografia, seguendo individualmente i passeggeri che volevano migliorare le loro inquadrature. Altri due si sarebbero tuffati nell’oceano, laddove possibile, per fornirci ulteriori immagini. L’australiano che aveva perso il bagaglio non aveva però perso il drone ultimo modello, dotato di videocamera ad alta definizione, per il quale aveva dovuto richiedere i permessi con nove mesi di anticipo. Anche il drone avrebbe fornito immagini. E poi c’era un cameraman, che avrebbe lavorato a tempo pieno per produrre un DVD acquistabile alla fine della spedizione. Mi sembrava che gli altri passeggeri avessero colto meglio di me lo scopo di quel viaggio in Antartide. Evidentemente lo scopo era portare a casa immagini. Il marchio National Geographic mi aveva indotto a pensare alla scienza laddove avrei dovuto aspettarmi solo foto. Mi sentivo sempre di piú un passeggero rompiscatole.
Nei giorni successivi imparai cosa chiedere quando si conosce qualcuno su una nave Lindblad: – È la tua prima Lindblad? – Oppure, in alternativa: – Hai già fatto una Lindblad? – Trovavo inquietanti quelle domande, come se la parola «Lindblad» evocasse una vaga ma costosa spiritualità . Di solito Doug cominciava il riepilogo serale nel salone chiedendo: – È stata una giornata fantastica o è stata una giornata fantastica? – e poi aspettava l’applauso. Ci tenne a informarci che avevamo avuto la fortuna di attraversare lo stretto di Drake senza complicazioni, e cosà ci era rimasto il tempo di approdare in gommone sull’isola di Barrientos, vicino alla Penisola Antartica. Era un’occasione straordinaria, che non si verificava in tutte le spedizioni Lindblad.
A Barrientos, la stagione della nidificazione del pinguino papua e del pinguino dal collare volgeva al termine. Alcuni piccoli avevano già messo le penne e seguito i genitori in mare, l’elemento preferito dei pinguini e la loro unica fonte di cibo. Ma ne restavano ancora migliaia. Grigi e soffici pulcini rincorrevano ogni plausibile genitore implorando cibo rigurgitato, oppure si raggruppavano per salvarsi dagli stercorari, uccelli simili ai gabbiani che catturano gli orfani e i piú gracili. Molti adulti si erano ritirati sui rilievi per la muta, un processo che li costringe a rimanere immobili per settimane, soffrendo il prurito e la fame, finché il piumaggio nuovo non ha rimpiazzato quello vecchio. Era impossibile non ammirare in termini umani la pazienza dei pinguini durante la muta, la loro capacità di sopportare in silenzio. Anche se la colonia era completamente cosparsa di guano dal tanfo azotato, e la vista dei pulcini orfani e condannati faceva male al cuore, ero già contento di essere partito.
I cerotti alla scopolamina che io e Tom portavamo sul collo avevano dissipato le mie due principali paure. Grazie al cerotto e al mare calmo non soffrivo il mal di mare, mentre Tom, grazie alla scopolamina e al fruscio che usciva a tutto volume dalla radiosveglia, non mi sentiva russare e dormiva profondamente dieci ore per notte. La mia terza paura, tuttavia, si rivelò azzeccata. Neppure una volta un naturalista della Lindblad si unà a me, Chris e Ada per guardare gli uccelli dal ponte di osservazione. Nella biblioteca della Orion non c’era neppure una buona guida alla fauna antartica. C’erano invece decine di libri sugli esploratori del Polo Sud, soprattutto su Ernest Shackleton, che a bordo era venerato quasi quanto l’esperienza Lindblad. Sulla manica sinistra del parka arancione fornito dal tour operator era cucito un distintivo con il suo ritratto, per ricordare il centenario della sua epica traversata dall’isola Elephant a bordo di una scialuppa. La Lindblad ci of...