Ogni tanto Berta Isla si ricordava di Esteban Yanes, sia durante il periodo prevedibile e normale del suo matrimonio, sia durante quello anomalo, quando non sapeva piú cosa pensare, quando non sapeva se suo marito Tom Nevinson fosse stato accolto nel mondo dei morti, se respirasse ancora la stessa aria che respirava lei in qualche luogo lontano e recondito o se ormai da tempo avesse smesso di respirare, espulso dalla terra o accolto da essa, sepolto sotto la superficie a pochi metri da dove noi posiamo i piedi, da dove camminiamo sereni senza mai pensare che cosa può nascondere. O forse gettato in mare o in un estuario, in un grande fiume: quando non si conosce il destino di un corpo appaiono e ricompaiono le congetture piú assurde, e non è difficile fantasticare su un ritorno. Sul ritorno del vivo, s’intende, non del cadavere, né del fantasma. Non sono questi a consolare o a interessare, se non gli spiriti turbati dall’incertezza acuta o dall’incapacità di adeguarsi.
Dopo quel pomeriggio di gennaio Berta non vide piú il banderillero «sciolto». Alla fine lui le aveva spiegato che cosí si chiamavano quelli che non erano fissi, che non facevano parte della cuadrilla, ovvero della squadra di un determinato matador (o solo ogni tanto, e per supplenza), ma lavoravano per loro conto, accettando le offerte che via via si presentavano, quattro corride qui, un paio lí, piú in là una sola, o anche l’estate intera. Per questo di solito non erano richiesti per la stagione in America, quella invernale, e rimanevano inattivi dalla fine di ottobre fino a marzo. Esteban Yanes passava quei mesi allenandosi e perfezionandosi per qualche ora al giorno e facendo vita oziosa il resto del tempo, girando per i bar e i ristoranti frequentati dai colleghi, altre figure del mondo dei tori e impresari che rimanevano da questa parte dell’Atlantico, occupati a farsi vedere per essere ricordati da chi avrebbe potuto dar loro del lavoro piú avanti. Cosí se la cavava bene, era richiesto e guadagnava abbastanza per «ibernare», come si diceva, ovvero per potersi permettere di non guadagnare fino a San Giuseppe, quando la stagione taurina riprendeva.
Berta Isla aveva capito subito, nella breve chiacchierata dopo la perdita poco traumatica e poco spettacolare della sua verginità – sangue scarso, dolore breve e minimo e un insospettato piacere da ricordare –, che per quanto Yanes potesse attrarla fisicamente, e perfino caratterialmente – un uomo sicuro e tranquillo, simpatico e piacevole e per nulla stupido, lettore incallito anche se disordinato ed erratico, con una curiosa parlantina −, i loro mondi erano troppo lontani e non c’era modo di conciliarli, nemmeno di farli coincidere nello spazio e nel tempo. La possibilità di limitare il contatto a sporadici incontri sessuali non le parve accettabile, non solo perché questi limiti sono ingovernabili e ci si può ritrovare soggetti a obblighi taciti e orari e reclami, ma perché in nulla erano cambiati, dopo quel pomeriggio inaugurale di duplice sangue, i suoi sentimenti nei confronti di Tomás Nevinson né la certezza che il suo posto era al suo fianco, quando lui avesse concluso i suoi studi britannici e fosse ripreso il corso naturale delle cose, che era quello madrileno. Tom era per lei quello che nell’intimo di molte persone suole ricevere il nome di «amore della mia vita» – per quanto non lo si dica mai né si pronunci questa definizione −, che si dispensa assai spesso a un prescelto quando la vita non ha fatto che cominciare e non si ha la minima idea di quanti amori potrà albergare né di quanto potrà essere lunga.
