Non la devi tenere attaccata a un seno soltanto. Devi fare dieci minuti da una parte, dieci minuti dall’altra.
Mia madre mi strappa la bimba dalle braccia, la capovolge come uno strofinaccio e me l’attacca all’altro capezzolo. Hai voglia a dirle che no, io me la voglio tenere finché non ha finito, che il latte buono, quello piú grasso, esce soltanto dopo, all’inizio viene fuori solo acqua zuccherina. Quello utile per la ciccia, lo deve tirare lei a furia di succhiare.
No, quando mai. Dieci minuti da una parte, dieci minuti dall’altra, ripete mia madre.
I miei genitori vengono ad aiutarmi, secondo loro.
Mio padre sistema le tende sfilate dagli anelli, sbrina il freezer, applica certi dischetti di plastica sulle prese di corrente, perché la bambina non ci infili le dita. Se gli faccio notare che a stento quella sa tenere la testa dritta, lui risponde Non si sa mai – che è la sua frase preferita.
Avrei bisogno di un pacco di assorbenti, la crema per le emorroidi, e della verdura fresca per me e Vincenzo. Mangiamo broccoletti e bietole surgelate da due mesi. Ma mia madre e mio padre hanno sempre altro da fare, in casa, cose che servono solo nella loro testa.
Però, certi pomeriggi, nei rari casi in cui si trattengono piú delle due ore canoniche, mia madre mi dice Vatti a fare una doccia.
E io mi tuffo nell’acqua come se per la prima volta ne sentissi la freschezza, quel lampo vivo e pungente, il getto confortante.
L’acqua scorre sulla pancia floscia e l’ombelico sussulta, un bottone sulla gelatina. Il sapone mi dà sollievo, mi pare. Mi pare che potrei anche mettermi a canticchiare, oppure a depilarmi per bene, con la crema, non con la lametta.
Ma è una finzione.
Credere di possedere il tempo è una finzione. Soprattutto quando un neonato te lo strappa via tutto all’improvviso.
Una certa consapevolezza sinistra mi aleggia nelle orecchie e mi sussurra – mentre l’acqua mi bagna la testa – che no, devo fare alla svelta, devo fare veloce, mi devo sbrigare a correre da lei, perché è da lei che devo stare, non dentro a una doccia per sentirmi bene.
Il tempo per me che è solo per me, ha un andazzo che zoppica e prende a fare male se le sto troppo lontana. La consapevolezza che questo nuovo tempo zoppicante sarà quello definitivo per tutto il resto della mia vita, mi sbarra gli occhi sotto il getto d’acqua. E l’unica cosa che riesco a fare, immobile, è fissare un punto fermo davanti a me. Che poi è un piccolo foro nelle mattonelle dove una volta c’era un chiodo che manteneva un quadretto intagliato, un albero solitario scolpito nell’osso. (Era la nostra bomboniera di nozze, che all’inizio mi piaceva assai, per questo l’avevo appesa là nel bagno; poi a un certo punto non m’era piaciuta piú, ché le cose a piacere sempre si sciupano, quindi l’avevo tolta).
Cosà dopo cinque minuti sono già fuori, con l’accappatoio e l’asciugamani a turbante in testa, e ancora della schiuma attorno alle caviglie, una gamba depilata e una no.
E che ci fai già qui?, mi dice mia madre, che sta canticchiando mentre la tiene sulle ginocchia, e la bimba fa certe facce che assomigliano vagamente a un sorriso.
Tutto a posto?, mi precipito quasi, manco mia madre la stesse sgozzando.
SÃ, Emilia, ha fatto solo un rigurgito. Vatti a sistemare, va’.
Io ho finito.
Me la riprendo, lei si infila tra l’accappatoio e il collo, riconosce la mia fretta, riconosce il mio disappunto, e si mette a piangere.
Succede sempre che la notte mi sveglio prima di lei. Io lo so, mentre dormo, che si sta per svegliare, cosà il sonno si arresta: lei è tempestiva, è un astro che sa quando spuntare, tiene un orologio suo interno puntualissimo pieno di lancette, non sgarra un secondo. Ma sono diventata precisa pure io. (Mia madre, una volta, mi ha detto Le donne e gli uomini tengono le lancette nel cervello, solo che le donne sono piú puntuali per via della menopausa, che è il rintocco per eccellenza). E infatti mi sveglio tipo all’una se lei ha succhiato alle ventidue, o alle cinque se ha succhiato alle due di notte. Insomma, la mia vita è fatta di tre ore: quello che viene prima delle tre ore scompare allo scoccare della quarta, perché è cosà che si nutrono gli esseri viventi, dimenticando, e andando avanti.
