L'animale che mi porto dentro
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L'animale che mi porto dentro

  1. 272 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'animale che mi porto dentro

Informazioni su questo libro

«Quello che tenevo compresso dentro di me, nell'ora di educazione fisica o durante i film di Maciste, o certe sere quando andavo a dormire e avevo paura, era l'angoscia di dimostrare di essere maschio. Doverlo far vedere a tutti, ogni ora, ogni giorno, ogni settimana. E ogni volta misurare la mia inadeguatezza». «Se c'è qualcosa che mi dispiace molto, se ho un dolore fisico, se ho una scadenza, se devo risolvere un tarlo interiore, se ho dei dubbi, se ingrasso, se mi colpisce un lutto molto doloroso, se faccio un incidente per strada - ignoro; ignoro tutto. Vado avanti, non voglio intoppi. Continuo».
Quella che Francesco Piccolo racconta è la formazione di un maschio contemporaneo, specifico e qualsiasi. Il tentativo fallimentare, comico e drammatico, di sfuggire alla legge del branco - e nello stesso tempo, la resa alla sua forza. La lotta indecidibile e vitale tra l'uomo che si vorrebbe essere e l'animale che ci si porta dentro.
Perché esiste un codice dei maschi; quasi tutte le sue voci sono difficili da ripetere in pubblico, eppure non c'è verso di metterle a tacere. Tanti anni passati a cercare di spegnere quel ronzio collettivo per poi ritrovarsi ad ascoltarlo, nel proprio intimo, nei momenti piú impensati. «Dentro di me continuerò sempre a chiedermi: siete contenti di me? sono come mi volevate?»
In un mondo da sempre governato dai maschi, capirli è la chiave per guardare piú in là. Per questo il racconto si nutre di tutto ciò che incontra - Sandokan e Malizia, i brufoli e il sesso, l'amore e il matrimonio, l'egoismo e la tenerezza - in un andamento vivissimo ma riflessivo, a tratti persino saggistico, che ci interroga e ci risponde, fino a ridisegnare il nostro sguardo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806231521
eBook ISBN
9788858429877
Argomento
Literatura

L’animale che mi porto dentro

Un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio.
SIMONE DE BEAUVOIR, Il secondo sesso.
Ma l’animale che mi porto dentro
non mi fa vivere felice mai
si prende tutto
anche il caffè
mi rende schiavo delle mie passioni.
FRANCO BATTIATO, L’animale.
La prima volta che mi sono fidanzato, non ero presente. Il momento in cui Federica mi ha detto sí, non l’ho vissuto, ne ho un resoconto frettoloso. Ne so pochissimo perché non c’ero.
Invece, quando mi ha lasciato, c’ero anch’io.
Era una mattina di giugno, la seconda media stava finendo. Ci eravamo fidanzati, a me sembrava piuttosto seriamente, pochi mesi prima (o piú probabilmente poche settimane prima) attraverso l’incontro tra il mio amico fidato e Federica, che era insieme alla sua amica fidata. Si erano parlati, lui aveva fatto per procura la dichiarazione a Federica, rivolgendosi a tutt’e due; e tutt’e due avevano risposto sí, anche se la domanda riguardava solo Federica.
Nella sostanza, mi sembra di ricordare, sia io sia Federica ci eravamo accontentati del fatto di essere fidanzati. I nostri rapporti non erano cambiati – anzi, un po’ sí, ma erano peggiorati. Se prima cercavo di starle simpatico, di rubarle la penna per poi ridargliela, di scrivere una cosa pudica sul suo quaderno, adesso mi vergognavo. E anche lei si vergognava. Sui miei quaderni ero piú coraggioso, facevo cuori e scrivevo F&F, ma non glieli facevo vedere. Non so se lei scriveva F&F, perché nemmeno lei me li faceva piú vedere. Eppure, bastava incrociare gli sguardi e distoglierli subito per sentire che eravamo fidanzati. Perché quando incrociavamo gli sguardi, iniziavamo un sorriso, tutti e due, e poi subito toglievamo sia gli occhi sia il sorriso, perché ci imbarazzava. Ma questo sanciva che eravamo fidanzati, e ci bastava. A me non solo bastava: ero euforico. Dicevo a me stesso e agli altri che ero fidanzato con Federica, di notte ci ripensavo e mi sembrava di essere il ragazzo piú fortunato del mondo. La mia vita non era cambiata in nulla, ma il mio umore sí.