Tuttavia Berta non dimenticò quell’occasione, nessuna la dimentica, per fuggevole che sia. Non diede il suo numero di telefono a Esteban Yanes né lui diede a lei il suo. Non gli permise di accompagnarla a casa in taxi, come lui avrebbe desiderato, benché fosse già piuttosto tardi quando, ricuperati tutti i suoi indumenti, si incamminò verso la metropolitana con un cerotto sul ginocchio e senza calze, perché alla fine il giovanotto non era sceso a comprargliene di nuove. Cosí, Yanes non seppe dove abitava e, benché il cognome Isla non fosse eccessivamente diffuso, ricorreva una cinquantina di volte sulla guida telefonica, non era certo il caso di tentare tante volte la fortuna. Solo lei poteva cercare di ristabilire il contatto presentandosi all’appartamento di Yanes o mandandogli un biglietto, e benché fosse piacevole poter contare su quella possibilità e quella facoltà di iniziativa, si astenne dal farlo. E nel giro di qualche anno diede per scontato che in ogni caso lui non abitasse piú lí, che si fosse trasferito altrove e forse sposato, che potesse perfino aver cambiato città. Di modo che si limitò a serbare quel ricordo come un rifugio, come un luogo sempre piú ermetico e distante – ma vagamente rimpianto e privilegiato – cui tornare con il potere della mente, come chi si consola dicendosi che se c’è stato un tempo di spensieratezza e improvvisazione, di frivolezza e capriccio, di sicuro da qualche parte c’è ancora, anche se è difficile tornarci se non con la memoria che si diluisce e con il pensiero immobile che non avanza né retrocede: torna solo sulla stessa scena che si ripete immutabile dal primo all’ultimo particolare, fino ad acquistare le caratteristiche di un dipinto, sempre identico a se stesso, senza sviluppi né mutamenti, in una fissità disperante. Cosí lei vedeva quell’incontro della sua prima gioventú, come un quadro. La cosa curiosa era che via via che il tempo passava e ogni tratto sfumava nell’assenza, i lineamenti del giovane banderillero, che aveva visto soltanto quella volta, si mescolavano e confondevano nella sua mente con quelli dell’altrettanto giovane poliziotto a cavallo che aveva intravisto per un istante mentre correva, e forse osservato immobile per un minuto – il manganello posato sul polso, altalenante −, e c’erano momenti in cui non era sicura di non essere stata con lui invece che con il banderillero. O meglio: sapeva perfettamente che l’inizio della sua vita sessuale completa aveva avuto luogo con quest’ultimo, ma ogni volta ne distingueva meno i lineamenti, e il suo volto e quello del cavaliere si sovrapponevano o giustapponevano come maschere intercambiabili: gli occhi azzurri e gli occhi distanti quasi color prugna, la dentatura dotata di vita propria e la faccia meridionale contadina, le sopracciglia spesse e il naso lungo e diritto, il casco calato sulla testa e il cappello con la tesa stretta che nascondeva una gran massa di capelli, il tutto formava un insieme contenuto in uno stesso giorno d’avventura.
Quello che invece aveva ben nitido era il ricordo del dito posato sotto la stoffa fine e delle carezze che erano venute dopo, dei baci piú affannosi o impazienti che appassionati, della rapida perdita di tutti gli indumenti dell’uomo e dei suoi meno la gonna, che non costituiva ostacolo; della strana e benvenuta sensazione che il sesso di un individuo – di qualunque individuo, ma quello per di piú fino a un’ora prima lei non lo conosceva – potesse introdursi nel suo e rimanerci a suo agio per un po’ dopo il primo forzare, non c’era quasi stata resistenza da parte del baluardo piú tenue del suo antico prestigio. Già allora non gliene restava molto, oggi non l’ha neppure piú.