Mi sveglio e lei comincia a strillare, non mi dà nemmeno il tempo di alzarmi, infilare le mani nella carrozzina, afferrarla, attaccarmela. Grida come un’affamata disperata, perché è un’affamata disperata. Mentre faccio tutte queste cose – alzarmi, afferrarla, recuperare la mammella – il sonno diventa un’altra persona che prende posto nella testa, anzi: prende il posto che teneva lei prima dentro di me, fino ad allargarsi in tutte le altre parti del corpo e invaderle. Il sonno è un altro figlio, indiscreto, opprimente, che mi bracca senza pietà . E mentre l’afferro dalla carrozzina lei si aggrappa al volo. Ha la pelle tiepida come se fosse uscita dalle pantofole.
Vincenzo mi dice Aspetta faccio io, ma non si muove di un millimetro, nel letto, con la voce impiastricciata. Anche lui ha un altro figlio che è il sonno, solo che suo figlio è già piú grande, è già piú autonomo. Cosà io gli dico E che ti alzi a fare, mica ti esce il latte a te.
Ma ti faccio compagnia, fa.
Dopo due minuti scarsi si mette a russare.
Ha mangiato piccante a cena, salsiccia e friarielli, presi in rosticceria. (Io non posso mangiare i friarielli piccanti, e le salsicce ho chiesto quelle senza pepe, altrimenti chissà quale sapore prenderebbe il mio latte).
Mentre Vincenzo russa, mentre lei succhia, mentre la stanza si acquieta in un provvisorio momento di pace, mi assopisco con la testa sulla spalliera, un peso piuma tra le braccia che a stento si muove. Sento solo il costante, ritmico movimento della suzione, uno strano calore che da me passa a lei, che da lei passa a me. Fa caldo. Ma questo è un caldo diverso, ha a che fare solo con gli esseri umani. Non sento le sue labbra, sono troppo fuse, sono troppo immerse: capezzolo e labbra sono la stessa cosa, sento un filo che si tende, una forma allungata e liquida che ci allaccia.
Vincenzo russa. Io sto per russare. Lei mi sfugge un poco, sobbalza, si aggrappa al seno con le gengive ossute. Potrebbe scivolarmi come un oggetto sul pavimento, allora la stringo.
Non ho le forze per cullarla ancora, però ho la mia voce. Cosà le dico, con il tono piú limpido e sincero che posso Angelo, grazie per la tua pazienza.
Mia figlia ha ancora fame e il mio latte non le basta, ma la voce la calma.
Continuo, con molta lentezza
Angelo, grazie per la tua pazienza.
Mi annunciasti un tempo la poesia.
Avvertii solo un fremito d’ali stupite.
Non la fatica, non l’estasi del volo.
Pure – ignara – ti accolsi1.
Ma che stai dicendo?, mi fa Vincenzo, tutto stordito.
Shhh, gli dico. È una delle poesie che va dicendo mia madre.
E allora?
E allora succede che l’ha riaddormentata.
Poi c’è stato il momento in cui ero morta. Vincenzo non se n’era accorto, ma io sÃ, perché sentivo la morte prendermi lentamente, prima dalla punta dei piedi e poi strisciare come un lombrico fino alla testa. Non era una brutta sensazione, era tipo dopo l’orgasmo, che tutto si ricompone in uno stato di benessere in cui non ricordi e non dimentichi nulla. In quel momento potrebbe succedere ogni cosa ma il corpo è beato e allora ci si abbandona verso una luce qualsiasi.
Era venuto il ginecologo che mi aveva ficcato dentro due dita.
Vincenzo era di fronte a me, col camice e la cuffietta verde, mi sembrava un elfo. Io stesa con le ventose sulla pancia, l’ostetrica di fianco, il battito di mia figlia che pulsava sullo schermo – stava tutta eccitata come quando si deve andare al mare. Lei però doveva uscirci, dal mare.
Insomma, l’ostetrica aveva chiamato il ginecologo perché le era sembrato che fossi pronta. Ma non ne era sicura, ché era giovane, aveva appena finito il corso di ostetricia. Era molto rassicurante, comunque, e aveva dei riccioli stretti stretti e neri. Mi sorrideva spesso, e mi accarezzava la guancia. Quando mi piegavo in due lei si abbassava con me e mi guardava negli occhi, solo per farmi vedere che c’era. Veniva dai Quartieri Spagnoli e si chiamava Ilaria.