Qualche volta, però, spinto da questo amico e dal fatto che qualcosa dovevo pur combinare in questo fidanzamento, facendomi molto molto coraggio, trovandolo un impegno davvero oneroso (pensavo va bene lo faccio, cosí dopo l’ho fatto), le telefonavo. Lei rispondeva, parlavamo un po’. In ogni caso le telefonate erano brevi e mai dirette. Però sembrava che qualcosa succedesse. Sembrava che in qualche modo, senza dircelo (in verità, senza essercelo mai detti se non per procura), si poteva intuire che eravamo fidanzati. In fondo, le telefonavo perché eravamo fidanzati – non l’avevo mai fatto prima, non l’ho piú fatto dopo. Il giorno successivo, quando ci vedevamo, eravamo ancora piú distanti, perché ci sembrava di esserci avvicinati troppo.
Poi, durante gli ultimi giorni di scuola, Federica cominciò a cambiare. La sua distanza era piú marcata. In apparenza le cose potevano sembrare uguali, non succedeva niente come non era mai successo niente; però io, che ero innamorato di lei, mi accorgevo che c’era qualcosa che non andava. In classe mi sorrideva meno, sembrava distratta. Ero abbastanza disperato, anche perché la seconda media stava per finire e il fatto di vederci tutti i giorni non sarebbe stato piú scontato. Mi chiedevo come sarebbe andato avanti questo fidanzamento, e mi rendevo conto che tra pochissimo mi sarebbe rimasto solo il quaderno su cui scrivere F&F. I miei amici mi dicevano che qualche volta l’avevano vista in macchina con la sorella, insieme a due ragazzi. E poiché avevano la macchina, almeno uno dei due aveva diciotto anni. A me sembrava impossibile, ma non avevo il coraggio di chiederglielo. Le telefonai un paio di volte pensando: adesso glielo chiedo. Ma rispondeva sempre la mamma e diceva: Federica non c’è, è uscita con la sorella.
Cosí, la scuola finí e Federica sparí. Mi tormentavo molto, cominciai a chiamarla piú spesso, non c’era mai. La vidi una volta, sul Corso, insieme alla sorella mentre salivano su questa macchina che mi avevano descritto, con due ragazzi molto grandi. E rideva. Non mi vide, ma anche se mi avesse visto, non mi avrebbe visto. Qualche giorno dopo, quando tornai a casa mia madre disse: ha chiamato Federica, dice se vi vedete domani mattina alle dieci alla Flora.
Non ero felice. Cioè, avrei dovuto essere felice – mi aveva chiamato, voleva vedermi – ma non avevo un buon presentimento.
La Flora era un piccolo parco che stava davanti alla nostra scuola. C’erano alberi giganteschi, un campo da basket, panchine, aiuole. Arrivai lí almeno un’ora prima. Ero venuto da solo, ma avrei tanto voluto venire con il mio amico e far parlare lui con Federica.
E invece, molto tempo dopo le dieci – non so quanto, mi erano sembrati alcuni mesi – anche Federica apparve da sola. Si sedette sulla panchina accanto a me, ma un po’ lontano. Mi chiese come stavo, quando sarei partito per le vacanze. Si vedeva che aveva preparato un discorso, ma stava aspettando. Poi lo fece. Disse che le stavo molto simpatico, ma lei non si considerava fidanzata con me già da tempo, vedeva degli amici della sorella, stava bene con loro, le sembrava di essere innamorata di un ragazzo molto grande, ma non sapeva nemmeno se lui se n’era accorto. Quindi voleva che restassimo amici, ci saremmo rivisti a scuola dopo le vacanze. Disse tutte queste cose nel modo migliore possibile, senza essere violenta, anzi. Io risposi solo: va bene – con gigantesca dignità (di cui ancora oggi sono molto orgoglioso). Fu un dialogo semplice e sereno. Ci fu un solo momento veramente difficile, quando si capí che detto quello che aveva da dire voleva andare via, però non sapeva se poteva farlo; né io avevo voglia di dirle che poteva andare, visto che volevo restare lí insieme a lei su quella panchina per tutto il resto della mia vita. Ma in quel periodo, appena pensavo qualcosa, accadeva il contrario. Infatti si alzò e andò via, dicendo solo: allora buone vacanze.