Da parte sua, Tomás Nevinson esordí nel modo piú usuale nell’Inghilterra del 1969. Senza pensarci due volte e con noncuranza – come chi risolve una faccenda che non conviene ingigantire rimandandola −, con una compagna di studi nei confronti della quale non si fece problemi. A costei non tardò a seguire una ragazza del luogo, lavoratrice, lei come lui decisa a non dare importanza a quelle effusioni e a non sentirsene toccata nel bene come nel male, erano i tempi della cosiddetta liberazione sessuale, quando prendeva piede l’idea che non ci fosse differenza fra andare a letto con qualcuno e prendere un caffè in sua compagnia, erano attività di rango equivalente e non si vedeva perché l’una dovesse lasciare tracce o inquietudini piú profonde dell’altra. (Benché dell’una non rimanga memoria e dell’altra sí, per sempre, vaga e pallida quanto si vuole; o almeno ve ne è certezza; o forse solo cognizione e consapevolezza). E neppure lui vide contraddizione fra quegli incontri di letto e il suo inamovibile innamoramento per Berta, non suscitando quelli in lui il minimo conflitto. Semplicemente lo indussero a pensare che in uno dei suoi prossimi soggiorni a Madrid sarebbe toccato a loro incontrarsi sotto le lenzuola, cominciava a essere il momento, la Spagna è sempre un po’ indietro nelle mode e nelle novità piú audaci. Non cosí tanto a quei tempi: i giovani piú evoluti erano fieri di esserlo e Tom e Berta di annoverarsi fra quelli. Ebbe un peso sul futuro di Tom la seconda di queste conquiste, perché la ragazza del posto non fu mai molto presente, ma non sparí mai del tutto nel corso dei suoi anni a Oxford, e neppure con la sua morte: lui la vedeva occasionalmente nella libreria antiquaria dove lei lavorava come commessa, e quasi ogni volta che ci entrava finivano per darsi appuntamento per la sera stessa o per quella dopo, motivo per cui preferiva diradare le sue ricerche di vecchi libri, almeno in quel negozio. Raramente Tom si domandò quali fossero i sentimenti di lei, o le aspettative nei suoi confronti, ammesso che ne avesse. Tendeva a pensare di no, cosí come lui non ne aveva nei riguardi di Janet, questo era il nome della ragazza. Sapeva che aveva un fidanzato o qualcosa del genere a Londra e che lo vedeva nei fine settimana. Dava per scontato di rappresentare per lei un passatempo, uno sfogo o una compensazione dell’assenza tanto quanto lo era lei per lui, un intrattenimento bisogna pur trovarlo nei luoghi dove si è costretti a passare la maggior parte dei giorni, sia pure temporaneamente. Prima o poi lui sarebbe tornato a Madrid, questo era sicuro, ma negli anni di corso lui non vide Janet lasciare il lavoro e trasferirsi nella capitale per andare a vivere con quel fidanzato, o sposarsi. Sicché non sembrava temporanea la sua permanenza, in fin dei conti Janet era nata a Oxford, e lí era cresciuta con sensualità e fascino.
Ebbero un peso sul suo futuro i suoi studi e i suoi rapporti con alcuni professori o dons, soprattutto con il titolare della cattedra Re Alfonso XIII di studi ispanici – il capo del dipartimento di spagnolo, si sarebbe detto in un’università americana −, ascritto all’Exeter College dopo essere stato fellow del Queen’s, l’ispanista e lusitanista Peter Edward Lionel Wheeler, uomo acuto e di crescente prestigio, affettuoso e sarcastico insieme, del quale correva voce che fosse stato nei servizi segreti durante l’ultima guerra mondiale, come tanti altri intellettuali reclutati in quei tempi estremi, e che poi avesse mantenuto una collaborazione a distanza – con l’MI5 o con l’MI6 o con entrambi – nei giorni di pace apparente, a differenza di tanti che al termine del conflitto si erano limitati a tornare ai loro posti da civili e a serbare un silenzio obbligato, sotto giuramento, sui loro crimini occasionali, o piuttosto stagionali, legalizzati e giustificati dallo stato di guerra; parentesi nella vita delle nazioni, le guerre, prolungati carnevali mortalmente seri, cruenti e senza scherzi, nei quali si dà carta bianca ai cittadini, che vengono addirittura incoraggiati e addestrati – i piú brillanti, i piú intelligenti, i piú abili e capaci, cosí si rafforza il carattere – al sabotaggio, al tradimento, all’inganno, all’insidia, all’abolizione del sentimento, alla mancanza di scrupoli e all’assassinio.