Ilaria aveva chiamato il ginecologo che invece aveva la faccia da grissino. Pure lui sorrideva, ma solo perché pensava ad altro. E poi gli occhiali li teneva sulla punta del naso, sottili tutti e due, naso e occhiali, ho pensato che erano cosà in punta che gli sarebbero caduti e me li avrebbe lasciati dentro la fica.
Vediamo un po’, ha mugolato il grissino, sorridendo come un fesso. Si è alzato la manica del camice, ha infilato un guanto di lattice blu, e poi ha spalancato, richiuso e spalancato ancora quelle dita da puffo, come se stesse provando una tenaglia.
Vincenzo aveva le braccia conserte, si mordicchiava le labbra, dondolava sulle gambe a destra e a sinistra – manco se ne accorgeva di quanto fosse ridicolo. Ilaria invece era impassibile. Ed era tutto quello che volevo. L’impassibilità . Io fissavo lei. Fissavo quei suoi occhi da vaiassa dei Quartieri, fieri e sicuri, quella sicurezza maleducata che sa quando tacere, e quando parla sa cosa dire. Io mi fidavo di quegli occhi lÃ, pure se si erano appena diplomati, ché mi parevano l’unica cosa certa di quella stanza e di quel momento. Occhi in attesa.
Finché Ilaria ha detto Ora ti farà male.
E io la volevo la verità , ché con la verità uno si prepara, con la menzogna rimani senza scappatoie.
Cosà ho trattenuto il respiro, mia figlia batteva il suo cuore sul display, lo sentivo come sentivo il sudore sul collo, l’ansia, gli occhi di Ilaria.
Il grissino mi ha allargato la vagina, ha infilato piú dentro le dita, ha spinto in su, sfiorandomi il cuore, mi pareva, come se volesse toccare mia figlia, forse l’aveva toccata veramente, ha spinto ancora di piú, sfiorando il fondo della mia esistenza, l’ha braccata e stritolata, e io ero morta.
A gridare già gridavo. Quindi in quel momento ho sentito il corpo stupirsi di quanto dolore fosse in grado di provare. Era uno stupore cosà forte da smettere di fare qualsiasi cosa. Di respirare, soprattutto. Di resistere. Sono stata via solo un attimo – pulito, muto, trasparente –, ma quell’attimo mi ha salvata, ché il dolore non lo sentivo piú proprio perché ero morta.
È a quattro centimetri, ha detto il grissino.
Mi pareva, ha fatto Ilaria, che aveva già capito tutto quanto, non aveva mica bisogno di quel grissino lÃ.
Vincenzo ha sgranato gli occhi e ha detto Che significa?
Io poi non ho sentito piú niente di quello che dicevano; Ilaria mi stava passando una pezza bagnata sulle labbra, che al momento mi pareva la cosa piú bella mi fosse mai capitata in tutta la mia vita.
Poiché dorme, la stacco dal seno. Mentre succhiava devo essermi assopita pure io. Mi ritrovo con la testa che ciondola sulla spalliera del letto, una fitta lungo il braccio con cui la reggo, il polso a formicolare. Lei ha ancora la bocca attorno al capezzolo, gli occhi chiusi, il respiro calmissimo come un lago. So che dorme da come mi respira addosso. Le mie labbra le sfiorano la nuca, mi ficco in bocca un suo ciuffo di capelli: il mio bacio cosà dimesso è la cosa piú utile che possa darle. Adesso potrei piazzarla nella carrozzina, rimettermi il seno nel pigiama, stendermi, dormire. Ma mi pare tutto troppo faticoso. Cosà dico Oh, Vincé, mi aiuti.
Lui mugola qualcosa di incomprensibile, ma capisce al volo, si alza come un sonnambulo e come un sonnambulo prende la bimba, la sistema nella carrozzina, non so nemmeno se la copre e ritorna nel letto, al mio fianco.
Una sua mano mi accarezza la coscia. Tutto bene?, fa.
SÃ.
Un secondo dopo russa.
Io ho gli occhi spalancati e fisso il soffitto. Quel mio secondo figlio, il sonno, si è perso nei vicoli strettissimi di una città di mare. Scorrazza di qua e di là , in mezzo ai vicoli assolati, si mette a saltellare, a cantare, a fischiettare. Io lo chiamo ma lui nulla, non mi ascolta, piú lo chiamo e piú mi ignora, è uno scostumato di quelli peggio...