La guardai mentre si allontanava. Mentre la guardavo, riuscii a pensare l’ultima cosa bella: in fondo, quello era stato l’unico momento di reale fidanzamento che avevamo avuto. Avevamo parlato noi due soli, e avevamo parlato di noi due. Si sarebbe potuto obiettare che ci eravamo lasciati, e quindi avevamo parlato del nostro fidanzamento per chiuderlo. Ma in realtà lei mi aveva già lasciato da non so quanto tempo, solo che non me lo aveva ancora detto.
Di conseguenza, se vogliamo fare un resoconto onesto della mia storia d’amore con Federica, non ero presente nemmeno nel momento in cui mi ha lasciato.
Però eravamo stati insieme, per piú di cinque minuti, noi due. Da soli, a parlare di noi. E questo poteva essere considerato un fatto. Consumato questo pensiero, forte e positivo, quando fui sicuro che Federica fosse sparita dall’orizzonte, sentii una specie di onda violentissima addosso: il dolore arrivò come portato da una corrente, in quel momento e su quella panchina. Sentii che tutto crollava e non potevo farci niente, e cominciai a piangere in un modo cosí disperato che mi fece paura. Ma non riuscivo a trattenermi. Piansi un sacco di tempo, ma davvero tanto, e so anche quanto. Ogni tanto una vecchietta o una coppia di giovani si fermavano davanti a questo ragazzino disperato per chiedergli se potevano fare qualcosa, se avevo perso i miei genitori o era morto qualcuno. Io scuotevo la testa e non rispondevo, e loro alla fine si allontanavano. Piangevo in un modo cosí totale, senza prendere fiato e con le lacrime che scendevano una dietro l’altra senza pause, per minuti e minuti e mezzore e mezzore. Piangevo per Federica, per un dolore fortissimo che avevo dentro e al quale non ero preparato, per il semplice fatto che mi era del tutto sconosciuto. E piangevo per me, che mi sentivo l’ultimo al mondo, che sarei rimasto a vegetare su quella panchina per il resto dei miei giorni, visto che la vita non avrebbe avuto piú senso viverla.
Devo aver cominciato a piangere intorno alle dieci e mezza, forse piú tardi, ma forse anche prima, perché in fondo Federica aveva ritardato cinque o dieci minuti, forse, ed era rimasta seduta con me cinque minuti – forse. E ho smesso all’una e un quarto. Quindi ho pianto ininterrottamente per almeno due ore e mezza.
Ho smesso perché mentre piangevo cosí disperatamente, ho sentito dentro il mio stomaco qualcosa di riconoscibile. Avevo fame. Mentre piangevo, ho sentito fame. E quindi ho guardato l’orologio e mi sono reso conto che era ora di pranzo.
E cosí, continuando a piangere, ma di meno, smettendo di singhiozzare e pian piano smettendo di tirar fuori lacrime, mi sono incamminato verso il ristorante della mia famiglia, e quando sono arrivato i miei occhi erano asciutti anche se mia madre mi scrutava incuriosita e preoccupata. Sapeva che ero stato con Federica, quindi forse immaginava che fosse successo qualcosa – e cioè quello che era successo. Ma allo stesso tempo deve esserle sembrato impossibile, perché, anche se piú silenzioso del solito, mi sedetti al tavolo che era riservato alla nostra famiglia e cominciai a mangiare con voracità, dicendo soltanto passami il pane e passami l’acqua e se ne potrebbe avere un altro po’?
Nessuno mi chiese niente. Avevo il viso sfigurato da tutto quel pianto, ma il mio comportamento era quello solito. Credo che i miei genitori (però mia madre no), i miei fratelli, i camerieri del ristorante, i miei cugini, mia zia, abbiano tutti pensato che fosse successo qualcosa con qualche amico, cose tra ragazzi. Nessuno ha immaginato il baratro in cui mi aveva buttato – o forse aveva tentato di buttarmi – Federica.
Quando ho finito di mangiare, mi sono alzato e me ne sono andato a casa. Mi sono lasciato cadere sul letto e ho ricominciato a piangere, pensando che il mondo, per me, era finito quella mattina alla Flora.
Era la prima volta che avevo a che fare con un dolore per un sentimento, con una disperazione per un sentimento – anzi era la prima volta che avevo a che fare con un sentimento.