Si diceva che Peter Wheeler avesse ricevuto un duro addestramento nel 1941, presso la base di Lochailort, sulla costa occidentale della Scozia, e che lí fosse stato vittima di un grave incidente automobilistico che gli aveva parzialmente danneggiato l’ossatura del volto. Questa gli sarebbe stata ricostruita all’ospedale di Basingstoke, nel quale rimase per quattro mesi, ma come risultato delle varie operazioni gli erano rimaste due cicatrici incancellabili (andavano sbiadendo lentamente, morendo nel loro pallore), una sul mento e l’altra sulla fronte, che nulla toglievano al suo deciso aspetto da divo. Si raccontava che, ancora convalescente, gli fosse stato somministrato un solenne pestaggio, in una simulazione di interrogatorio, per mano di ex poliziotti di Shanghai al Castello di Inverailort, all’epoca requisito dall’esercito o dal Soe, Special Operations Executive, allo scopo di rafforzarlo nel caso fosse stato catturato dal nemico. L’anno successivo era stato nominato direttore della sicurezza in Giamaica e poi gli erano state assegnate diverse destinazioni in Africa occidentale, dove si sarebbe servito di voli segreti della Raf per certe ispezioni geografiche che gli sarebbero tornate utili per i suoi libri, L’intervento inglese in Spagna e Portogallo ai tempi di Edoardo III e Riccardo II, del 1955, ed Enrico il Navigatore: una vita, cominciato nel 1960; a Rangoon (Birmania), a Colombo (Ceylon), dove raggiunse il grado di tenente colonnello, e poi in Indonesia, già dopo la resa del Giappone nel 1945. Erano molte le storie che si raccontavano sul suo conto, ma Wheeler non ne parlava mai, legato senza dubbio anche lui dal giuramento di riservatezza che prestano quanti si dedicano allo spionaggio e ad attività sotto copertura, ovvero quelle che non saranno mai rivelate, o verranno negate per sempre. Lui sapeva che giravano leggende e aneddoti fra i suoi colleghi e studenti, e lasciava correre come se non lo riguardassero. E se mai qualcuno si azzardava a fare domande dirette, improvvisava una battuta o lanciava un’occhiata severa, secondo i casi, e subito spostava il discorso sul Poema del mio Cid, La Celestina, i traduttori iberici del quindicesimo secolo o Edoardo il Principe Nero. Tutte queste dicerie facevano di lui una figura di particolare fascino per i pochi studenti al cui orecchio giungevano, e Tom Nevinson, che attirò fin dal principio l’interesse dei professori per le sue eccellenti attitudini – destando perfino la loro ammirazione, nella modesta misura in cui i maestri si concedono di ammirare un allievo –, fu fra quelli che maggiormente beneficiarono dei bisbigli e dei pettegolezzi di solito riservati esclusivamente ai «membri della congregazione», cosí viene clericalmente chiamato a Oxford il corpo docente. Tom era per di piú quel genere di individuo cui le persone tendono a raccontare i fatti loro senza prima indagare a fondo – riusciva simpatico senza fare nulla di speciale per esserlo, e comprensivo, ed era un magnifico ascoltatore e incoraggiava sempre il suo interlocutore, a meno che non volesse saperne, e allora lo interrompeva subito – e ad accordare la propria fiducia senza neppure domandarsi come mai stiano parlando tanto di sé o perché diavolo stiano facendo confidenze non premeditate senza che nessuno le abbia sollecitate né richieste.
Le sue spiccate doti linguistiche furono ben presto notate dai professori nonché, com’è ovvio, dall’ex tenente colonnello Peter Wheeler, che a quei tempi non aveva compiuto i sessant’anni e univa un paio di eccezionali antenne – la sua mente curiosa e sveglia – alla sua già lunghissima esperienza. Al suo ingresso a Oxford, Tomás dominava alla perfezione la maggior parte dei registri, delle intonazioni, delle varietà, cadenze e accenti delle sue due lingue di famiglia, parlava un francese quasi impeccabile e un italiano piú che adeguato. Ben presto, non solo migliorò straordinariamente in queste due ultime lingue, ma dopo essere stato persuaso a iscriversi anche ai corsi di slavistica, al terzo anno, nel 1971 e non ancora ventenne, sapeva esprimersi in russo quasi senza dubbi né errori e riusciva a farsi capire in polacco, ceco e serbocroato. Era evidentemente un superdotato in questo campo, un prodigio, come se avesse conservato la malleabilità dei bambini molto piccoli nell’apprendere qualunque lingua venga parlata loro, nel farla propria e nel lasciarsene permeare, perché per i bambini qualunque lingua è la loro lingua, o potrebbe diventarlo, a seconda di dove li porta il vento e dove finiranno per vivere; la loro stessa capacità di ritenerle e distinguerle, senza confonderle o mescolarle. Le sue capacità imitative si svilupparono e incrementarono grazie all’impegno in quegli studi, e una vacanza di Pasqua durante la quale rinunciò a tornare in Spagna per girare l’Irlanda gli diede la capacità di imitare senza problemi le principali parlate dell’isola (erano vacanze che duravano quasi cinque settimane). Gli accenti della Scozia e del Galles, di Liverpool, Newcastle, York, Manchester e altre zone dell’Inghilterra li conosceva già bene per averli sentiti qua e là, anche alla radio e in televisione, durante le sue estati fin dalla prima infanzia. Tutto quanto arrivava al suo orecchio era facilmente compreso, memorizzato senza fatica, e da lui riprodotto con esattezza e arte.
Tomás Nevinson rimase per un quarto anno, prevedendo di rientrare definitivamente in Spagna a ventun anni o quasi, una volta superati gli esami finali con il massimo dei voti e con il diploma di Bachelor of Arts in tasca. A quei tempi tutto avveniva piú in fretta e prima, diversamente da quanto oggi si crede, e i giovani si sentivano adulti molto presto, e pronti per affrontare compiti adulti, esercitandosi strada facendo e occupando il loro posto nel mondo. Non c’era motivo per aspettare o perdere tempo; cercare di prolungare l’adolescenza o l’infanzia con le sue placide indefinitezze sembrava cosa da pusillanimi e tremebondi, oggi la terra ne è talmente piena che nessuno li riconosce piú come tali. Sono la norma, un’umanità iperprotetta e fannullona, emersa in brevissimo tempo dopo secoli dell’esatto opposto: attività, curiosità, intrepidezza e impazienza.
Wheeler parlava uno spagnolo molto corretto, com’era logico data la sua specialità e la sua autorevolezza, ma scrivendolo si sentiva insicuro, cosí che quando terminava un testo destinato a essere pubblicato in quella lingua chiedeva a Tom, in quanto madrelingua di sua fiducia, di rivederlo indicandogli eventuali imperfezioni o goffaggini, e di emendarlo da formulazioni che, per quanto corrette, suonassero ineleganti o innaturali in castigliano. Tomás lo aiutava con piacere e orgoglio: si recava nella sua casa in riva al Cherwell, dove Wheeler, vedovo da molto tempo, viveva con una governante che si occupava di tutto, e insieme rivedevano i suoi scritti. (Morte misteriosa, quella di sua moglie: ogni tanto la ricordava, Valerie era stato il suo nome, ma delle circostanze e cause di quella morte non raccontava né diceva mai nulla, e nessuno sapeva una parola, stranamente, in quella città cosí proclive a creare e a serbare segreti quanto a svelarli e a farne oggetto di pettegolezzo). Tom leggeva ad alta voce, mentre il suo tutor lo ascoltava compiaciuto, fermandosi ogni volta che qualcosa strideva, soprattutto all’orecchio di Tom. Per lui era un onore andare a far visita a quell’uomo e godere della sua compagnia in forma privata, e un privilegio essere il primo a conoscere i suoi nuovi contributi, sebbene trattassero di questioni erudite che poco gli interessavano.
In una di quelle occasioni, al principio del Trinity o terzo falso trimestre, si concessero una pausa e Wheeler offrí da bere; malgrado la gioventú di Tom non si fece alcun problema a proporgli un gin tonic perché gli facesse compagnia. Poi rimase per un po’ a passarsi l’unghia del pollice sulla cicatrice che gli segnava il mento, gesto che gli era abituale, come accarezzandola. Era una linea che partiva dall’angolo sinistro della bocca e scendeva in verticale – o leggermente in diagonale – fino in fondo al mento, dando l’impressione che con quel lato del viso lui non sorridesse mai (anche se lo faceva) e facendolo apparire lievemente afflitto o cupo. Consapevole di questo, Wheeler tendeva, se possibile, a mostrare il suo profilo destro. Ma questa volta non se ne curò; fissava Tomás di fronte con i suoi occhi azzurri, sempre strizzati come se no...