Il momento in cui mi sono alzato per andare a pranzo, il gesto di sollevarmi da quella panchina, credo sia stato un gesto decisivo. Potevo soccombere, e invece un bisogno primario mi ha tirato via. Ho attestato il fatto che la vita quotidiana, e i suoi istinti, avessero un valore piú grande di qualsiasi elemento disturbante, o addirittura devastante, nella mia vita. Ho attestato la superiorità dei bisogni primari su qualsiasi atto complesso dell’esistenza di un essere umano e delle sue relazioni. Se il mondo non è finito, posso attribuirlo al mio istinto potentissimo di sopravvivenza. Ho detto a me stesso, e all’umanità, con un solo gesto inconsapevole, quindi istintivo, quindi assoluto: ho fame. E in qualche modo, ho anche detto a me stesso una cosa che sarebbe stata irremovibile per il resto della mia esistenza: ce la posso fare. Se riesco ad alzarmi dalla panchina, se ho fame anche quando sento di essere l’ultimo al mondo; se anche l’ultimo, il piú devastato dal dolore, cioè l’adolescente che si sente dire che non conta nulla, che il mondo sta da un’altra parte, che ci sono quelli piú grandi che rappresentano la felicità che tu non sei in grado di rappresentare; se succede questo nel momento in cui un ragazzino può essere spezzato per sempre, essendo un fuscello sbattuto dalla tempesta; se resiste, in modo naturale; allora non potrà distruggerlo nessuno. Ci deve essere qualcosa, che non so da dove arrivi, che mi presta una forza che non è mia.
Ho pensato tutte queste cose, nel corso degli anni. Ma in quel momento mi sono alzato perché era ora di pranzo, e avevo fame. E non solo: mi sono alzato e sono andato a pranzo perché quello che piangeva non ero veramente io. Non so se avrei voluto essere io, ma certo il modo in cui ho cominciato questo libro dà un’idea parziale di me; anzi, probabilmente opposta. Per il resto del tempo, tutto il tempo prima e dopo Federica, e anche durante il fidanzamento con Federica (del tutto astratto), la mia vita era molto diversa; per questo la percezione della fame è stata rassicurante: mi ha riportato in mezzo al mio mondo, mi ha fatto assomigliare ai miei amici, che in quel momento stavano di sicuro tornando tutti a casa perché avevano fame. Se non avessi avuto fame sarei stato un ragazzo solitario e sentimentale, abbandonato alla sua disperazione sulla panchina. Insomma, avevo scritto F&F sui quaderni, e l’avevo fatto un po’ di volte: se uno di quei quaderni fosse finito in mano ai miei amici, cosa avrebbero pensato di me?
A vent’anni ero gracile e avevo passato la maggior parte del tempo alla ricerca di un’identità. Giocavo a basket nelle serie inferiori, avevo una tecnica sufficiente, ero stimato dagli allenatori per la razionalità, la capacità di scegliere le soluzioni adeguate alla situazione della partita. Ma a un certo punto cominciò a venire fuori una rabbia immotivata, che non potevo ricondurre a niente; avevo qualche cosa dentro e volevo tirarla fuori. Non c’era nessun altro posto dove farlo. Questo significò perdere un po’ il controllo di me stesso, ma anche far venire fuori un giocatore di basket piú forte, piú sfacciato, con piú personalità. Per dire, quando le partite finivano punto contro punto, prima sapevo sempre chi cercare tra i miei compagni per avere la possibilità piú alta di segnare, adesso chiedevo all’allenatore se potevo tirare io; oppure tiravo io e basta.
Al termine della finale dei playoff, avrò realizzato gli ultimi otto punti consecutivi, cioè due tiri da tre, e poi il canestro della vittoria definitiva facendo la serpentina in mezzo agli avversari. Sarò uscito dal campo a pochi secondi dalla fine con tutti in piedi ad applaudirmi. Avremo conquistato la promozione nella serie superiore, davanti a un sacco di gente e a tutti i miei amici. Ma in questa partita, dove alla fine sarò l’eroe, non riesco a dimenticare ciò che è avvenuto alla prima azione: ho la palla, vedo un varco e vado verso il canestro; il difensore, quando capisce che sta per perdermi, alza il braccio e fa partire un colpo di karate sulle mie braccia, come per dirmi che non ci devo provare piú. L’arbitro è a due metri da me, com’è ovvio fischia subito il fallo, ma mentre lui fischia io mi sono già girato di scatto verso il mio avversario e gli sputo in faccia, letteralmente, con un istinto rapidissimo. L’avversario rimane immobile, incredulo. Poi guardo l’arbitro e vedo che mi guarda, e non è possibile che non abbia visto, credo abbia deciso in pochi secondi se doveva far finta di non aver visto oppure cacciarmi fuori. Non saprò mai perché ha deciso di non aver visto.
In quegli anni la nostra squadra era forte, vincevamo spesso, ma c’era una squadra di Napoli contro la quale perdevamo sempre.
Un giorno che giocavamo contro di loro, stavamo perdendo di nuovo di parecchi punti e sentivo una grande frustrazione, esasperata dal comportamento degli arbitri che in maniera insensata fischiavano spesso a favore della squadra di Napoli, o almeno cosí ci sembrava. A un certo punto sentii il fischio dell’arbitro, capii che stava fischiando un fallo a me ed era assurdo perché non avevo fatto niente. Quindi mi avvicinai con rabbia e gli dissi qualcosa di molto violento, perché lui, immediatamente, guardandomi dritto negli occhi, sfidandomi, mi fischiò fallo tecnico; in quel momento mi partí, da non so dove, uno schiaffo in faccia all’arbitro. Tutto questo, nello stupore generale; nello stupore dell’arbitro che non aveva mai subito una cosa del genere; e nello stupore mio, un quarto di secondo dopo, perché mi resi conto di aver fatto un gesto che non si può proprio fare, ma soprattutto che non immaginavo che avrei mai fatto.
Fui immediatamente espulso, me ne andai dritto negli spogliatoi, presi a calci tutto quello che c’era e buttai le panchine per aria e gli armadietti a terra – cosa che nella mia carriera di giocatore di basket, in seguito, mi è successa parecchie volte: quando sono stato espulso, quando l’allenatore mi ha fatto incazzare, quando abbiamo perso una partita ingiustamente, quando ero incazzato con i miei compagni, quando ero incazzato con me stesso.
Poi me ne andai a casa senza nemmeno aspettare che la partita finisse. Ovviamente la faccenda non si chiuse lí. Fu uno scandalo, finí sul giornale locale. E soprattutto fui immediatamente squalificato non per un numero di giornate di campionato, ma per un tempo di, mi pare, sei mesi.
Pochi giorni dopo arrivò dalla federazione nazionale la convocazione per il processo sportivo, che si sarebbe svolto a Roma. L’oggetto era: radiazione. Cioè, squalifica per tutta la vita.
A quel processo andai con mio padre, che era uno dei dirigenti della squadra. Il giorno in cui avevo dato lo schiaffo all’arbitro lui non c’era. Ma quando lo seppe smise di parlarmi e soprattutto si sentí umiliato e questa umiliazione volle viverla fino in fondo accompagnandomi come dirigente, oltre che come padre, a quel processo. Era sconvolto e disperato per quello che avevo fatto.
Prendemmo il treno, andammo insieme a Roma, ci fermammo a mangiare in un ristorante vicino alla sede della federazione, senza mai dirci una parola. Solo una volta, in treno, mio padre disse, come se stessimo parlando da ore: comunque cerca di far capire che tu non sei cosí e che noi non ti abbiamo educato cosí.
Arrivati in federazione fummo accolti con freddezza, come due delinquenti. Ci fecero sedere nella sala d’aspetto. Poi, quando entrammo in questa specie di aula di tribunale, in cui c’era un giudice della commissione federale e altri membri accanto, mi fecero sedere in mezzo alla stanza. Era un po’ un processo e un po’ qualcosa di molto simile all’esame di maturità. Mio padre era su una sedia di lato, pallido e umiliato, e potevo vederlo: stava sempre con la testa bassa, gli occhi che guardavano il pavimento. E vedevo che ogni volta che parlavano i giudici, descrivendo il gesto che avevo compiuto, e poi ogni volta che parlavo io, lui faceva soltanto cenno di sí con la testa, nella speranza che venissero accolte le mie scuse e che finisse presto.
Il giudice mi chiese se ero consapevole che si stava discutendo della radiazione dai campi di basket, per sempre. Poi ci fu un silenzio molto lungo, in cui vidi mio padre con la testa ancora piú bassa, quasi in mezzo alle gambe, e pensai che forse da quella posizione non si sarebbe alzato mai piú. Io, che ero una persona ormai adulta, mi ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’animale che mi porto dentro
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright